BREVE GUIDA SUL MEDIATORE ED IL MERCATO IMMOBILIARE

1. LA MEDIAZIONE

A) Premessa

L'attività di mediazione può essere inquadrata nelle attività ausiliarie di natura commerciale, previste dall'art. 2195 del c.c., quest'ultime caratterizza­te dall'organizzazione autonoma dei soggetti che le pongono in essere, e rivol­te principalmente a facilitare lo scambio di beni e/o servizi. L’Agente immobiliare, a cui questo volume è dedicato, è un mediatore, quin­di un imprenditore, con tutte le responsabilità e caratteristiche che derivano da tale veste giuridica, fatta eccezione per l'attività svolta occasionalmente o come piccolo imprenditore (art. 2083 c.c.). In questo capitolo, analizzeremo prima gli aspetti civilistici, poi quelli legi­slativi sulla mediazione e, infine, confronteremo tale attività con il contratto di Mandato, contrapposto giuridicamente, ma non incompatibile con l'attivi­tà dell'Agente Immobiliare.

B) La disciplina del Codice Civile (Arti. 1754‑1765, Art. 2950 c.c.)

 

1) Il mediatore

«Il mediatore è colui che mette in relazione due o più parti, senza essere lega­to ad alcuna di esse, da rapporti di collaborazione, di dipendenza o di rappresen­tanza» (art.1754 c.c.).

Dal citato articolo, si evince che il mediatore è un soggetto imparziale, non può avere nessun legame giuridico con le parti, di conseguenza possiamo af­fermare che la mediazione fa sorgere un semplice rapporto chiamato onere. Ciò significa che, se il mediatore non vorrà o non potrà più portare a termi­ne l'incarico ricevuto da una parte, non andrà incontro a responsabilità con­trattuale, ma solo a responsabilità extra‑contrattuale (risarcimento in base a quanto stabilito nell'incarico, ma non esecuzione forzata dello stesso). È chia­ro che questo tipo di responsabilità si estende anche alla parte che ha dato l'incarico.

 

2) Provvigione

«Il mediatore ha diritto alla provvigione da ciascuna delle parti, se l’affare è concluso per effetto del suo intervento.

La misura della provvigione e la proporzione in cui questa deve gravare su ciascuna delle parti, in mancanza di patto, di tariffe professionali o da usi, sono determinate dal giudice, secondo equità» (art. 1755 c.c.).

L’elemento determinante per il diritto alla provvigione è, quindi, il nesso di causalità fra l'affare che si è concluso e l'intervento del mediatore, non avendo nessuna rilevanza né la forma data all'incarico, né il buon esito dell'affare. Ciò vuol dire che, se le parti successivamente, decidessero di non tener fede agli impegni contrattuali, il mediatore non è tenuto a ripetere quanto ricevuto a titolo di provvigione, o, se non l'avesse ancora ricevuta, ha comunque il diritto di esigerla. La doppia provvigione è la normale conseguenza del rapporto imparziale con le parti.

 

3) Rimborso delle spese

«Salvo patti o usi contrari, il mediatore ha diritto al rimborso delle spese nei confronti della persona per incarico della quale sono state eseguite anche se l’affare non si è concluso» (art. 1756 c.c.).

Tale disposizione risponde alla logica che non si può sminuire l'attività del mediatore da un punto di vista economico, anche se non raggiunge l'obiettivo prefissato.

 

4) Provvigione nei contratti condizionali o invalidi

«Se il contratto è sottoposto a condizione sospensiva, il diritto alla provvigio­ne sorge nel momento in cui si verifica la condizione. Se il contratto è sottoposto a condizione risolutiva, il diritto alla provvigione non viene meno col verificarsi della condizione.La disposizione del comma precedente, sì applica anche quando il contratto è annullabile, o rescindibile, se il mediatore non conosceva la causa d'invalidità» (art. 1757 c.c.).

Ricordiamo che la condizione è un elemento accidentale del contratto ed è quell'evento futuro ed incerto, al verificarsi del quale, il contratto co­mincia a produrre i suoi effetti (condizione sospensiva); o quell'evento al verificarsi del quale il contratto cessa di produrre i suoi effetti (condizione risolutiva). Nel primo, caso perciò il diritto del mediatore alla provvigione è riman­dato o sospeso al verificarsi dell'evento, mentre nel secondo caso, vista la validità immediata del contratto, non si può non riconoscere subito la prov­vigione al mediatore e neanche fargli correre il rischio di restituire quanto ricevuto se si dovesse verificare l'evento futuro e incerto previsto dalla con­dizione. L'annullabilità del contratto può verificarsi per vizi della volontà o per violenza psichica, mentre la rescissione, può essere richiesta per contratti conclusi in stato di bisogno o in stato di pericolo.

 

5) Pluralità di mediatori

«Se l’ affare è concluso per l'intervento di più mediatori, ciascuno di essi ha diritto a una quota della provvigione» (art. 1758 c.c.).

La quota spettante a ciascun mediatore è determinata in proporzione al­l'entità del suo intervento.

 

6) Responsabilità del mediatore

«Il mediatore deve comunicare alle parti le circostanze a lui note, relative alla valutazione e alla sicurezza dell'affare, che possono influire sulla conclusione di esso. Il mediatore risponde dell’autenticità delle sottoscrizione delle scritture e del­l’ultima girata dei titoli trasmessi per il suo tramite» (art. 1759 c.c.).

L’obbligo del mediatore di riferire alle parti tutto ciò di cui è a conoscenza affinché si formi la volontà negoziale, nonché la responsabilità sull'autentici­tà delle firme sugli atti da lui trasmessi, sono normali conseguenze del princi­pio della buona fede contrattuale, a cui il mediatore deve sempre e comunque ispirarsi.

 

7) Obblighi del mediatore professionale

«Il mediatore professionale in affari su merci o su titoli deve:

1)      conservare i campioni delle merci vendute sopra campione finché sussista la possibilità di controversia sull'identità della merce;

2)       rilasciare al compratore una lista firmata dei titoli negoziati, con l'indicazione della serie e del numero;

3)       annotare su apposito libro, gli estremi essenziali del contratto che. si stipula col suo intervento e rilasciare alle parti copia da lui sottoscritta di ogni annotazione» (art. 1760 c.c.).

Quanto esposto in questo articolo riguarda soltanto il mediatore merceo­logico o in titoli, non riguarda, invece, l'agente immobiliare o il mandatario a titolo oneroso nel campo immobiliare.

 

8) Rappresentanza del mediatore

«Il mediatore può essere incaricato da una delle parti di rappresentarla negli atti relativi all'esecuzione del contratto concluso con il suo intervento» (art. 1761 c.c.).

Come abbiamo evidenziato, l'art. 1754 c.c. vieta al mediatore di rappresentare una delle parti: tale divieto si riferisce al momento che precede la conclusione del contratto, ma una volta raggiunto l'accordo, la rappresentanza è ammessa.

 

9) Contraente non nominato

«Il mediatore che non manifesta a un contraente il nome dell'altro, risponde dell’esecuzione del contratto concluso con il suo intervento» (art. 1762 c.c.).

Nel contratto per persona da nominare, regolarmente previsto dal nostro codice, il soggetto che non ha manifestato alla parte il nome dell'altro contra­ente, ha l'obbligo di comunicarglielo entro 3 giorni, dalla stipula, altrimenti, risponde dell'esecuzione del contratto, come previsto, appunto in questo arti­colo, riferito al mediatore.

 

10) Fideiussione del mediatore

«Il mediatore può prestare fideiussione per una delle parti» (art. 1763 c.c.).

Tale facoltà è ammessa anche prima che le parti raggiungano l'accordo, senza per questo violare, il principio dell'imparzialità. Ricordiamo che la fi­deiussione è una garanzia personale.

 

11) Sanzioni

«Il mediatore che non adempie agli obblighi imposti dall’art. 1760 è punito con la sanzione amministrativa da lire 10.000 a lire 1.000.000» (da euro 5 a euro 516) (art. 1764 c.c.).

Tale disposizione si applica solo ai mediatori professionali in merci e in titoli.

 

12) Leggi speciali

«Sono salve le disposizioni delle leggi speciali» (art. 1765 c.c.).

Le leggi speciali riguardano rami particolari di mediazione che non rien­trano appunto nella previsione della L. 3 febbraio 1989, n. 39 (es.: mediatori marittimi).

 

13) Prescrizione della provvigione

«Il diritto alla provvigione per il mediatore si prescrive in un anno» (art. 2950 c.c.).

Oltre ad evidenziare il tempo entro il quale si compie la prescrizione del diritto alla provvigione, bisogna comunque aggiungere che, affinché tale di­ritto possa essere legittimamente esercitato, vi è l'obbligo per il mediatore di essere iscritto nell'apposito ruolo tenuto presso la Camera di Commercio: Il Ruolo degli Agenti di Affari in Mediazione.

2. QUADRO LEGISLATIVO SULLA MEDIAZIONE

Passando ora, ad analizzare le leggi che si sono susseguite, nel tempo, per l'attività di mediazione, occorre partire da molto lontano e cioè dal 1913.

 

Le leggi in materia sono state le seguenti:

1)      L. 20 marzo 1913, n. 272;

2)      L. 21 marzo 1958, n. 253;

3)      L. 3 febbraio 1989, n. 39, seguita da tre decreti attuativi:

‑ D.M. 21 febbraio 1990, n. 300;

‑ D.M. 21 dicembre 1990, n. 452;

-          D.M. 7 ottobre 1993, n. 589;

4)      L. 5 marzo 2001, n. 57.

 

Con la L. 272/13 si sancisce la libertà nell'esercizio della mediazione ordi­naria, mentre si prevede un'autorizzazione speciale per i cosiddetti mediatori pubblici (agenti di cambi, mediatori marittimi ecc.).

La L. 253/58 istituisce un Ruolo Ordinario per tutti quei mediatori che, in base alla legge precedentemente in vigore potevano esercitare liberamente, ed un Ruolo Speciale per i mediatori pubblici già vincolati precedentemente.

La vera innovazione in materia si ha con la L. 39/89, che disciplina detta­gliatamente tutti gli aspetti riguardanti l'istituzione di un nuovo Ruolo, che prenderà il nome di Ruolo degli Agenti di Affari in Mediazione. Rimarrà invariata la disciplina riguardante i Ruoli Speciali. Infine, l'ultima legge la n. 57/2001 ha abrogato alcune disposizioni della L. 39/89, in riferimento soprattutto ai requisiti da possedere per l'iscrizione al ruolo e ha introdotto alcune importanti novità per lo svolgimento dell'attività di mediazione.

3. LEGGE 3 FEBBRAIO 1989, N. 39

A) Il Ruolo degli Agenti di Affari in Mediazione

L'art. 2 della citata legge sancisce l'obbligatorietà dell'iscrizione al Ruolo degli agenti di affari in mediazione sia per la mediazione professionale che per quella occasionale.

Il Ruolo, tenuto presso tutte le Camere di Commercio di tutte le Provincie italiane, è attualmente diviso in quattro sezioni:

1)      Agenti immobiliari: è la sezione che accoglie le iscrizioni di tutti coloro che operano sia in forma professionale che occasionale, come mediatori nel settore immobiliare cioè in forza di incarico e non di contratto;

2)      Mandatari a titolo oneroso nel campo immobiliare: sezione, che si dif­ferenzia dalla precedente, per il semplice fatto che chi si iscrive in essa può operare come mandatario cioè in forza di un regolare contratto di manda­to, sempre ovviamente nel campo immobiliare;

3)      Agenti merceologici: l'agente merceologico, lo dice la parola stessa, è un mediatore di beni mobili (merci) (v. art. 1754 c.c.) e si differenzia, per esem­pio dall'Agente di Commercio, proprio perché quest'ultimo è legato ad un'azienda da un rapporto stabile (contratto di agenzia);

4)   Agenti in servizi vari: questa sezione accoglie le iscrizioni di tutti quei mediatori che operano nel campo dei servizi ad esclusione di quelli credi­tizi. Citiamo, a tale proposito, la Legge n. 108 del 7 marzo 1996, che in riferimento a casi di usura, istituiva, tra l'altro, l'Albo dei Mediatori cre­ditizi sotto il controllo, dell'allora Ministero del Tesoro, oggi Ministero dell'economia e delle finanze. Tali mediatori si iscrivevano comunque nel­la sezione Agenti in servizi vari. A partire, invece, dal `2000 e precisamente col D.P.R. n. 287 del 28 luglio 2000, per dare attuazione a quanto previ­sto dalla L. 108/96, la competenza in materia creditizia è stata trasferita all'Ufficio Italiano Cambi, ed è stata perciò sottratta alle Camere di Com­mercio. I mediatori creditizi oggi si iscrivono soltanto in questo apposito elenco tenuto presso l'Ufficio Italiano Cambi e non più alla sezione Agen­ti in servizi vari.

 

B) Iscrizione al Ruolo

B.1) Requisiti per l'iscrizione

1) Requisiti personali:

-          essere cittadini italiani o cittadini di uno degli stati membri dell'Unione Europea ovvero stranieri con residenza in Italia;

-          avere il godimento dei diritti civili;

-          risiedere nella Provincia della Camera di Commercio in cui si chiede l'iscri­zione: per i cittadini UE è sufficiente che abbiano eletto domicilio presso la Provincia della CCIAA presso la quale chiedono l'iscrizione, così anche per gli italiani residenti all'estero;

-          la L. 5 marzo 2001, n. 57, dispone, però, che la licenza media non è più sufficiente per l'iscrizione al Ruolo, ma è obbligatorio essere in possesso di un diploma di scuola secondaria di secondo grado di qualsiasi indirizzo. Al riguardo precisiamo che è sufficiente anche un diploma di qualifica conse­guito al termine di un triennio di studi successivi al triennio della scuola media.

La L. 12 dicembre 2002, n. 273 con l'art. 40, contenente disposizioni transitorie per l'iscri­zione al Ruolo degli agenti di affari in mediazione, ha stabilito che quanti avessero iniziato la frequenza di corsi di formazione per l'iscrizione al ruolo degli agenti di affari in mediazione (di cui all'art. 2 della legge 3 febbraio 1989, n. 39, come modificato dall'ars. 18 della legge 5 marzo 2001, n. 57) prima della data di entrata in vigore della medesima legge n. 57 del 2001, hanno diritto all'iscrizione nel ruolo medesimo, anche se privi del titolo di studio normal­mente richiesto, a condizione che:

-          abbiano superato gli esami di idoneità relativi al corso frequentato, anche successiva­mente alla data di entrata in vigore della legge 5 marzo 2001, n. 57;

-          siano in possesso del titolo di studio richiesto dalla previgente normativa;

-          siano in possesso degli altri requisiti previsti dalla legge 3 febbraio 1989, n. 39, e successi­ve modificazioni.

 

2)Requisiti morali:

-          l'art. 2 della L. 39/89 fa un elenco di tutta una serie di reati e di fattispecie concrete ostative all'iscrizione al Ruolo come per esempio: esser stati sot­toposti a misure di prevenzione divenute definitive; essere incorsi in reati puniti con la reclusione; essere stati dichiarati interdetti, inabilitati, falliti; aver commesso delitti contro la Pubblica Amministrazione ecc. Va precisa­to al riguardo, che a seguito dell'emanazione del D.Lgs 30 dicembre 1999, n. 507, contenente norme sulla depenalizzazione dei reati minori, è stata modificata la disciplina relativa ad alcune violazioni che in precedenza costituivano reato e che, col citato decreto, appunto, sono stati depenaliz­zati.

 

Facciamo qualche esempio di fatti che non costituiscono più impedimento all'iscrizione al Ruolo:

-          l'emissione di assegni a vuoto;

-          l'oltraggio a Pubblico Ufficiale;

-    i delitti colposi, cioè quei delitti commessi, non con l'intenzione di nuocere, ma soltanto a seguito di imprudenza, imperizia e superficialità.

Continuano, invece, a costituire impedimento all'iscrizione i delitti dolosi, cioè quei delitti in cui è presente l'effettiva intenzione di cagionare il danno da parte del suo autore;

-          l'esistenza o l'assenza di precedenti penali viene accertata con il certificato penale del Casellario Giudiziale che viene richiesto dalle Commissioni Provinciali alle competenti Procure. La nuova normativa sull'autocertificazio­ne agevola l'aspirante all'iscrizione, il quale può semplicemente dichiara­re, senza formalità specifiche, di possedere i requisiti morali, restando a carico della Commissioni Provinciali il compito di effettuare i successivi controlli.

 

3) Requisiti professionali:

1) avere frequentato un corso di formazione preparatorio e aver superato un esame camerale in relazione al ramo di mediazione prescelto. Le modalità degli esami sono state indicate nel D.M. n. 300 del 21 febbraio 1990 il quale ha previsto:

-          due prove scritte (una su materie giuridiche e una su materie tecniche) e una orale per l'iscrizione alla sezione degli agenti immobiliari e dei mandatari a titolo oneroso nel campo immobiliare;

-          una prova scritta e una orale per l'iscrizione nella sezione degli agenti merceologici e per gli agenti in servizi vari;

2) in alternativa alla prima ipotesi, si può anche avere effettuato un periodo di pratica di almeno dodici mesi con l'obbligo di frequenza ad uno specifi­co corso professionale. Questa possibilità, non è però, al momento concre­tamente realizzabile, in quanto manca il decreto di attuazione alla seguen­te disposizione da parte del Ministero delle Attività Produttive, circa le modalità e le caratteristiche del titolo di formazione, dell'esame e della tenuta del registro dei praticanti;

3) prima della L. 57/2001, esisteva anche una terza possibilità: ottenere l'iscri­zione al Ruolo, senza sostenere nessun esame, se l'interessato era in pos­sesso di un diploma di ragioniere o di una laurea in materie giuridico-­economiche o lauree equipollenti. Oggi questo non è più possibile, così come non è più possibile sostituire il corso preparatorio, di cui abbiamo parlato nella prima ipotesi, con un periodo di lavoro, di almeno due anni, negli ultimi 5 anni in una impresa di mediazione.

 

B.2) Iscrizione persone fisiche ‑ Incompatibilità

Le persone fisiche si iscrivono presso la Camera di Commercio della propria residenza, ma l'attività può essere svolta su tutto il territorio nazionale. Se si cambia residenza bisogna comunicarlo, entro novanta giorni, sia alla Camera di Commercio che si lascia sia a quella nuova.

L’attività di mediazione è incompatibile:

-          con qualsiasi impiego pubblico a meno che non si scelga il part‑time al 50%;

-          con qualsiasi impiego privato in generale;

-          con qualsiasi altra attività svolta in qualità di lavoratore autonomo o di imprenditore: in questo caso il mediatore può essere iscritto anche in altri albi, ruoli o registri a condizione che non svolga la relativa attività.

 

Non costituisce causa di incompatibilità:

-          essere dipendenti di un'impresa individuale o collettiva che svolge attività di mediazione;

-          essere iscritti al Registro delle imprese (iscrizione obbligatoria per tutte le

-          imprése individuali e collettive);

-          essere iscritti nell'Albo dei Periti e degli Esperti della Camera di Commercio e nell'Albo dei consulenti tecnici del giudice: il diritto di potersi iscrive­re negli albi predetti si acquisisce dopo tre anni di attività di mediazione svolta in modo professionale; ‑ essere iscritti anche in tutte le sezioni del Ruolo degli Agenti di Affari in Mediazione.

 

B.3) Iscrizione società

Per quanto riguarda le società, l'iscrizione deve essere effettuata presso la Camera di Commercio della provincia in cui la società ha la sede legale. Precisiamo che in questo caso i requisiti personali morali e professionali, nonché tutte le cause di incompatibilità sono riferiti al legale rappresentante e all'eventuale preposto. Le società di capitali si iscrivono tramite il loro rappresentante legale (può essere anche un soggetto esterno alla società), mentre, le società di persone si iscrivono tramite i soci amministratori ( per le S.n. c.) e tramite i soci acco­mandatari (per le S.a.s.). Ovviamente, in tutti i casi, i legali rappresentanti dovranno iscriversi anche a titolo personale.

 

C) La provvigione

Come abbiamo visto, il diritto alla provvigione spetta al mediatore per gli affari conclusi grazie al suo intervento, ma bisogna ricordare che tale diritto è subordinato all'iscrizione nel Ruolo degli agenti di affari in Mediazione, sia se l'attività è stata svolta in maniera professionale, sia se sia stata svolta in ma­niera occasionale. Inoltre, se la misura della provvigione non era stata stabilita con le parti contraenti, questa potrà essere determinata dalla Giunta Camerale dopo aver sentito il parere della Commissione Provinciale, o in caso di controversia, dal Giudice, secondo equità.

 

D) Moduli e formulari per l'esercizio dell'attività di mediazione

Il mediatore, che per l'esercizio della sua attività utilizza moduli o formu­lari, è obbligato a depositarne copia obbligatoriamente, presso la Commissio­ne Provinciale della Camera di Commercio presso la quale è iscritto.

Inoltre tali moduli e formulari:

‑ devono essere facilmente comprensibili ed essere ispirati al principio della buona fede contrattuale;

‑ devono contenere obbligatoriamente gli estremi dell'iscrizione del mediatore al Ruolo.

Se tali formalità non venissero rispettate, il mediatore può essere punito con sanzioni amministrative pecuniarie o con sanzioni disciplinari.

E) Organi preposti alla tenuta e alla gestione del Ruolo

Tali organi sono:

1)     la Commissione Provinciale;

2)      la Commissione Centrale;

3)      la Giunta Camerale.

 

1) La Commissione Provinciale è l'organo preposto alla tenuta del Ruolo ed è nominata dalla Giunta Camerale e dura in carica quattro anni. È compo­sta da un componente della Giunta Camerale, cinque rappresentanti degli agenti di affari in mediazione e tre rappresentanti, dei settori: commercio, industria e agricoltura.

Le principali funzioni sono:

-          effettuare iscrizioni, o variazioni del Ruolo ed esaminare la documentazio­ne presentata;

-          fornire pareri, qualora fosse richiesto dalla giunta Camerale, sulle provvi­gioni per la mediazione;

-          fornire alle Giunte Camerali tutte le notizie utili, affinché queste ultime possano esercitare i loro poteri in materia di sanzioni disciplinari;

-          revisionare il Ruolo ogni quattro anni e provvedere alla pubblicazione del­lo stesso, ogni anno;

-          provvedere all'applicazione di sanzioni pecuniarie sia a carico dei media­tori professionali, che di quelli abusivi.

 

2) La Commissione Centrale, nominata dal Ministero dell'industria, commercio e artigianato, ora Ministero delle Attività Produttive, provvede:

-          ad armonizzare a livello nazionale, le attività, soprattutto in materia di esami camerali, di tutte le Camere di Commercio d'Italia;

-          giudica sui ricorsi presentati dai mediatori, contro i provvedimenti disci­plinari, decisi dalla Giunta Camerale.

 

3) La Giunta Camerale, è un organo collegiale della Camera di Commercio e le sue funzioni sono sostanzialmente quelle di:

-          decidere sui provvedimenti disciplinari a carico dei mediatori;

-          determinare la provvigione, nel caso non fosse già stata pattuita dalle parti.

 

F) L'esame camerale abilitante all'iscrizione al Ruolo

L'esame camerale di cui all'art.2, comma 3, lett. e) della L. 39/89, rivolto ad accertare le capacità tecnico‑professionali dei candidati, è stato disciplinato, nel dettaglio dal D.M. n. 300 del 21 febbraio 1990.

 

F1) Sezione Agenti Immobiliari e Mandatari

In particolare, per la sezione Agenti Immobiliari e Mandatari a titolo one­roso nel campo immobiliare, sono previste due prove scritte e una orale. Il primo scritto verte su materie giuridiche, e il secondo su materie tecnico­immobiliari (stime, tipologie edilizie ecc.). Sono ammessi alla prova orale solo coloro che abbiano ottenuto una votazione media di almeno sette deci­mi nelle prove scritte e una votazione di almeno sei decimi in ciascuna di esse.

 

F2) Altre sezioni

Esame per le altre sezioni consta di una sola prova scritta e di una orale. In questo caso l'ammissione alla prova orale è subordinata alla votazione di almeno sette decimi alla prova scritta.

La Commissione giudicatrice è presieduta dal Segretario generale della Camera di Commercio ed è composta da altri quattro membri: due di essi sono docenti di scuola secondaria superiore nelle materie sulle quali vertono le prove di esame; gli altri due membri sono degli agenti scelti tra i componen­ti effettivi della Commissione Provinciale.

 

G) Sanzioni disciplinari

Abbiamo detto che una delle principali funzioni della Giunta Camerale è quella di decidere sull'irrogazione ai mediatori di sanzioni disciplinari per comportamenti che risultino scorretti, per la violazione del principio della buona fede contrattuale o per il venir meno di alcuni requisiti fondamentali per poter essere iscritti. Esse sono:

1) la sospensione: è il provvedimento di minore gravità deciso verso quei mediatori che abbiano turbato lievemente 1 andamento del mercato, oppure abbiamo commesso delle irregolarità (accertate) nell'esercizio della pro­fessione. Tale provvedimento non può avere una durata superiore a sei mesi. La Giunta può decidere di sospendere il mediatore dalla professione anche qualora sia in corso un procedimento per uno di quei delitti che impediscono l'iscrizione al Ruolo, e in questo caso, la sospensione opere­rebbe fino al termine del giudizio;

2) la cancellazione: si applica qualora il mediatore eserciti un'attività in­compatibile con la mediazione, oppure abbia perso i requisiti morali;

3) la radiazione: è il provvedimento più grave perché comporta la cancella­zione permanente dal Ruolo. Essa può verificarsi:

-          nei confronti di quegli agenti che abbiano turbato gravemente l'anda­mento del mercato;

-          nei confronti degli agenti, che nel periodo di sospensione loro inflitto, compiano atti attinenti al loro ufficio;

-          nei confronti di quegli agenti che abbiano subito per tre volte il provve­dimento di sospensione.

 

L’adozione dei provvedimenti disciplinari è preceduta dall'invito all'inte­ressato a comparire davanti alla Giunta Camerale entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione. Del provvedimento disciplinare va redatto apposito verbale, sottoscritto dal Presidente e dal segretario della Giunta. Di tale verbale deve esserne data comunicazione all'interessato, entro quindici giorni dalla data di adozione, mediante raccomandata con avviso di ricevimento. Le deliberazioni relative ai provvedimenti disciplinari sono affisse nell'al­bo camerale. L'eventuale ricorso contro il provvedimento adottato, presentato entro trenta giorni dall'interessato, alla Commissione Centrale, ha effetto sospensivo. In caso di cancellazione, l'agente può essere nuovamente iscritto, purché provi che è venuta a cessare la causa che l'aveva determinata (per esempio dopo aver ottenuto, dal Tribunale, una sentenza di riabilitazione civile o, per i reati, anche una sentenza di riabilitazione penale).

 

H) Sanzioni amministrative

Le sanzioni in oggetto sono state previste prevalentemente per combattere l'abusivismo nella professione, ma anche per il mancato deposito dei formu­lari presso le Commissioni provinciali o per l'utilizzo di formulari diversi da quelli depositati (negli ultimi due casi le sanzioni sono solo amministrative). In caso di esercizio abusivo della professione, sono posti a carico dell'agen­te i seguenti obblighi:

1)      restituire la provvigione;

2)      pagare una somma di denaro di importo compreso tra euro 516 e euro 2.065. Una volta ricevuto il verbale di accertamento della violazione, l'inte­ressato, se intende pagare subito, dovrà provvedere a versare all'Ufficio del Registro (ora Agenzia Territoriale delle Entrate) una somma pari ad un terzo del massimo cioè euro 688 con effetto liberatorio. Se, invece, non si vuole avvalere di tale beneficio, l'interessato può far pervenire alla Camera di Commercio competente, entro trenta giorni, eventuali scritti a sua dife­sa per il rigetto del provvedimento. Contro la successiva pronuncia della Camera di commercio è ammesso ricorso al Giudice di Pace.

 

Per il mancato rispetto della formalità del deposito dei moduli e dei formu­lari è prevista una sanzione amministrativa pecuniaria pari a euro 1.549; per chi utilizza moduli o formulari diversi da quelli depositati, invece, la sanzione è paria euro 516. Anche in questi casi vi può essere un pagamento liberatorio che ammonta, rispettivamente a euro 516 (se la sanzione è di euro 1.549); a euro 172 (se la sanzione è di euro 516).

 

I) Sanzioni penali

Chi incorre, per tre volte nella sanzione amministrativa pecuniaria per abusivismo nella professione, viene denunciato, all'autorità giudiziaria ed assoggettato alla sanzione penale prevista dall'art. 348 del Codice Penale cioè «...è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa da lire duecento­mila a un milione» (da euro 103 a euro 516). È applicabile altresì l'ari. 2231 del Codice Civile il quale prevede che «Quando l'esercizio di un'attività professionale è condizionato all'iscrizione in un albo o elenco, la prestazione eseguita da chi non è iscritto non gli dà azione per il pagamento della retribuzione. Inoltre la cancellazione dall'albo o elenco risolve il contratto in corso, salvo il diritto del prestatore d'opera al rimborso delle spese incontrate e a un compenso adeguato all'utilità del lavoro compiuto».

 

4. LA LEGGE 5 MARZO 2001, n. 57

Volendo fare un riepilogo delle principali novità introdotte dalla L. 57/2001,

rispetto a quanto precedentemente previsto dalla L. 39/89, possiamo riassu­mere quanto segue:

1)      il mediatore deve essere in possesso obbligatoriamente di un Diploma di Scuola secondaria di Secondo grado, non essendo più sufficiente la Licen­za media;

2)      non vi sono più titoli che consentono l'iscrizione immediata al Ruolo senza le ulteriori formalità previste dalla legge;

3)      l'iscrizione al Ruolo, oltre che con il corso di preparazione e successivo esame camerale, può essere ottenuta anche dopo aver svolto un periodo di pratica di almeno dodici mesi e aver frequentato un apposito corso profes­sionale. Di tale previsione, però, abbiamo già detto, non si può tener conto al momento, mancando il Decreto Ministeriale di attuazione;

4)      per poter sostenere l'esame camerale, non può più essere sostituito al cor­so di preparazione, il periodo di pratica, con regolare assunzione, di alme­no due anni negli ultimi cinque anni in un'attività di mediazione;

5)      il mediatore professionale deve stipulare obbligatoriamente una polizza assicurativa contro danni a terzi. Il capitale assicurato è di euro 260.000 per le ditte individuali; di euro 520.000 per le società di persone e di euro 1.550.000 per le società di capitali;

6)      l'attività di mediazione è incompatibile con qualsiasi attività pubblica o privata tranne che con altre attività di mediazione, sia come dipendenti che come imprenditori.

 

5. IL MANDATO E IL RUOLO ISTITUITO DALLA L. 39/89

Il Ruolo degli Agenti di Affari in Mediazione, è composto da una sezione dedicata ai Manda­tari a titolo oneroso nel campo immobiliare: tale previsione potrebbe sembra­re fuori luogo vista la profonda diversità esistente, a livello giuridico, tra man­dato e mediazione. La mediazione non è un contratto e non pone dunque a carico del mediatore nessun obbligo giuridico, mentre il mandato è un contratto previsto dal Part. 1703 del c.c., da cui scaturiscono precisi vincoli giuridici a carico delle parti: ad esso si applicano tutte le disposizioni del Codice Civile circa l'ina­dempimento, risarcimento e l'esecuzione forzata del contratto.

L’inserimento, perciò, della Sezione dei Mandatari a titolo oneroso nel Ruolo degli Agenti di Affari in Mediazione, è stato pensato dal legislatore al fine di accorpare e disciplinare (per alcuni aspetti) in modo uniforme due figure, quella del mediatore immobiliare e quella del mandatario, solo perché ope­ranti entrambi nel campo immobiliare, e di renderle compatibili tra loro.

 

6. GLI ARTICOLI DEL CODICE CIVILE SUL MANDATO (ARTT. 1703‑1730)

A)    Disposizioni generali

1) Nozione

Il mandato è un contratto con il quale una parte, detta mandante, conferi­sce all'altra, detta mandatario, il potere di compiere determinati atti giuridici per conto dell'altra. (art. 1703 c.c.).

Il mandato si inserisce dunque, tra i contratti consensuali ad effetti obbligato­ri, non essendo previsto il trasferimento di beni o di diritti di proprietà in genere.

 

2) Il mandato con rappresentanza e il mandato senza rappresentanza

Il mandato può conferire al mandatario la rappresentanza diretta o la rap­presentanza indiretta.

Il mandato con rappresentanza, detto anche con rappresentanza diretta, presuppone che il mandante abbia conferito, tramite procura, il potere al mandatario di agire in nome e per conto proprio. In questo caso, tutti gli atti che il mandatario compirà in nome e per conto del mandante produrranno immediatamente effetto nella sfera giuridica del mandante.

Possiamo dunque affermare, che la procura, è quell'atto giuridico unilate­rale col quale si conferisce ad un soggetto la rappresentanza diretta e non va confusa e non si identifica, assolutamente, col mandato.

A questo tipo di mandato si applicano anche le norme previste dagli artt. 1387 ss. c.c.

Il mandato senza rappresentanza, detto anche con rappresentanza indi­retta, invece, prevede che il mandatario agisca in nome proprio, ma per conto de mandante. In questo caso, il mandatario acquista i diritti e assume gli ob­blighi derivanti dagli atti compiuti con i terzi, anche se questi hanno avuto conoscenza del mandato.

I terzi non hanno nessun rapporto col mandante, tuttavia il mandante, sostituendosi al mandatario, può esercitare i diritti derivanti dall'esecuzione del mandato, salvo che ciò possa pregiudicare i diritti del mandatario (art. 1705 c.c.).

 

3) Gli acquisti del mandatario

Nel mandato senza rappresentanza, il mandatario può rivendicare le cose mobili acquistate per suo conto dal mandatario, fatti salvi i diritti acquistati dai terzi per effetto del possesso di buona fede, mentre se gli acquisti riguar­dano beni immobili o beni mobili registrati, il mandatario ha l'obbligo di ri­trasferire gli effetti degli atti da lui compiuti, con un successivo atto, al man­dante. Se ciò non avvenisse si osservano le norme sull'obbligo di contrarre previste dal Codice Civile. (art. 1706 c.c.).

 

4) Creditori del mandatario

Essi non possono far valere le loro ragioni sui beni, che in esecuzione del mandato, il mandatario ha acquistato in nome proprio, purché il mandato risulti da data certa anteriore al pignoramento, se trattasi di beni mobili. Se, invece, trattasi di beni immobili o di beni mobili iscritti in pubblici registri, deve essere anteriore al pignoramento la trascrizione dell'atto di ritrasferi­mento o la domanda giudiziale diretta a conseguirlo (art. 1707 c.c.).

 

5) Contenuto del mandato

Il mandato comprende non solo gli atti per il quale è stato conferito, ma anche quelli che sono necessari al loro compimento.

Inoltre, nel mandato generale, non sono compresi gli atti eccedenti l'ordi­naria amministrazione, a meno che non siano indicati espressamente (art. 1708 c.c.).

 

6) Presunzione di onerosità

Salvo diversa pattuizione tra le parti, il mandato si presume a titolo onero­so. La misura del compenso, se non è stabilita dalle parti, è determinata in base agli usi o alle tariffe professionali; in mancanza è determinata dal giudice(art. 1709 c. c.).

 

B) Obblighi del mandatario

1) Diligenza del mandatario

Il mandatario, è tenuto nell'esecuzione del mandato, ad usare la diligenza del buon padre di famiglia, ossia quella diligenza media, ispirata sempre al principio della buona fede, che possa evitare di cagionare danno, a sé e ad altri. Se il mandato è a titolo gratuito, la responsabilità per colpa è valutata con minor rigore. Inoltre il mandatario è tenuto a rendere noto al mandante tutte le circo­stanza nuove, che si fossero presentate alla sua attenzione, che potrebbero comportare revoca o modificazione del mandato (art. 1710 c.c.).

 

2) Limiti del mandato

il mandatario, non può eccedere i limiti fissati dal mandato. L:eventuale atto compiuto, fuori dal mandato, resta a sua carico, a meno che il mandante non lo ratifichi. In casi eccezionali, comunque, è consentito al mandatario di discostarsi dalle istruzioni ricevute: se non riesce a comunicare in tempo al mandante le circostanze nuove, e pensi ragionevolmente che il mandante le avrebbe co­munque accettate (art. 1711 c.c.).

 

3) Comunicazione mandato eseguito e obbligo del rendiconto

Il mandatario ha l'obbligo di comunicare tempestivamente al mandante, senza ritardo, l'eseguito mandato.

Se il mandante non risponde dopo tale comunicazione, tale silenzio è da intendersi come approvazione del mandato anche se il mandatario si fosse discostato dalle istruzioni ricevute o abbia ecceduto i limiti del mandato (art. 1712 c.c.).

Inoltre il mandatario è sempre obbligato a rendere conto al mandante del suo operato e a trasmettergli tutto ciò che ha ricevuto a causa del mandato (art.1713 c.c.).

 

4) Interessi sulle somme ricevute

II mandatario è tenuto a corrispondere gli interessi legali sulle somme ri­scosse per conto del mandante, con decorrenza dal giorno in cui avrebbe dovu­to consegnargliele o impiegarle secondo le istruzioni ricevute (art. 1714 c.c.).

  

5) Responsabilità del mandatario per le obbligazioni dei terzi

Se non è diversamente stabilito dalle parti, il mandatario che agisce in pro­prio nome non risponde verso il mandante dell'adempimento delle persone con le quali ha concluso affari, tranne il caso che l'insolvenza di queste gli fosse o dovesse essergli nota all'atto della conclusione del contratto (art. 1715 c.c.).

 

6) Pluralità di mandatari

Salvo patto contrario, il mandato conferito a più persone, che devono ope­rare congiuntamente, non ha effetto se non è accettato da tutte. Se non vi è nel mandato, la previsione che i mandatari debbano agire congiun­tamente, ciascuno di essi può concludere l'affare. Il mandante appena ricevuta la comunicazione della conclusione, deve darne notizia agli altri mandatari e se non provvede a ciò risponde dei danni derivanti dall'omissione o dal ritardo. Infine, se i mandatari hanno operato congiuntamente, essi sono comun­que obbligati in solido verso il mandante (art. 1716 c.c.).

 
7) Sostituto del mandatario

Se il mandatario, nell'esecuzione del mandato, sostituisce altri a se stesso, senza esservi autorizzato o senza che ciò sia necessario per la natura dell'inca­rico, risponde dell'operato della persona sostituita. Se il mandante aveva autorizzato la sostituzione, il mandatario risponde solo se vi sia colpa per scelta effettuata (per esempio, scelta di una persona non sufficiente preparata per il tipo di atto da compiere). Il mandatario risponde anche delle istruzioni impartite al sostituto. Infine, il mandante può agire anche direttamente contro la persona sosti­tuita dal mandatario (art. 1717 c.c.).

8) Custodia delle cose e tutela dei diritti del mandante

Il mandatario è tenuto a custodire tutte le cose che siano state consegnate o inviate per conto del mandante e tutelare i diritti di quest'ultimo di fronte al vettore, se le cose presentano deterioramenti o sono giunte con ritardo. Se vi fosse urgenza, (il compratore non adempie l'obbligazione di pagare il prezzo) il mandatario può procedere alla vendita per conto o a spese del debi­tore. Di questi fatti, come pure del mancato arrivo della merce deve darne tem­pestiva comunicazione al mandante (art. 1718 c.c.).

 C) Obblighi del mandante

1) Mezzi necessari per l'esecuzione del mandato

Il mandante, salvo diversa pattuizione tra le parti, è tenuto a fornire al mandatario i mezzi necessari per l'esecuzione del mandato e per adempiere alle eventuali obbligazioni che, a tal fine, il mandatario ha contratte a proprio nome (art. 1719 c.c.).

 
2) Spese e compenso del mandatario

Se il mandatario anticipa somme di denaro per conto del mandante, quest'ultimo deve rimborsargli le stesse somme comprensive degli interessi legali dal giorno in cui sono state sostenute e deve pagargli il compenso pattuito (art. 1720 c.c.).

 
 3) Diritto del mandatario sui crediti

Il mandatario ha un diritto di prelazione sui crediti pecuniari sorti dagli affari che ha concluso rispetto al mandante e ai creditori di questo (art. 1721 C.C.).

 D) Estinzione del mandato

1)     Cause di estinzione

Il mandato può estinguersi:

-          per la scadenza del termine o per il compimento da parte del mandatario

-          degli atti per i quali è stato conferito;

-          per revoca da parte del mandante;

-          per rinunzia del mandatario;

-          per la morte, interdizione, inabilitazione del mandante o del mandatario. A tale proposito occorre precisare che, se il mandato ha per oggetto il com­pimento di atti relativi all'esercizio di un'impresa, esso non si estingue, se l'esercizio dell'impresa è continuato, salvo il diritto di recesso delle parti o degli eredi (art. 1722 c.c.).

 

2) Revocabilità del mandato

Il mandante può revocare il mandato; nel caso in cui fosse stata pattuita l'irrevocabilità, risponde dei danni, salvo che ricorra una giusta causa. Il mandato conferito anche nell'interesse di terzi o del mandatario non si estingue per morte del mandante, salvo che sia stabilito diversamente o ricor­ra una giusta causa. Non si estingue neanche per morte o sopravvenuta inca­pacità del mandante (art. 1723 c.c.).

 

3) Revoca tacita

La nomina di un nuovo mandatario per lo stesso affare o il compimento di questo da parte del mandante importano revoca del mandato e producono effetto dal giorno in cui sono stati comunicati al mandatario (art. 1724 c.c.).

 

4) Revoca del mandato oneroso

La revoca del mandato oneroso, conferito per un tempo determinato o per un determinato affare, obbliga il mandante al risarcimento del danno, salvo che ricorra una giusta causa (art. 1725 c.c.).

 

5) Revoca del mandato collettivo

Se il mandato è stato conferito da più mandanti con un unico atto e per un affare di interesse comune, la revoca non ha effetto se non è fatta da tutti i mandanti, salvo che ricorra una giusta causa (1726 c.c.).

 

6) Rinunzia del mandatario

Il mandatario che rinuncia al compimento degli atti previsti nel mandato, senza giusta causa, deve risarcire i danni al mandante.

Se il mandato è a tempo indeterminato, il mandatario non è tenuto al risar­cimento dei danni, qualora abbia dato un congruo preavviso.

In ogni caso la rinunzia deve esser fatta in modo e tempo tali da dare al mandante il tempo di provvedervi da sé, salvo il caso di grave impedimento da parte del mandatario (art.1727 c.c.).

 

7) Morte o incapacità del mandante o del mandatario

Qualora il mandato si estingua per morte o sopravvenuta incapacità del mandante e il mandatario avesse già iniziato il compimento degli atti previsti nel mandato, egli deve continuarli se ritiene che il ritardo o la mancata esecu­zione possa creare danni o pericolo a terzi. Se, invece, il mandato si estingue per morte o sopravvenuta incapacità del mandatario, i suoi eredi o colui che lo rappresenta, se hanno conoscenza del mandato, devono tempestivamente avvertire il mandante e compiere quegli atti che si rendano necessari dalla valutazione delle circostanze (art. 1728 C.C.).

 
8) Mancata conoscenza della causa di estinzione

Gli atti che il mandatario ha compiuto prima di essere a conoscenza del­l’estinzione del mandato sono validi e produco quindi i loro effetti giuridici, nei confronti del mandante o dei suoi eredi (art. 1729 c.c.).

 

9) Estinzione del mandato conferito a più mandatari

Salvo patto contrario, il mandato conferito a più mandatari designati ad operare congiuntamente si estingue anche se la causa di estinzione riguarda uno solo di essi (art. 1730 c.c.).

 
La proprietà e i diritti reali

1. CARATTERI DEI DIRITTI REALI

I diritti reali sono quei diritti tipici che assicurano al titolare un potere immediato ed assoluto su un bene. Presentano, pertanto, le seguenti caratteri­stiche:

  • immediatezza: implicano una diretta signoria sul bene, senza l'interposi­zione e la cooperazione di altre persone;
  • assolutezza: si fanno valere nei confronti di tutti i terzi (cioè erga omnes), sui quali incombe indistintamente un dovere negativo di astensione, con­cretantesi nell'obbligo di non impedire l'esercizio del diritto al suo titolare;
  • tipicità: tutti i diritti reali sono previsti dalla legge; oltre questi si ritiene che i privati non possano crearne altri (numerus clausus);
  • attribuiscono al titolare il c.d. diritto di sequela (o diritto di seguito), esso esprime il potere di perseguire la cosa presso qualunque soggetto si trovi.

2. DISTINZIONI DEI DIRITTI REALI

Malgrado le profonde differenze tra diritto di proprietà e gli altri diritti reali, essi costituiscono, tutti insieme, una categoria unitaria. Tuttavia nel­l'ambito della categoria distinguiamo:

 A) Diritto di proprietà

La proprietà, fra i diritti reali, è quella che consente la più ampia sfera di facoltà che l'ordinamento riconosce ai soggetti sulle cose.

 
B) Diritti reali su cosa altrui (o diritti reali limitati)

Tali diritti assicurano ai titolari delle facoltà inerenti a cose di proprietà altrui e si caratterizzano per un contenuto più limitato di quello della proprie­tà. Essi si caratterizzano per la specialità, la limitatezza del loro contenuto e per la possibilità di estinzione e si distinguono in:

a)     diritti reali di godimento: sono quelli che limitano il potere di godimento del proprietario della cosa, cioè il potere di trarre dalla cosa l'utilità che essa può dare. In particolare sono: la superficie, l'enfiteusi, l'usufrutto, l'uso, l'abitazione e la servitù.

Presentano i seguenti caratteri:

- sono autonomi;

‑ possono avere durata indefinita (tranne l'usufrutto), anche se vige per essi la regola del­l'estinzione per non uso, quando il mancato esercizio si protrae per 20 anni;

b)     diritti reali di garanzia: sono quelli consistenti in un vincolo giuridico imposto su un bene a garanzia di un credito. Sono: il pegno e l'ipoteca.

Presentano i seguenti caratteri:

-          sono accessori ad un diritto di credito (presente o futuro), di cui garantiscono l'adempi­mento;

-          hanno durata limitata, perché sono destinati a venir meno quando la funzione di garanzia cui tendono abbia esaurito il suo scopo.

Negli ultimi anni parte della dottrina ha tentato di contestare il principio della tipicità dei diritti reali ed ha, inoltre, posto l'attenzione sul fatto che i diritti reali tipici possono essere previsti anche in altre parti del codice o in altre leggi, non solo nella parte specifica del codice dedicata a tali diritti, né è necessario che il legislatore li definisca reali poiché è dal loro contenuto che deriva la loro qualificazione, non viceversa. Ad esempio, è stato definito diritto reale quello del compratore nella vendita con riserva della proprietà (artt. 1523 ss. c.c.).

 3. CONTENUTO E CARATTERI DEL DIRITTO DI PROPRIETA’

L'art. 832 c.c. afferma che il proprietario «ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo». Da tale definizione si evince che al proprie­tario vanno riconosciuti:

a)     il diritto di godere, ossia di decidere se, come e quando utilizzare la cosa nell'ambito della destinazione assegnata dal legislatore e a seconda dello «statuto» disposto per il bene (si pensi al diverso regime che caratterizza un'area edificabile o un fondo agricolo);

b)     il potere di disporre della cosa, che si concreta nel potere del proprietario di alienare la cosa, lasciarla per testamento, costituire sulla stessa diritti reali limitati a favore di altri etc.

 
Il diritto di proprietà presenta i seguenti caratteri:

a)     pienezza: la proprietà, giusto il dettato dell'art. 832 c.c., costituisce un diritto che consente al proprietario ogni lecita utilizzazione del bene. I limiti che comprimono la libertà del proprietario possono derivare:

-          da un atto di disposizione del privato (che può costituire un diritto reale di godimento);

-          da disposizioni di legge, dirette a tutelare finalità di ordine pubblico o a realizzare un contemperamento di interessi.

b)     elasticità: anche quando ì poteri del proprietario sono stati limitati dalla costituzione di altri diritti (es.: è stato costituito un diritto di usufrutto sulla cosa), il diritto di proprietà (che in tali casi è detto diritto di nuda proprietà) rimane potenzialmente integro: infatti, non appena viene meno il vincolo che lo comprime (si estingue l'usufrutto), il diritto di proprietà riprende automaticamente la sua ampiezza primitiva (c.d. consolidazio­ne);

 c)     autonomia ed indipendenza: il diritto di proprietà (a differenza dei dirit­ti reali limitati) non presuppone mai l'esistenza di un parallelo diritto altrui di portata maggiore;

 d)     perpetuità: non esistono limiti temporali al diritto di proprietà;

 e)     imprescrittibilità: la proprietà non si può perdere per «non uso», bensì soltanto per usucapione.


4. LIMITI LEGALI AL DIRITTO DI PROPRIETÀ

La proprietà immobiliare (ed in particolare quella fondiaria) pone al legislatore particolari problemi poiché l'utilizzazione del bene inevitabil­mente incide e sugli interessi individuali di altri proprietari e sugli inte­ressi della collettività. Nella prospettiva di un equo contemperamento, il legislatore pone limiti alla proprietà nell'interesse pubblico e nell'interes­se privato.

 

A) Limiti posti nell'interesse pubblico

Sono oggetto di studio del diritto amministrativo dove sono meglio qualifi­cati come vincoli; gli istituti fondamentali sono: l'espropriazione per pub­blica utilità (artt. 42 Cost. e 834 c.c.) e la requisizione (art. 835 c.c.).

 

In particolare:

    • l'espropriazione è un trasferimento coattivo (ablazione) di beni oggetto della proprietà di privati a favore del soggetto (Regione, Provincia o Comune) che dovrà provvedere alla realiz­zazione di determinate opere pubbliche (strade, ponti, scuole ecc.). Tale principio, della pub­blica utilità, è rinvenibile nell'art. 42 della nostra Costituzione il quale afferma: «la proprietà privata, può essere, nei casi previsti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale»;
    • la requisizione si differenzia dall'espropriazione, perché può verificarsi per gravi necessità pubbliche, militari o civili, può riguardare sia beni mobili che beni immobili, verso il paga­mento, sempre, di una giusta indennità.

 

B) Limiti posti nell'interesse privato

Concernono la proprietà immobiliare e regolano i rapporti tra proprietà vicine (diritti e doveri di vicinato).

 

Questi limiti, in particolare, riguardano:

a)                                                                     le distanze nelle costruzioni (artt. 873‑899 c.c.): tale materia è regolata sia dai regolamenti comunali, sia dal codice civile che, in mancanza di disposizioni regolamentari, stabilisce la distanza minima di 3 metri. In tema di distanze, si vedano ancora gli artt. 874 e 875 c.c. sulla comunione forzosa del muro: il proprietario di un fondo contiguo al muro altrui può ottenere una sentenza costitutiva per cui il muro, posto sul confine o a distanza inferiore ad un metro e mezzo diventa comune, previo pagamento del valore della metà del suolo e del muro;

b)                                                                     le luci (artt. 900‑907 c.c.). Le disposizioni in materia contemperano sia l'esigenza del proprie­tario dell'immobile di ricevere aria e luce, che l'esigenza del proprietario vicino di non essere esposto alle curiosità altrui;

c)                                                                     le acque private (artt. 909‑910 c.c.): appartengono al proprietario del suolo su cui esistono. Si rileva, però, che la loro importanza é scarsa, dal momento che, ai sensi del T U. del 1933, sono considerate pubbliche tutte le acque che hanno attitudine ad usi di pubblico e generale interesse, ossia la maggior parte dei corsi d'acqua esistenti;

d)                                                                     stillicidio: il proprietario deve costruire in maniera tale che le acque piovane scolino sul suo terreno e non sul fondo del vicino;

e)                                                                     divieto di atti di emulazione: ossia quegli atti che non hanno altro scopo che quello di nuocere o arrecare molestia ad altri (art. 833 c.c.).

Perché l'atto sia vietato occorrono due elementi: uno oggettivo (assenza di utilità per il pro­prietario) e l'altro soggettivo (l'intenzione di nuocere o arrecare molestia ad altri). Un esempio di atto emulativo vietato potrebbe essere quello di piantare alberi davanti alla villa del nostro vicino, al solo scopo di togliergli la veduta panoramica e senza una apprezzabile utilità per il nostro fondo.

 

5. LE IMMISSIONI (ART. 844 C.C.)

In teoria, ciascun proprietario dovrebbe evitare che l'uso della propria cosa comporti conseguenze negative per l'immobile del vicino. In concreto, però, ciò è impossibile: infatti a causa della contiguità dei fondi, fumo, calore, esa­lazioni, rumori etc. possono propagarsi da un immobile all'altro e ciascun proprietario deve sopportarli.

 

Il limite insormontabile dell'immissione è dato dalla normale tollerabili­tà: il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità.

 

6. ESTENSIONE DEL DIRITTO DI PROPRIETÀ

In senso verticale, la proprietà teoricamente si estende all'infinito, ossia al sottosuolo ed allo spazio sovrastante il suolo.

I confini dì diritto positivo tengono conto del contenuto economico del di­ritto di proprietà, cioè dello sfruttamento utile: il proprietario non può opporsi all'attività di terzi che si svolga ad una profondità o altezza tale ove manchi un interesse ad escluderla (es.: non si può opporre allo scavo dì una galleria che non pregiudichi la statica dell'edificio soprastante, se nel sottosuolo il pro­prietario non svolge alcuna attività di sfruttamento).

 

In senso orizzontale, invece, la proprietà immobiliare si estende nell'am­bito dei propri confini; tuttavia, il proprietario deve permettere l'accesso di terzi al fondo (artt. 842 e 843 c.c.):

    • per l'esercizio della caccia (a meno che il fondo sia chiuso o vi siano colture danneggiabili); ‑ per il compimento di opere necessarie al vicino;
    • per il recupero da parte del vicino della sua cosa o del suo animale che capiti lì accidentalmente.

7. MODI DI ACQUISTO DELLA PROPRIETA’

L’art. 922 c.c. indica i modi di acquisto della proprietà, ossia quei fatti giuridici che hanno per effetto l'acquisto della proprietà di una cosa. Essi si distinguono in:

a)     modi d acquisto a titolo originario: l'acquisto della proprietà non dipende da un uguale diritto del precedente titolare, o per non essere da questo derivante (es.: usucapione, acquisto di beni mobili ex art. 1153 c.c.), o in quanto, addirittura, il diritto sorge per la prima volta nel patrimonio dell'attuale proprietario (es.: pescatore che fa propri i pesci caduti nella sua rete). I modi di acquisto originari della proprietà, infine, operano ipso iure, senza la necessità che siano preventivamente accertati dinanzi al giudice;

b)     modi d'acquisto a titolo derivativo: il diritto di proprietà dipende dal­l'esistenza del diritto di un precedente proprietario (es.: compravendita).

 

I singoli modi di acquisto della proprietà sono:

 

A) L'occupazione (artt. 923‑926 c.c.)

È la presa di possesso di cose mobili, accompagnata dall'animo di farle pro­prie (gli immobili vacanti, invece, sono di proprietà dello Stato: art. 827 c.c.). Essa riguarda, in particolare, le cose mobili che non siano proprietà di nessuno o per non esserlo mai state (res nullius) o per essere state abbandonate dal proprietario (res derelictae).

 

B) L'invenzione (artt. 927‑933 c.c.)

Per invenzione, in senso giuridico, s'intende il ritrovamento delle cose smar­rite che devono essere consegnate al proprietario o, se questi è ignoto, al Sin­daco del luogo ove vengono rinvenute. Si noti, però, che:

    • se, dopo un anno dalla consegna della cosa, il proprietario non si è presen­tato a ritirarla, il diritto di proprietà su di essa spetta al ritrovatore;
    • se il proprietario si presenta, si deve al ritrovatore un premio (premium inventionis), che è del 10% del valore della cosa stessa.

Una forma particolare di invenzione riguarda il «tesoro»: cioè le cose mo­bili di pregio, nascoste o sotterrate, di cui nessuno può provare di essere pro­prietario.

Il tesoro appartiene:

    • al proprietario del fondo in cui si trova, se rinvenuto da costui;
    • per metà al proprietario del fondo e per metà al ritrovatore, se viene ritrova­to per caso, nel fondo altrui.

Il «tesoro», tuttavia, è un istituto che costituisce retaggio di tempi antichi ed ha scarsa rile­vanza pratica. Ciò dipende soprattutto dal fatto che proprio i casi più rilevanti, quelli che si riferiscono a cose d'interesse storico, archeologico, artistico etc., appartengono sempre al patrimo­nio indisponibile dello Stato comunque e da chiunque ritrovati, e sono di conseguenza sottratti alla disciplina del tesoro, applicandosi ad essi la normativa della legislazione speciale (artt. 826, 839 c.c.).

 

C) Accessione (arti. 934 ss. c.c.)

L’accessione si verifica quando una proprietà preesistente (es.: suolo) attira nella sua orbita altre cose che prima ne erano estranee (es.: alberi o costruzio­ni), ciò a prescindere dal concreto esercizio di una volontà di appropriarsene del soggetto, che può, pertanto, diventare proprietario delle nuove cose anche senza saperlo. Tale acquisto si verifica sempre a favore del proprietario della cosa principale (accessorium cedit principali).

Si distinguono le seguenti ipotesi di accessione:

a) accessione di mobile ad immobile.

Il suolo è considerato il bene principale che attrae nella sua orbita alberi e costruzioni, di cui il proprietario del suolo diventa proprietario; è ovvio che anche la costruzione nel suo insie­me è un immobile, ma qui viene in rilievo come insieme di beni mobili (mattoni, cemento, porte etc.) che si uniscono al fondo.

b) accessione di immobile ad immobile (arti. 941‑947 c.c.).

Ricorre nelle ipotesi di:

1)      alluvione: cioè insensibile e progressivo incremento portato dalle acque ad un fondo: il proprietario del fondo acquista la proprietà di tali incrementi di terreno;

2)      avulsione: cioè distacco da un fondo, per opera di fiumi o torrenti, di una considerevole parte di terreno che si unisce ad un altro fondo; il proprietario del fondo accresciuto ne acquista la proprietà, ma è tenuto ad indennizzare il proprietario che ha subito la diminu­zione;

3)      alveo abbandonato: si ha quando un fiume, formandosi un nuovo letto, abbandoni il letto principale; in tal caso l'alveo abbandonato spetta ai proprietari confinanti con le due rive;

4)      isola formata nel fiume: appartiene sempre al demanio pubblico;

 
 
c) accessione di mobile a mobile.

Ricorre nelle ipotesi di:

1)      unione o commistione: che si verifica quando due o più cose mobili, appartenenti a diver­si proprietari, vengono ad unirsi in modo tale da formare un sol tutto e non è possibile separarle senza danno:

·         la proprietà della cosa così ottenuta diventa comune in proporzione del valore delle cose spettanti a ciascun proprietario;

·         se, però, una delle cose può considerarsi principale, o vale molto di più delle altre, il suo proprietario acquista la proprietà del tutto, con l'obbligo di corrispondere agli altri proprietari il valore delle altre cose;

2)      specificazione: che si verifica quando si crea, mediante il lavoro (che qui in senso lato si qualifica bene mobile), una nuova cosa con materia appartenente ad altri (es.: con legno altrui ci si costruisce una barca). In tal caso, il codice civile dà valore all'elemento del lavoro. Pertanto, la proprietà della cosa così ottenuta spetta, di regola, a colui che ha compiuto il lavoro (previo pagamento del valore della materia); spetta, invece, al proprie­tario della materia, soltanto se il valore di essa è di molto superiore al valore della mano d'opera (previo pagamento del prezzo di quest'ultima).

D) L'usucapione: ne tratteremo nel modulo seguente.

 

E) Modi di acquisto a titolo derivativo

Sono:

o        negozi traslativi della proprietà (es. compravendita);

o        trasferimenti coattivi (es. espropriazione);

o        successione a titolo di eredità o di legato.

8. LE AZIONI A DIFESA DELLA PROPRIETÀ

Le azioni poste a difesa della proprietà sono dette petitorie, in contrapposi­zione, come vedremo, a quelle poste a difesa del possesso, dette possessorie. Le azioni petitorie sono così dette in quanto mirano ad accertare ed affer­mare la titolarità del diritto di proprietà contro chi la contesti direttamente (ne­gandola) o indirettamente (vantando diritti reali limitati sul bene).

Sono:

1) L'azione di rivendicazione

È l'azione con cui il proprietario rivendica la cosa propria da chiunque la possiede o la detiene senza titolo (art. 948 c.c.). È la principale delle azioni petitorie, e mira non solo ad accertare la titolarità del diritto di proprietà, ma anche, a far recuperare al proprietario il bene.

Legittimato attivamente è chi sostiene di essere proprietario. Sul piano probatorio la sua posizione è meno agevole di quella del convenuto. Infatti, in questa materia la prova presenta delle difficoltà particolari. Infatti, se si tratta di un acquisto a titolo derivativo, per poter provare la fondatezza del suo dirit­to, l'attore dovrebbe risalire fino ad un acquisto a titolo originario del bene, oltre naturalmente a provare la legittimità e la validità dei successivi trasferi­menti fino al suo.

Legittimato passivamente è, invece, chi possiede o detiene la cosa abusi­vamente, cioè senza titolo; al possessore è equiparato, quanto alla legittima­zione passiva, colui che dolosamente si spogliò del possesso in vista dell'azio­ne, il quale, in caso di soccombenza, è obbligato a recuperare a sue spese la cosa per restituirla al proprietario vincitore o, se ciò non è possibile, a corri­spondergliene il valore, oltre al risarcimento dei danni.

La posizione del convenuto sul piano probatorio è molto meno gravosa di quella dell'attore per il fatto che egli è il possessore o il detentore materiale della cosa. Pertanto egli non deve provare nulla.

L’azione di rivendica produce le seguenti conseguenze:

a)     il possessore o detentore abusivo è tenuto a restituire la cosa con i frutti. In particolare: se egli era in buona fede, dovrà restituire solo i frutti maturati dopo la domanda giudiziale nonché i c.d. frutti percipiendi, e cioè quei frutti che egli avrebbe potuto percepire dopo la domanda, se avesse usato la normale diligenza del buon padre di famiglia (art. 1148 c.c.); se era, invece, in mala fede, dovrà restituire tutti i frutti, percepiti e percipiendi, fin da quando ha cominciato a possedere;

b)     il possessore, di buona o mala fede, ha diritto al rimborso, dopo la restituzione, delle somme spese per riparazioni straordinarie, nonché una indennità per miglioramenti apportati al bene e per le addizioni; tale indennità nel caso di possessore in mala fede è calcolata in modo particolare ( art. 1150 c.c.). Egli inoltre, dal momento in cui è tenuto a restituire i frutti, ha diritto al rimborso delle spese per riparazioni ordinarie nonché delle spese sostenute per la percezione dei frutti (arti. 1149 ss. c.c.);

c)     al possessore di buona fede è riconosciuto, a tutela del suo diritto al rimborso, un diritto di ritenzione sulla cosa finché non gli siano corrisposte le indennità dovute (art. 1152 c.c.).

2) L'azione negatoria.

Può definirsi (ex art. 949 c.c.) come quell'azione con cui il proprietario ten­de a far dichiarare l'inesistenza dei diritti affèrmati da altri sulla cosa, quando ha motivo di temerne pregiudizio, o a far cessare le turbative o le molestie che altri arrechi al suo diritto.

Legittimato attivamente è il proprietario (il quale dovrà fornire solo la prova del suo diritto di proprietà, bastando a tal fine che egli dimostri di pos­sedere in base ad un titolo idoneo).

Legittimato passivamente è colui che afferma di essere titolare di diritti reali sulla cosa o reca turbative o molestie al proprietario (e che, a sua volta, dovrà fornire la prova dell'esistenza dei diritti di cui si afferma titolare).

 

3) L'azione di regolamento di confini

Può definirsi come l'azione mediante la quale ciascuno dei proprietari di un fondo confinante può chiedere che sia stabilito giudizialmente il confine tra i due fondi, quando tale confine sia obiettivamente incerto (art. 950 c.c.).

Legittimati, attivamente e passivamente, sono i due proprietari confinan­ti.

L'azione ha carattere duplice, e perciò l'onere della prova è diviso ugualmen­te fra le due parti; in mancanza di prova fornita dalle parti, il giudice provvede­rà attenendosi al confine tracciato dalle mappe catastali.

 
4) L'azione per apposizione di termini

Può essere definita come l'azione con cui ciascuno dei proprietari limitrofi può chiedere, quando sia certo il confine dei fondi, che siano posti o ripristinati, a spese comuni, i segni materiali e tangibili di tale confine, che precedentemen­te mancavano o erano divenuti irriconoscibili (art. 951 c.c.).

Legittimati, attivamente e passivamente, sono i due proprietari confinanti, ai quali incombe l'onere della prova della certezza dei confini fra i fondi. An­che questa è un'azione duplice in quanto le parti hanno una reciproca posizio­ne di difesa e di pretesa.

 

5) Altri rimedi a difesa della proprietà

Oltre alle azioni petitorie, spettano al proprietario altri rimedi giuridici a difesa del suo diritto e cioè:

  • le azioni possessorie;
  • le azioni di nunciazione;
  • il sequestro giudiziario: esso può essere richiesto dal proprietario per quei beni dei quali sia controversa la proprietà o il possesso o per i quali sia opportuna la custodia o la gestione;
  • l'azione di consegna di beni mobili o di rilascio di immobili.
9. LA SUPERFICIE

L’art. 952 c.c. sotto la rubrica «costituzione del diritto di superficie» detta:

«II proprietario può costituire il diritto di fare e mantenere al di sopra del suolo una costruzione a favore di altri che ne acquista la proprietà. Del pari può alie­nare la proprietà della costruzione già esistente, separatamente dalla proprietà del suolo». Trattasi di una deroga al principio generale della accessione immo­biliare (art. 934 c.c.) per cui quidquid inaedificatur solo cedit (ossia tutto ciò che sta sopra il suolo appartiene al proprietario del suolo stesso).

L'art. 952 c.c. prevede due diverse situazioni giuridiche:

-          il diritto del c.d. superficiario sul suolo, nei confronti del proprietario di esso (c.d. ius ad aedificandum, cioè il diritto di erigere e mantenere una costruzione sul suolo altrui);

-          il diritto dello stesso superficiario sulla costruzione già esistente sul suolo senza acquistare la proprietà di quest'ultimo (c.d. proprietà superficiaria).

Di queste due situazioni giuridiche la seconda è un normale diritto di pro­prietà (lo dice lo stesso articolo, quando afferma che sulla costruzione il su­perficiario acquista la proprietà), mentre la prima configura il c.d. diritto di superficie.

 

A) Nascita

Il diritto di superficie può sorgere:

-          per contratto o negozio (a titolo oneroso o gratuito);

-          per testamento.

Legittimato a costituire il diritto è soltanto il proprietario del suolo e, quin­di, non il titolare di un diritto reale limitato.

Il titolare del diritto di superficie può alienare la costruzione o costituire su di essa dei diritti reali i quali, però, si estinguono col venir meno del diritto di superficie.

 

B) Durata ed estinzione del diritto

Il diritto di superficie può essere costituito in perpetuo o per un tempo de­terminato. Quando esso è costituito a tempo determinato, con lo scadere del termine il diritto si estingue e, per il principio di accessione, il proprietario del suolo diventa proprietario anche della costruzione (art. 953 c.c.).

Oltre che per la scadenza del termine, il diritto di superficie può estinguer­si per prescrizione; al riguardo, tuttavia, occorre distinguere:

a)     se la costruzione è già stata eseguita, allora non può esservi prescrizione;

b)     se, invece, la costruzione non è stata ancora eseguita, allora il diritto di ese­guirla si estingue se non è esercitato nei venti anni dalla sua costituzione.

La superficie, infine, si estingue per consolidazione (derivante da una qual­siasi causa che determini il riunirsi nel diritto di proprietà e di quello di super­ficie nella stessa persona) e per le altre cause previste dal titolo.


10. L'ENFITEUSI

L'enfiteusi costituisce quel diritto reale di godimento su cose altrui che attri­buisce al titolare lo stesso potere di godimento del fondo che spetta al proprieta­rio, salvo l’obbligo di migliorare il fondo e di pagare al proprietario concedente un canone periodico. L’enfiteusi è, dunque, il più ampio dei diritti reali limita­ti, in quanto concede al suo titolare poteri quasi analoghi a quelli del proprieta­rio. Può essere costituita su fondi agricoli ma anche su fondi urbani (enfiteusi urbana).

La norma generale sulla disciplina giuridica dell'enfiteusi è contenuta nel­l'art. 957 c.c. il quale, nell'affermare che la disciplina dell'istituto è dettata dal titolo o, in mancanza, dalla legge, sancisce, però, l'inderogabilità di alcuni principi (durata, pagamento del canone, divieto di subenfiteusi, affrancazio­ne del fondo).

 

A) Affrancazione

È un diritto potestativo spettante all'enfiteuta, il quale, attraverso il suo esercizio, diventa automaticamente proprietario del fondo.

In sostanza con l’affrancazione non si estingue il dominio diretto del conce­dente, ma si verifica il passaggio di questo all’enfiteuta. Il diritto di affrancare si esercita mediante il pagamento di una somma di denaro pari a quindici volte l'ammontare del canone. In caso di mancata adesione del proprietario, l'enfiteuta può adire l'Autori­tà Giudiziaria per ottenere una sentenza costitutiva dell'affrancazione (c.d. affrancazione giudiziale).

 

B) Devoluzione

È un diritto potestativo del proprietario il quale, in caso di inadempimen­to degli obblighi fondamentali da parte dell'enfiteuta, può ottenere la libera­zione del fondo, chiedendo all'Autorità Giudiziaria una sentenza costitutiva che pronunzi la caducazione dell'enfiteusi, con conseguente consolidamento, a favore del concedente, del dominio utile e del dominio diretto (azione di devoluzione). La devoluzione ha come presupposto un inadempimento qualifi­cato da parte dell'enfiteuta, consistente nel deterioramento o nel mancato mi­glioramento del fondo o nella mora del pagamento di due annualità del cano­ne.

 C) Ricognizione

È l'atto che il concedente può richiedere a chi sia nel possesso del fondo in vista del compiersi di un ventennio al fine di evitare il maturarsi dell'usuca­pione (art. 969 c.c.).

Si tratta di un atto di accertamento con valore probatorio, con il quale le parti, allo scopo di dare certezza giuridica ad un rapporto già in corso, ricono­scono ed affermano l'esistenza di questo fin dall'origine, quale esso è sorto, con il suo contenuto e le sue clausole originarie.

 D) Estinzione

L’enfiteusi si estingue per:

-          scadenza del termine, se si tratta di enfiteusi temporanea (in tal caso la durata non può essere inferiore a venti anni);

-          perimento totale del fondo;

-          non uso del diritto da parte dell'enfiteuta, protratto per venti anni;

-          affrancazione;

-          devoluzione.

11. USUFRUTTO: CONCETTO E DISCIPLINA

A) Generalità

L'usufrutto si concreta nel diritto riconosciuto all'usufruttuario di godere ed usare della cosa altrui, traendo da essa tutte le utilità che può dare (compre­si i frutti che essa produce), con l'obbligo di non mutarne la destinazione econo­mica (artt. 981, 984 c.c.). La situazione del proprietario del bene gravato da usufrutto è quella di colui cui è tolto il potere di usare del bene stesso e di farne propri i frutti: il contenuto del suo diritto di proprietà è praticamente svuotato, perciò egli è chiamato nudo proprietario.

 

B) Oggetto dell'usufrutto. Il «quasi usufrutto»

Oggetto dell'usufrutto può essere qualunque specie di beni (mobili o immo­bili, crediti, aziende etc.).

In linea generale, però, deve trattarsi di beni infungibili ed inconsumabi­li, stante l'obbligo per l'usufruttuario di restituire lo stesso bene alla fine del­l'usufrutto. Tuttavia l'art. 995 c.c. ha previsto anche la possibilità di un usufrutto aven­te ad oggetto cose consumabili: ed è questo il quasi‑usufrutto.

Nel quasi‑usufrutto (a differenza che nell'usufrutto) i beni consumabili pas­sano in proprietà all'usufruttuario, il quale ha l'obbligo di restituire non già gli stessi beni ricevuti (il che sarebbe impossibile: si pensi al denaro ormai spe­so), ma altrettanti beni dello stesso genere e qualità (tantundem eiusdem gene­ris et qualitatis).

 

C) Durata e modi d'acquisto dell'usufrutto

I:usufrutto, a differenza degli altri diritti reali, è caratterizzato dalla tem­poraneità: esso non può eccedere in nessun caso la vita dell'usufruttuario, se si tratta di persona fisica, o i trenta anni, se si tratta di persona giuridica. Coeren­temente a tale principio, è vietato, se costituito con disposizione mortis causa, l'usufrutto successivo (art. 698 c.c.): cioè la costituzione di un usufrutto a fa­vore di più soggetti per la vita di ciascuno di essi e uno dopo l'altro tra loro, secondo l'ordine fissato dal testatore.

L’usufrutto può acquistarsi:

-          per legge, quando la legge stessa ne determina la costituzione in capo ad un determinato soggetto (c.d. usufrutto legale); ciò avviene, ad esempio, nel caso di cui all'art. 324 c.c. (usufrutto legale dei genitori);

-          per contratto a titolo oneroso o gratuito; i contratti costitutivi di usufrut­to, se riguardano beni immobili, richiedono, a pena di nullità, la forma scritta e sono soggetti a trascrizione;

-          per testamento, anche l'accettazione del legato di usufrutto su bene im­mobile va trascritta;

-          per usucapione.

 

D) Diritti dell'usufruttuario

Essi sono:

a)     il diritto di conseguire il possesso della cosa (salvi gli obblighi di inventario e di cauzione di cui diremo): egli, cioè, può mettersi in relazione immediata con la cosa stessa per servirsene, amministrarla e farne propri i frutti, senza che sia necessaria la collaborazione del nudo proprietario o di altri soggetti;

b)     il diritto di far suoi i frutti (naturali e civili) della cosa, per tutta la durata dell'usufrutto;

c)     l'usufruttuario ha diritto ad una indennità per i miglioramenti apportati al fondo, che sussistono alla data della cessazione, nella misura della minor somma, tra l'importo della spesa e il risultato utile conseguito. Gli spetta anche lo ius tollendi: cioè il diritto di portar via, alla cessazione dell'usu­frutto, quelle addizioni la cui rimozione non muti la destinazione econo­mica del bene, a meno che il proprietario decida di ritenerle corrispondendo una congrua indennità;

d)     il diritto di cedere il proprio usufrutto (ma non morlis causa), di concedere ipoteca sull'usufrutto e di locare il bene.

 

L’usufruttuario, a tutela del suo diritto, può esercitare: le azioni possessorie, l'azione di rivendica dell'usufrutto, l'azione negatoria, l'azione di mero accertamento, le azioni di nunciazione.

 

E) Obblighi nascenti dall'usufrutto

Gli obblighi dell'usufruttuario sono strettamente legati all'obbligo fonda‑

mentale: restituire la cosa al termine dell'usufrutto.

A tale fine l'usufruttuario deve:

-          fare a sue spese l'inventario dei beni e prestare idonea cauzione per prendere possesso della cosa;

-          non modificare la destinazione economica del bene oggetto dell'usufrutto;

-          nell'esercizio del suo diritto, usare la diligenza del buon padre di famiglia;

-          sostenere le spese e gli oneri relativi alla custodia, all'amministrazione ed alla manutenzione ordinaria del bene;

-          pagare le imposte, i canoni, le rendite fondiarie e gli altri pesi annuali che gravano sulla cosa;

-          denunciare al proprietario le usurpazioni commesse da terzi sul fondo e sopportare, insieme al proprietario ed in proporzione al proprio interesse, le spese delle liti che riguardano sia la proprietà che l'usufrutto.

In costanza del diritto di usufrutto il nudo proprietario deve:

-          curare le riparazioni straordinarie del bene (indicate all'art. 1005 c.c.), salvo il diritto di pretendere dall'usufruttuario gli interessi delle somme spese;

-          far fronte a tutti quei carichi a carattere non annuale posti sulla proprietà (es.: contributi straordinari di miglioria);

-          concorrere, con l'usufruttuario, alle spese di lite che riguardano contemporaneamente proprietà ed usufrutto.

 

F) L'estinzione dell'usufrutto

L’usufrutto può estinguersi per:

-          morte dell'usufruttuario, se persona fisica; oppure col decorso di trenta anni, se l'usufruttuario è persona giuridica;

-         prescrizione, a seguito di non uso ventennale;

-          consolidazione: cioè riunione nella stessa persona della titolarità dell'usu­frutto e della proprietà;

-          totale perimento del bene: se però il perimento è dovuto a fatto del terzo, l'usufrutto si trasferisce sull'indennità da questo pagata al proprietario (sur­rogazione reale);

-          «abuso» del diritto da parte dell'usufruttuario: per abuso deve intendersi una grave mancanza dell'usufruttuario ai suoi obblighi: come, per esem­pio, aver lasciato deperire il bene per le .mancate operazioni di ordinaria manutenzione. L’abuso, però, deve essere dichiarato con sentenza costituti­va dal giudice cui è rimessa la valutazione del caso;

-          rinuncia dell'usufruttuario;

-          annullamento, rescissione, risoluzione del contratto costitutivo di usufrutto; scadenza del termine, eventualmente indicato nel titolo costitutivo.

 

12. L'USO E L'ABITAZIONE

Analoghe al diritto di usufrutto, ma con contenuto più ristretto, sono le due figure previste

dagli artt. 1021‑1026 c.c.

Esaminiamole:

a)     uso (art. 1021 c.c.): il diritto di uso attribuisce al suo titolare (c.d. usuario) il potere di servirsi di un bene e, se esso è fruttifero, di raccoglierne i frulli, ma solo limitatamente a quanto occor­re ai bisogni suoi e della sua famiglia;

b)     abitazione (art. 1022 c.c.): ancor più ristretto è il diritto di abitazione, che conferisce al titolare soltanto il diritto di abitare una casa limitatamente ai bisogni suoi e della sua famiglia.

I diritti di uso e di abitazione hanno carattere personalissimo e, quindi, non possono essere ceduti o locati: la regola dell'inalienabilità è, però, ritenuta, dalla dottrina e giurisprudenza prevalenti, derogabile con il consenso del nudo proprietario poiché è posta nel suo interesse e non è una norma di ordine pubblico.

Per il resto trovano applicazione, in quanto compatibili, le norme che disciplinano l'usufrutto

(art. 1026 c.c.).

 

 13. CONCETTO E REQUISITI FONDAMENTALI DELLE SERVITU’

La servitù consiste nel peso (o limitazione) imposto sopra un fondo (c.d. fondo servente) per l'utilità di un altro fondo (c.d. fondo dominante), apparte­nente a diverso proprietario (art. 1027 c.c.). È inoltre ammessa anche la costituzione di una servitù per assicurare a un fondo un vantaggio futuro (art. 1029, 1 ° comma, c.c.), ovvero a vantaggio o a carico di un edificio da costruire o di un fondo da acquistare (art. 1029, 2° comma, c.c.).

Costituiscono requisiti della servitù:

-          la predialità: la servitù è posta a vantaggio del fondo (praedium) e non del proprietario, sicché questi riceve il vantaggio della servitù appunto attraverso il suo bene;

-          la vicinanza tra i fondi: questo è, però, solo un principio normale in materia di servitù; il concetto di vicinanza, infatti, non va inteso in senso assoluto, ma solo in senso relativo rispetto al contenuto della servitù (così, ad esempio, sussiste la vicinitas se i due fondi sono separati da un terzo fondo appartenente al proprietario del fondo dominante o da una strada);

-          l'utilità per il fondo dominante: consiste in un qualsiasi vantaggio, anche non economico, che consenta una migliore utilizzazione del fondo. In particolare, essa può anche: consistere nella maggiore comodità o amenilà del fondo dominante (art. 1028 c.c.) (es., per conservare la vista panoramica di una villa, può costituirsi una servitù che impedisca di edificare sul fondo vicino); essere inerente alla destinazione industriale del fondo (art. 1028 c.c.) (es., può costitu­irsi una servitù di presa d'acqua su un fondo per assicurare l'acqua necessaria al funziona­mento di uno stabilimento sito su un fondo vicino).

 

A) Caratteri generali

Le servitù presentano i seguenti caratteri essenziali:

-          appartenenza dei due fondi a proprietari diversi, per il principio nemini res sua servii;

-          indivisibilità: essendo una qualità del fondo, la servitù si estende ad ogni parte del fondo ed è indivisibile da esso;

-          ambulatorietà attiva e passiva: le servitù si trasferiscono automaticamente e congiuntamente al trasferimento del fondo dominante o servente cui ac­cedono;

-          impossibilità di consistere in un facere: la servitù può consistere solo in un non facere o in un pati del proprietario del fondo servente.

 

B) Tipi di servitù

Delle servitù possono farsi le seguenti classificazioni:

a) apparenti e non apparenti:

-          apparenti: sono le servitù che si manifestano con opere visibili e perma­nenti destinate al loro esercizio: tali sono, ad esempio, la servitù di stil­licidio, di acquedotto, di passaggio etc.;

-          non apparenti: sono, invece, quelle per le quali non sono richieste tali opere, come la servitù di pascolo, la servitù di non edificare etc.;

 

b) affermative e negative:

-          affermative: sono le servitù per il cui esercizio è richiesto un comporta­mento attivo del proprietario del fondo dominante, che il proprietario del fondo servente deve sopportare (es.: passaggio);

-          negative: sono quelle, invece, che comportano soltanto un non facere a carico del proprietario del fondo servente (es.: servitù di non costruire oltre una certa altezza etc.);

 

c) temporanee o perpetue, con riferimento alla durata;

 

d) volontarie e coattive: a seconda che si costituiscano per volontà dei singoli oppure per legge.

Le servitù coattive sono tipiche, e cioè sono soltanto quelle previste dalla legge.

Le principali figure sono:

- servitù di acquedotto coattivo (art. 1033 c.c.): consiste nel diritto di far passare acque pro­prie attraverso fondi altrui.

Per la sua costituzione si chiede:

-          che il richiedente abbia diritto di disposizione e di godimento delle acque; ‑ che le acque siano sufficienti per l'uso cui sono destinate;
-          che il passaggio richiesto sia il più conveniente per il fondo servente;

-          che venga costruito un acquedotto, se il proprietario del fondo servente non permette il passaggio delle acque nel suo acquedotto;

-servitù di passaggio coattivo: consiste nel diritto al passaggio sul fondo vicino per accedere alla via pubblica:

-          nel caso di interclusione assoluta del fondo: per cui mancala possibilità di uscire dal fondo sulla pubblica via se non attraverso il fondo del vicino;

-          nel caso di interclusione relativa: se il proprietario del fondo potrebbe procurarsi altrove tale passaggio, ma con grave dispendio o disagio.

 

C) Costituzione delle servitù volontarie

I modi d'acquisto comuni a tutte le servitù sono:

-          il contratto tra proprietario del fondo dominante e del fondo servente. Si tratta di un contratto formale, con effetti reali, normalmente oneroso; an­che l'enfiteuta e il superficiario possono costituire servitù a carico rispetti­vamente del fondo e della proprietà superficiaria, l'usufruttuario, invece, può solo acquistare servitù a favore del fondo oggetto del suo diritto;

-          il testamento.

-          I modi d'acquisto propri delle sole servitù apparenti sono:

-          usucapione ordinaria o abbreviata (artt. 1158 e 1159 c.c.);

-          destinazione del padre di famiglia (art. 1062 c.c.).

 

D) Estensione ed esercizio delle servitù

II diritto di servitù comprende tutte le facoltà accessorie, indispensabili per l'esercizio della servitù stessa (art. 1064 c.c.). Es.: il diritto di prendere acqua comprende il diritto di passaggio fino alla sorgente. Il modo di esercizio della servitù è determinato dal titolo o dal possesso, a seconda che la servitù stessa derivi dalla volontà delle parti o dall'usucapione.

Nel dubbio circa le modalità concrete di esercizio, questo deve essere effettua­to in modo da soddisfare il fondo dominante con il minor aggravio del fondo servente (art. 1065 c.c.).

 

E) L'estinzione delle servitù (artt. 1072 ss. c.c.)

Le servitù si estinguono per:

-          confusione: riunione nella stessa persona della proprietà del fondo domi­nante e del fondo servente;

-          prescrizione estintiva ventennale (non uso);

-          scadenza del termine e verificarsi della condizione risolutiva previsti nel titolo;

-          abbandono del fondo servente (art. 1070 c.c.): da parte del proprietario che voglia così sottrarsi alle spese per la servitù, cui è tenuto in forza di legge o del titolo;

-          rinunzia del proprietario del fondo dominante;

-          totale perimento del fondo dominante o servente (se il perimento è parziale la servitù si riduce in proporzione alla utilizzabilità residua);

-          sentenza, per le servitù coattive, se si accerta il venir meno della situazio­ne di fatto che ha determinato la costituzione della servitù.

 

F) Le azioni a tutela delle servitù (art. 1079 c.c.)

a) Azione di mero accertamento con cui si mira a far riconoscere in giudi­zio l'esistenza della servitù.

b) Azione confessoria mirante ad ottenere la cessazione di impedimenti e turbative alla servitù.

c) Azione per il risarcimento dei danni (art. 2043 c.c.) diretta a tutelare il diritto nascente dalla servitù.

d) Azioni possessorie, non ammissibili, però, a tutela delle servitù negative.

 
 
La comunione, la multiproprietà e il condominio

 
 1. LA COMUNIONE IN GENERALE

 

Il concetto di comunione rientra nel più ampio concetto di contitolarità di diritti, che ricorre in tutte quelle ipotesi in cui uno stesso diritto appartiene, nella sua interezza, a due o più persone. Si ha, quindi, comunione quando il diritto di proprietà, o altro diritto reale su uno stesso bene, appartiene a più persone (cal. comunisti), le quali sono tutte contitolari del diritto stesso.

L'art. 1100 c.c. sancisce che si ha comunione «quando la proprietà o altro diritto reale spetta in comune a più persone».

Si parla, al riguardo di proprietà per quote ideali, nel senso che ciascun contitolare ha un diritto che non può essere individuato materialmente su una determinata parie del bene (altrimenti si tratterebbe di una pluralità di diritti di proprietà diversi tra loro), bensì ha come oggetto il bene nella sua integrità; in tal modo, ciò che viene ad essere suddiviso è l'insieme delle facoltà di usare e godere della cosa comune. Pertanto, la misura della facoltà che compete al singolo comproprietario è data dalla quota astratta (la metà, un terzo, un decimo del bene) che esprime la sua partecipazione nei limiti del concorrente diritto degli altri contitolari. Con la conseguenza, inoltre, che ove uno dei comproprietari viene meno, le altre quote ideali si espandono.

Solo per i diritti reali (compresi quelli di garanzia) può, quindi, parlarsi di vera e propria comunione, mentre per i diritti di credito che fanno capo a più soggetti si applicherà la normativa sulle obbligazioni soggettivamente complesse (artt. 1292‑1320 c.c.).

Sussistono molti tipi di comunione che si allontanano dalla comproprietà di cui si tratta: la comunione tacila familiare (art. 230bis, u.c.); la comunione ereditaria dei coeredi sul patrimonio del defunto (art. 713); la comunione legale tra i coniugi (artt. 159, 177 ss.). Trattasi di ipotesi di comunione aventi una peculiare disciplina idonea a regolare diverse particolari esigenze.

 

Le fonti della comunione sono nell'ordine:

 

-          il titolo (cioè la volontà delle parti costituenti);

-          le norme legislative speciali per i vari tipi di comunione;

-          le norme generali (suppletive) contenute negli artt. 1100 ss. c.c.


 2. TIPI DI COMUNIONE

 
Nell'ambito della comunione possono farsi varie distinzioni:

a) comunione volontaria, legale e incidentale.

Tale distinzione, che rileva sotto il profilo delle fonti, articola la comunione in:

volontaria: quando nasce per effetto di una convenzione stipulata tra i vari partecipanti;

legale: se il suo titolo è nella legge;

incidentale: quando sorge per effetto di un atto indipendente dalla volontà dei partecipanti. Esempio tipico ne è la comunione ereditaria.

b) comunione ordinaria e comunione forzosa:

‑ la comunione è ordinaria quando ogni singolo partecipante ha la facoltà (il cui esercizio può essere, tutt'al più, inibito per una durata non superiore ai 10 anni) di chiedere la divisione;

‑ la comunione è forzosa quando la suddetta facoltà è negata al partecipante, in quanto i beni altrimenti cesserebbero di servire all'uso cui sono destinati (es.: comunione forzosa del muro artt. 874 e 875 c.c.);

 

3. DIRITTI ED OBBLIGHI DEI COMUNISTI

 
La disciplina della comunione va esaminata con riguardo a tre tipi di attività (arti. 1102‑1110 C.C.):

 A) Uso della cosa comune

Le attività di uso della cosa comune concretizzano la facoltà di godimento della stessa riconosciuta ai singoli comunisti. Lari. 1102 c.c. consente a ciascun comunista di servirsi della cosa comune nella sua interezza, col duplice limite di non alterare la destinazione della cosa comune e di non impedire agli altri comunisti di farne parimenti uso.

 B) Gestione della cosa comune

Le attività di gestione della cosa comune rappresentano un settore particolare delle attività di uso, qualificato da un esercizio Collettivo e organizzato della facoltà di godimento e da una finalità di conservazione e/o miglioramento della cosa comune. La gestione della cosa comune è esercitata congiuntamente da tutti i comunisti: infatti tutti i partecipanti hanno diritto di concorrere nell' amministrazione della cosa comune (ari. 1105, 1° comma, c.c.). La regola dell'amministrazione congiuntiva si basa sul principio maggioritario: «le deliberazioni della maggioranza dei partecipanti, ... sono obbligatorie per la minoranza dissenziente» (ari. 1105, 2° comma, c.c.). La maggioranza viene calcolata non alla stregua del numero dei partecipanti, ma del valore delle loro quote.

 
In particolare è sufficiente la maggioranza semplice per le deliberazioni aventi ad oggetto:

a)        gli atti di ordinaria amministrazione, ossia gli atti tendenti a conservare la cosa comune o anche a migliorarne il godimento;

b)        la eventuale approvazione di un regolamento per l'ordinaria amministrazione e per il miglior godimento della cosa comune;

c)        la nomina di un amministratore.

 
 

È necessaria invece una maggioranza qualificata (2/3 del valore complessivo della cosa comune) per compiere atti eccedenti l'ordinaria amministrazione. Per tali atti il legislatore ha previsto un duplice ordine di limiti:

 
non devono mai essere pregiudizievoli all'interesse di alcuno dei partecipanti;

‑se dispongono «innovazioni dirette al miglioramento della cosa o a renderne più comodo 0 redditizio il godimento», non debbono importare una spesa eccessivamente gravosa.

Si ricordi che gli atti di alienazione (o di costituzione di diritti reali sulla cosa comune) e le locazioni ultranovennali non sono atti di straordinaria amministrazione, ma vengono considerati dall'ari. 1108, 3° comma, c.c. come atti di disposizione della cosa comune e postulano quindi il consenso di tutti i partecipanti.

 

C) Disposizione della cosa comune

Per la disposizione della cosa comune valgono due regole fondamentali:

 

‑la prima (art. 1108, 3° comma, c.c.) prescrive la necessità del consenso unanime dei partecipanti alla comunione quando venga in considerazione l'intero diritto comune;

‑la seconda (art. 1103, 1° comma, c.c.) consente al singolo partecipante di disporre di quello stesso diritto «nei limiti della sua quota».

In particolare, la prima regola vale:

 

a)     per gli atti di alienazione, per le transazioni, per gli atti di rinuncia alla cosa comune;

     b) per gli atti di costituzione di diritti reali sul fondo comune;

b)     per le locazioni ulranovennali (benché non siano qualificabili a rigore come atti di

     disposizione).

 

Non è invece necessario il consenso unanime dei comunisti per costituire un ipoteca qualora «abbia lo scopo di garantire la restituzione delle somme mutuate per la ricostruzione o per il miglioramento della cosa comune» (art. 1108, 4° comma, c.c.) (in tale ipotesi l'atto e cioè la costituzione dell'ipoteca va trattato come un atto di straordinaria amministrazione).

 

La seconda regola invece vale a determinare la sfera di autonomia accordata al singolo sotto il profilo della facoltà di disposizione. In particolare, essa si concreta nei seguenti tipi di iniziativa individuale:

a)     possibilità di sostituire altri a sé nella posizione di contitolare attraverso una cessione pro  quota del diritto comune col conseguente subingresso del cessionario nella contitolarità del diritto senza che a tal fine sia necessario il consenso degli altri comunisti;

b)     possibilità di cedere ad altri il godimento della cosa nei limiti della quota;

c)     possibilità di costituire a favore di terzi un diritto reale di garanzia nei limiti della quota;

d)     possibilità di abdicare alla posizione di contitolare mediante rinuncia.

 

D) Obblighi dei comunisti

Le spese deliberate a maggioranza, e più in generale tutte quelle necessarie per la conservazione ed il godimento della cosa comune gravano sui partecipanti alla comunione in proporzione delle rispettive quote, restando in ogni caso salva la facoltà di ciascuno di essi di liberarsene rinunciando alla propria posizione di contitolare del diritto comune (c.d. abbandono liberatorio) (art. 1104 c.c.).

 

4. LO SCIOGLIMENTO DELLA COMUNIONE

Ciascuno dei partecipanti ha facoltà di chiedere lo scioglimento della comunione senza che gli altri comunisti vi si possano opporre. Detta facoltà viene considerata come esplicazione di un diritto potestativo per cui le ragioni ed i modi dell'esercizio non possono essere sindacati dagli altri partecipanti e dal giudice.

Per la divisione si applicano le norme sulla divisione ereditaria, alla quale si rinvia. Occorre ricordare che la divisione si verifica:

‑ per contratto, se tutti i comunisti concordano sul modo di procedere; ‑ per sentenza del Tribunale, se l'accordo non viene raggiunto.

La divisione avviene con la spartizione materiale della cosa, se possibile, oppure con una ripartizione della somma ricavata dalla vendita della cosa. Una forma di tutela per i creditori è predisposta dall'art. 1113 c.c. che consente loro (ed agli aventi causa) di intervenire a proprie spese nella divisione o di proporre opposizione, mentre non possono impugnare la divisione già effettuata.


5. IL CONDOMINIO NEGLI EDIFICI

 

Quella del condominio negli edifici è la figura più importante, ed anche la più complessa, di comunione. La singolarità di questa figura sta nel fatto che il singolo condomino è al contempo:

‑ proprietario esclusivo del suo appartamento;

‑ comproprietario in virtù di comunione forzosa di alcune parti dell'edificio (il suolo su cui l'edificio poggia, le fondamenta, le scale, i muri perimetrali, i tetti etc.).

Ai sensi dell'art. 1117 c.c., sono oggetto di proprietà comune dei proprietari dei diversi piani o porzioni di piani di un edificio, se il contrario non risulta dal titolo:

1) il suolo su cui sorge l'edificio, le fondazioni, i muri maestri, i tetti e i lastrici solari, le scale, i portoni d'ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili e in genere tutte le parti dell'edificio necessarie all'uso comune;

2) i locali per la portineria e per l'alloggio del portiere, per la lavanderia, per il riscaldamento centrale, per gli stenditoi e per altri simili servizi in comune;

3) le opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere che servono all'uso e al godimento comune, come gli ascensori, i pozzi, le cisterne, gli

acquedotti e inoltre le fognature e i canali di scarico, gli impianti per l'acqua, per il gas, per l'energia elettrica, per il riscaldamento e simili, fino al punto di diramazione degli impianti ai locali di proprietà esclusiva dei singoli condomini.

La norma citata contiene un'elencazione di parti dell'edificio oggetto di proprietà comune da parte dei proprietari dei singoli appartamenti. È la norma stessa a stabilire che, in assenza di una diversa previsione nel titolo, le parti elencate sono di proprietà comune. La derogabilità di tale regola da parte dei condomini è tuttavia relativa; alcune delle parti elencate dalla norma sono infatti necessariamente oggetto di proprietà comune (es.: i muri maestri), mentre è possibile che altre siano oggetto di proprietà esclusiva (es.: i locali per la portineria).

 

6. DIFFERENZE FRA CONDOMINIO E COMUNIONE

 

Il condominio, anche se contiene una situazione di comproprietà su alcuni beni, si differenzia dalla comunione a causa di alcune sue peculiarità:

indivisibilità: mentre la comunione si caratterizza per la temporaneità e la divisibilità, per cui ciascun comunista può in ogni momento chiedere lo scioglimento (art. 1111 c.c.), diversamente «le parti comuni dell'edificio non sono soggette a divisione» (art. 1119 C.C.);

presenza di un vincolo di destinazione: mentre nella comunione le eventuali innovazioni possono essere dirette all'impiego che si ritiene più proficuo, nel condominio degli edifici le innovazioni devono essere indirizzate «al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni (ari. 1120, 1° comma, e. c.). In particolare il vincolo di destinazione dell'edificio incide sul godimento delle pani di proprietà esclusiva dei singoli condomini.

Al riguardo la regola generale è quella posta dall'ars. 1122 c.c. che dispone che il condomino, nel proprio appartamento, «non può eseguire opere che rechino danno alle pani comuni dell'edificio». Tale regola è interpretata dalla giurisprudenza in senso estensivo facendovi rientrare tutte le ipotesi in cui l'opera del condomino possa pregiudicare la stabilità, la sicurezza o il decoro architettonico dell'edificio. Regola speciale è quella prevista dall'ars. 1127 c.c., che riconosce al proprietario dell'ultimo piano ed al proprietario esclusivo del lastrico solare, la facoltà di elevare nuovi piani, dietro corresponsione di un'indennità agli altri condomini, sempre che le condizioni statiche dell'edificio consentano tale sopraelevazione e che questa non pregiudichi l'aspetto architettonico, né provochi una notevole diminuzione dell'aria o della luce ai piani sottostanti;

presenza di un'articolata e complessa organizzazione di gestione delle cose e dei servizi comuni: mentre la comunione dispone di un modello embrionale di organizzazione, il condominio negli edifici si caratterizza per una struttura organizzatoria complessa; infatti se i condomini sono più di quattro deve nominarsi necessariamente un amministratore di condominio e se sono più di dicci è obbligatorio formare un regolamento di condominio;

preminenza dell'interesse collettivo sugli interessi individuali: mentre nella comunione la maggioranza viene calcolata in base al valore delle quote, ed è ammesso l'abbandono liberatorio per sottrarsi ai contributi per la conservazione della cosa, nel condominio invece la maggioranza viene calcolata non solo in relazione alle quote, bensì anche al numero dei partecipanti (art. 1136 c.c.) e non è ammesso l'abbandono liberatorio (ari. 1118, 2° comma)

 

Circa la ripartizione delle spese, la legge stabilisce che esse sono sostenute in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno. Tale valore è calcolato secondo il criterio dei millesimi, di modo che l'entità delle quote condominiali di ciascun condomino è determinato dalle tabelle millesimali. Queste ultime possono essere più di una; infatti, quando alcune spese riguardano cose destinate a servire alcuni condomini o in misura diversa, la ripartizione è proporzionale all'uso.


7. DISCIPLINA GIURIDICA DEL CONDOMINIO

 

A) Organi Gli organi fondamentali del condominio sono:

 

-          l'assemblea dei condomini;

-   l'amministratore.

 

L’ assemblea dei condomini è l'organo deliberativo del condominio.

 

Quanto alla formazione della volontà comune, la legge fissa alcuni principi:

a) principio della valida costituzione dell assemblea l'assemblea dei condomini, per poter validamente deliberare, deve essere regolarmente costituita; a tal fine:

‑tutti i condomini debbono essere invitati a parteciparvi;

‑ad essa deve intervenire un numero minimo di condomini che sia espressione di un determinato valore dell'intero edificio (quorum);

b) principio maggioritario: di regola, per le decisioni dell'assemblea, è necessaria la maggioranza semplice. Diversamente una maggioranza qualificata è richiesta per la validità delle delibera­zioni aventi ad oggetto innovazioni (ari. 1136, 5° comma, c.c.). Occorre invece il consenso di tutti i condomini per gli atti di disposizione;

c) principio della partecipazione dell'inquilino: la legge sulle locazioni (L. 27 luglio 1978, n. 392) consente all'inquilino la partecipazione e il voto in sede di assemblea condominiale.

Le delibere dell'assemblea sono obbligatorie per tutti i condomini. Possono essere impugnate davanti all'autorità giudiziaria entro trenta giorni dalla data della deliberazione.

L'amministratore, organo esecutivo del condominio, obbligatorio quando i condomini siano più di quattro, ha i seguenti compiti:

‑ l'esecuzione delle deliberazioni dell'assemblea;

‑ la rappresentanza (anche processuale) dei condomini nei limiti di tale attri

buzione.

Quella dell'amministrazione è una figura speciale di rappresentanza che non si identifica né con quella volontaria, per la determinazione legale delle sue attribuzioni, né con quella legale e neppure con la rappresentanza organica degli enti collettivi, poiché l'amministratore non rappresenta il condominio in quanto tale (che è privo di autonoma soggettività), bensì i partecipanti allo stesso.

L' amministratore dura in carica un anno e può essere revocato dall'assemblea in ogni tempo e per qualsiasi ragione.

 

B)  Il regolamento condominiale

Ogni condominio può avere, e quello in cui il numero dei condomini è superiore a dieci deve avere, un proprio regolamento, in cui siano fissate le norme d'uso dei vari beni, le norme di funzionamento dell'assemblea, i criteri di ripartizione delle spese etc. (cfr. art. 1138 c.c.).

Il regolamento è espressione dell'autonomia organizzativa del condominio e fissa regole dirette alla gestione delle cose comuni vincolanti per tutti i condomini, anche se assenti o dissenzienti.

Le disposizioni del regolamento incontrano due limiti: il primo è posto dall'inderogabilità di alcune norme codicistiche che maggiormente individuano i caratteri distintivi del condominio (artt. 1118, 2° comma, 1119. 1120 c.c.) e che delineano un modello tipico di organizzazione (artt. 1129, 1131, 1132, 1136, 1137 c.c.);

il secondo limite è rappresentato dai diritti di ciascun condomino che non possono in alcun modo essere menomati dalle norme del regolamento.

 

C) Estinzione del condominio

 

Il condominio, avendo carattere necessario, ha durata perpetua. Esso, tuttavia, si estingue quando venga a mancare la divisione per piani della proprietà e cioè quando tutto l'edificio diventi proprietà della stessa persona.

 

8. IL CONDOMINIO FRA PIÙ EDIFICI (SUPERCONDOMINIO)

 
Tale figura ricorre quando più edifici autonomi hanno pani comuni (viale, giardino etc.). In assenza di una normativa specifica per quanto concerne le pani comuni, si discute se si tratti di:

comunione: si afferma che in tal caso vi è un godimento in comune di un determinato servi

zio o di una pluralità di servizi, per cui la disciplina applicabile sarebbe quella prevista in tema di comunione;

condominio: è la tesi seguita dalla giurisprudenza la quale è favorevole ad ammettere che gli edifici contigui, formanti altrettanti distinti condomini, abbiano o creino beni destinati al servizio di tutti e quindi di proprietà comune. In tale ipotesi questi beni sarebbero sottoposti alla disciplina del condominio;

servitù reciproche: tale tesi non è condivisibile perché esclusa dalla comproprietà del bene destinato al servizio comune.


9. LA MULTIPROPRIETÀ

 

Nella prassi contrattuale italiana si è recentemente molto diffusa la multiproprietà immobiliare in zone turistiche, che ricorre quando lo stesso immobile (o, di solito, la stessa frazione di un complesso residenziale) viene separatamente alienato a più soggetti.

A ciascuno è attribuito il diritto (trasmissibile) di godere di quella frazione immobiliare in modo esclusivo, ma per periodi di tempo limitati, a turno con gli altri proprietari, della medesima frazione immobiliare, sulla quale viene impresso un duplice vincolo: di destinazione (turistica); di indivisibilità.

Da sempre discussa è la natura giuridica della multiproprietà. Accanto a chi nega la sua natura di diritto reale, in considerazione del tradizionale principio della tipicità dei diritti reali, c'è invece chi ne sostiene la qualificazione in termini di diritto reale atipico, sul presupposto della incontestabile presenza di caratteri di realità e dell'assenza di una norma che impedisca la costituzione di diritti reali al di fuori di quelli previsti dalla legge.

Da altri, ancora, la multiproprietà è stata ricondotta nell'ambito della proprietà. Si è parlato, così, di proprietà temporanea o di proprietà piena ed illimitata su di un bene individuato non solo nello spazio, ma anche nel tempo.

Ulteriori voci dottrinarie hanno preferito parlare della multiproprietà come di una situazione di comunione o di condominio, ma anche queste qualificazioni hanno costituito oggetto di critiche e ripensamenti.

 

La difficoltà nell'inquadrare il fenomeno della multiproprietà e la necessità di apprestare adeguate forme di tutela per l'acquirente hanno portato all'emanazione di una direttiva comunitaria (la direttiva 94/47/CE) la quale, se da un lato si preoccupava di disciplinare la fattispecie assicurando la protezione degli acquirenti di immobili in multiproprietà, dall'altro tralasciava di fornire qualsivoglia indicazione sul contenuto del diritto che viene attribuito al multiproprietario.

La legge comunitaria 24‑4‑1998, n. 128, relativa agli anni 1995‑1997, si è limitata a fare propri, sia pure con qualche precisazione ed integrazione, i principi e i criteri dettati dalla direttiva comunitaria (art. 41) stabilendo i principi ed i criteri direttivi cui doveva informarsi l'attuazione della direttiva.

Il consiglio dei ministri ha finalmente varato il decreto legislativo di attuazione delle norme comunitarie (D.Lgs. 9‑11‑1998, n. 427). Detto decreto definisce il contratto di acquisizione del diritto di multiproprietà e i relativi requisiti, senza, tuttavia, individuare la natura giuridica del diritto del multiproprietario.

La disciplina introdotta si sostanzia in una forma di tutela dell'acquirente ispirata alla trasparenza del contratto, ed è informata a tre linee‑guida fondamentali: l'obbligo per il venditore di fornire in maniera dettagliata, nella fase delle trattative, tutte le informazioni necessarie a far sì che il compratore prenda, in ordine all'acquisto, una decisione ponderata e consapevole; la possibilità, sempre per il compratore, di recedere entro determinati termini (anche ad nutum) dal contratto; il divieto per il venditore di esigere o ricevere somme di denaro, a qualsiasi titolo, fino alla scadenza del termine previsto per l'esercizio del diritto di recesso.

Il venditore, inoltre, è obbligato a prestare fideiussione bancaria o assicurativa a garanzia dell'ultimazione dei lavori di costruzione del bene immobile (ove, ovviamente, si tratti di immobile in costruzione).

La multiproprietà ora esaminata va tenuta distinta dalla multiproprietà alberghiera (il bene immobile è compreso in un complesso alberghiero intestato a più proprietari) e dalla multiproprietà azionaria (il bene immobile è goduto in virtù del possesso delle azioni della società titolare del bene).


1 - IL POSSESSO E L’USUCAPIONE

 

Ci sono delle norme del c.c. che hanno riguardo a situazioni di fatto. Il possesso è il potere sulla cosa corrispondente all'esercizio di un diritto di proprietà o di un altro diritto reale di godimento (1140). Si può possedere direttamente nelle proprie disponibilità, oppure attraverso altri nella forma della detenzione.. Perché ci sia possesso vero e proprio occorrono due elementi: uno oggettivo che è il possesso concreto della cosa, e l'altro soggettivo che è la convinzione di tenere la cosa con l'intenzione di farla propria. Se ad esempio do la cosa in prestito, posso avere il requisito soggettivo, la convinzione di esserne il proprietario, ma non ho più il possesso materiale. È il caso della detenzione, che è di colui che ha nelle sue mani la cosa di altri. Il possesso è presunto fino alla prova della detenzione (1141).

 

Quando si parla di possesso si vengono a contrapporre situazioni di fatto a situazioni di diritto. La situazione di fatto è comunque rilevante e produttiva di situazioni giuridiche, perché attraverso il possesso si può arrivare ad essere titolari del diritto corrispondente. La ragione di una simile posizione del sistema giuridico sta nella necessità di tutelare un interesse generale a non creare situazioni instabili dovute al fatto di dover sempre dimostrare la proprietà da cui dipende il possesso effettivo della cosa da parte del proprietario. Il possesso è tutelato anche in funzione della corretta circolazione della ricchezza, affinché i beni immobili siano sempre attribuibili ad una persona. L'usucapione è infatti un modo di acquisto della proprietà attraverso il possesso; per un bene mobile è richiesto, in più, che il possesso sia in buona fede (1153). Il possesso in buona, cioè compiuto nell'ignoranza di ledere un altrui diritto, è presunto (1147).

 

La portata dell'art. 1153 è piuttosto ampia. Tutela la circolazione della ricchezza sotto forma di beni mobili. Infatti chi possiede in buona fede un bene mobile e ha un titolo idoneo a trasferire la proprietà al momento della consegna della cosa, ne resta proprietario a tutti gli effetti, anche se chi lo ha venduto non era legittimato a vendere. L'azione di reintegrazione nel possesso può essere esercitata soltanto dal possessore. Sorge a questo punto il problema di determinare la posizione del soggetto rispetto alla cosa: possessore o detentore. Ma è il comportamento dello stesso soggetto che ha nelle sue mani il bene a svelare la sua posizione. Ad esempio, il locatario e il comodatario sono detentori. Il primo perché paga il canone, il secondo perché è obbligato utilizzare la cosa secondo il suo normale impiego ed alla restituzione.

Il detentore diventa possessore solo in forza di una atto giuridico, per esempio se l'affittuario compra il bene, o se si rifiuta di pagare il canone senza lasciare l'appartamento, e trattandosi di bene immobile, quindi non essendo necessaria la buona fede, se il proprietario non rivendica nulla, trascorso il termine sarà usucapito. La tolleranza del proprietario, però non permette l'usucapione, deve esserci un vero e proprio disinteresse verso la cosa. Ciò è valido anche per le servitù; se per esempio il mio vicino passa sul mio fondo senza averne un reale bisogno ed io lo permetto per tolleranza di vicinato, non potrà realizzarsi una servitù di passaggio.

 

Le cose extra commercio, ad esempio quelle demaniali, che non possono essere acquistate in proprietà, possono essere possedute, nel caso a titolo di concessione, ed esiste una tutela di tale possesso con le azioni possessorie. Un importante momento dottrinale è l'inversione dell'onere della prova per il proprietario che non ha il possesso, mentre la regola impone a chi rivendica un diritto contro la proprietà di qualcuno a dimostrare il suo. Le azioni possessorie possono essere esperite anche dal proprietario, cosa che gli permette di ottenere più rapidamente effetto, senza comunque precludersi la possibilità di ricorrere all'azione di rivendica. L'azione di reintegrazione può essere proposta anche dal detentore.

 

2 - EFFETTI E MODI D'ACQUISTO DEL POSSESSO

 

Anche il possesso, come i diritti reali, si acquista a titolo originario o derivativo. Nel primo con l'apprensione della cosa e con l'aspetto psicologico di volerla fare propria. A titolo derivativo, quando il possesso passa da un soggetto ad un altro, ad esempio per successione ereditaria universale. A differenza, nel caso della successione a titolo particolare, come può essere il legatario, il nuovo possessore può decidere se aggiunge il possesso del suo dante causa. È questo il caso dell'accessione del possesso (1146), per godere dei benefici così maturati. La buona fede del possesso è quella soggettiva (1147). L'acquirente in buona fede fa suo il bene mobile che non era di proprietà del venditore (1153) se ha un titolo valido al momento del trasferimento.

È diversa dalla buona fede oggettiva richiesta in materia contrattuale che si richiama alla solidarietà contrattuale. Per il codice la buona fede si presume, quindi sta alla controparte dimostrare il contrario. Il possesso attuale non presume quello trascorso, mentre si presume quello intermedio tra un possesso precedente ed uno attuale.

 

3 - EFFETTI DEL POSSESSO

 
Sono previsti determinati effetti del possesso dal codice

 

In ordine alla disciplina della restituzione dei frutti in conseguenza della rivendicazione.

 

Se per effetto di una rivendicazione si deve restituire una cosa che è produttiva di frutti, c'è differenza in relazione alla buona o alla cattiva fede che aveva il possessore. Se il possessore è in buona fede questi dovrà restituire i frutti della cosa solo dal momento della domanda di restituzione, tenendosi quelli precedenti. Se è in cattiva fede, dovrà invece restituire tutti i frutti o rimborsare l'equivalente. Tutti e due avranno comunque diritto al rimborso delle spese sostenute per i miglioramenti o le riparazioni varie. Anche qui si differenzia se è in buona o cattiva fede. Nel caso di cattiva fede c'è solo un indennizzo per i miglioramenti e non un rimborso o indennità propria e piena. Bisogna poi distinguere se i miglioramenti o addizioni sussistono o no al momento della consegna del bene. Le spese straordinarie invece vanno sempre rimborsate. Questi istituti vengono comunque richiamati anche da varie leggi speciali. Per miglioramento si intende un aumento di valore della cosa. La spesa straordinaria invece non porta un aumento di valore, almeno nella  maggior parte dei casi. Perché ci sia un miglioramento c'è bisogno dell'opera dell'uomo. Bisogna comunque distinguere se il miglioramento viene dall'opera oppure no. Può ad esempio il miglioramento, venire per opera di un soggetto esterno; in questo caso c'è il pagamento dell'indennità e non dell'incremento reale di valore del bene. Il miglioramento deve comunque essere duraturo e non transitorio. Il diritto di ritenzione è una forma di autotutela del possessore, il quale tiene la cosa fino a quando non è corrisposta l'indennità. Questo diritto di ritenzione è concesso comunque solo al possessore di buona fede. Miglioramenti e addizioni non sono la stessa cosa. Le addizioni sono un qualcosa che si aggiunge conservando però la stessa identità alla cosa. Il miglioramento invece va a costituire un tutt'uno con la cosa principale. Alcune volte però il miglioramento può essere rinnovabile dal bene in possesso. In questo caso può però succedere che rinnovare il bene costa più del bene stesso. Se invece per esempio faccio una cosa su un fondo questa viene a costituire un tutt'uno con il bene e non è certo rinnovabile. E' quindi palesemente un miglioramento, come lo può essere anche una piantagione di alberi ecc. L'addizione è invece una cosa aggiunta che può essere tolta in qualunque momento e senza tante spese. Se il proprietario vuole trattenere l'addizione alla cosa dovrà pagare l'indennità, secondo l'aumento di valore se è in buona fede.

 
Quando il possesso vale titolo.

 

Un altro effetto del possesso in buona fede è quello che determina l'acquisto del bene mobile (1153). In questo caso si prevedono, come requisiti: la buona fede, il possesso e un titolo astrattamente idoneo. Astrattamente idoneo (a trasferire la proprietà), perché se fosse perfettamente idoneo la proprietà sarebbe già pacifica. Il 1153 è una deroga (al principio che ognuno non può dare più di quello che ha; nemo plus iuris ad alium transferre potest quam ipse habet) per favorire la circolazione dei beni mobili e tutelare quella degli immobili: Infatti, se non ci fosse, quando si compra un bene mobile non si sarebbe mai sicuri di esserne proprietari pacificamente. Nel diritto germanico medioevale per esempio si è riconosciuto al possesso di beni mobili il titolo della buona fede, riconoscendo che il bene mobile sia acquistato anche in base al solo possesso in buona fede. Questo principio e stato seguito anche nel codice Napoleone del 1804 con un eccezione che prevedeva, sì l'acquisto di un bene mobile per possesso in buona fede, consentendo, però, la tutela del proprietario a cui fosse stata rubata la cosa o l'avesse smarrita. A questo era quindi riconosciuta l'azione di rivendicazione. Tale norma fu trascinata nel codice del 1865 che prevedeva anche il pagamento dell'indennità al possessore in buona fede. Questa soluzione è sparita nel codice del 1942., mentre è ancora presente in altri ordinamenti europei. Il c.c. del 1942 ha invece optato per la tutela della circolazione dei beni mobili, con molti problemi per i beni mobili storici ed artistici. Quindi la regola che il possesso vale titolo è buona per certi tipi di bene, ma non altrettanto per certi altri.

Il 1153 determina un acquisto immediato e basato sui 3 requisiti indicati dall'articolo stesso, senza aspettare che il bene venga acquistato per usucapione a condizione quindi della buona fede, dell'atto astrattamente idoneo, e del possesso (proprietà pretoria).

Se manca uno dei tre requisiti si dovrà aspettare l'acquisto per usucapione. Se manca il possesso non si fa proprio niente. Se manca l'atto astrattamente idoneo e c'è possesso e buona fede acquisterà la proprietà per usucapione di 10 anni. Nel caso comunque di beni d'arte, ci sono delle leggi speciali che vanno osservate prima di acquistare. La buona fede è sempre difficile da dimostrare. La buona fede non può essere considerata tale quando l'acquirente è in colpa grave o quando conosceva la provenienza illecita del bene (incauto acquisto - penale). Se si conosce l'illegittima provenienza del bene, ma il soggetto che vende è in perfetta buona fede, il secondo acquirente che fosse a conoscenza di tale provenienza è sempre in mala fede. Si acquista con questa regola a titolo originario la proprietà, l'usufrutto, l'uso e il pegno sui beni immobili. Non per i diritti reali che si riferiscono a beni immobili. Sono escluse anche le universalità di mobili (biblioteca) e i beni mobili registrati . A proposito di questi ultimi c'è un disegno di legge che intende cambiare il regime degli stessi. Se il proprietario di un bene mobile vende a due persone diverse in buona fede, in due momenti diversi e con titoli astrattamente idonei, la proprietà passerà a chi ne ha il possesso. Se invece la cosa venduta è un bene immobile, il novo proprietario sarà chi per primo ha trascritto l'atto (trascrizione dichiarativa).

4 - USUCAPIONE.

 

Per l'altro modo di acquisto a titolo originario, l'usucapione, diremo che è valido anche per i beni immobili, le universalità d'immobili, i beni mobili registrati e i beni mobili non soggetti al 1153. L'usucapione è anche detto prescrizione acquisitiva, per contrapporlo alla prescrizione estintiva, con la quale ha in comune le caratteristiche della decorrenza del tempo e l'importanza del comportamento del soggetto, con la differenza che quest'ultima fa estinguere il diritto, mentre il primo lo fa acquistare. La prescrizione estintiva è comunque uno strumento molto più ampio, dato che quasi tutti i diritti possono estinguersi. L'imprescrittibilità di un diritto è un'eccezione. L'usucapione si riferisce solo a diritti reali e non a diritti di credito o personalissimi. L'usucapione si basa sul possesso e sulla decorrenza di un tempo stabilito che cambia a seconda del tipo di bene e della buona o mala fede. 20 anni per gli immobili, universalità di beni e beni mobili con mala fede, abbreviati a 10 anni per buona fede. 10 anni per i beni mobili registrati ridotti a 3 con usucapione abbreviato per buona fede. Se per un bene mobile manca solo un titolo astrattamente idoneo, ma c'è possesso in buona fede l'usucapione abbreviata e di 10 anni. Per l'usucapione abbreviata di bene immobile oltre alla buona fede ci deve essere anche il titolo astrattamente idoneo.

 

 

Beni

 

regola

 

in mala fede

 

in buona fede

 

in buona fede con titolo astrattamente idoneo

 

Immobili e diritti reali di godimento su immobili

 

20

 

art. 1158

 

20

 

art. 1158

 

20

 

art. 1158

 

10

 

art. 1159

 

Universalità di mobili e relativi diritti reali di godimento

 

20

 

art. 1160

 

20

 

art. 1160

 

20

 

art. 1160

 

10

 

art. 1160

 

Fondi rustici con abitazioni annesse in località montane o con basso reddito

 

15

 

art. 1159 bis

 

15

 

art. 1159 bis

 

15

 

art. 1159 bis

 

5

con titolo registrato

art. 1159 bis

L.346/76

 

 

Mobili e relativi diritti reali di godimento

 

20

 

art. 1161

 

20

 

art. 1161

 

10

 

art. 1161

 

alla consegna

 

art. 1153

 

Mobili registrati e relativi diritti reali di godimento

 

10

 

art. 1162

 

10

 

art. 1162

 

10

 

art. 1162

 

con titolo trascritto

3

anni dalla trascrizione

art. 1162

 
5 - POSSESSO QUALIFICATO

 

Normalmente non è richiesto il possesso in buona fede, ma ad usucapionem, o qualificato, cioè pacifico, pubblico (nec vis, nec clam) e continuato (non interrotto). Se c'è clandestinità o violenza, finchè non cessano tali circostanze non decorre il tempo per l'usucapione. Continuo significa che non ci deve essere interruzione della situazione di fatto per oltre un anno (1167). Dopo l'interruzione il tempo deve decorrere per intero come se iniziasse ex novo il possesso.

 

6 - TUTELA DEL POSSESSO

 

Mentre le azioni per la tutela della proprietà si chiamano petitorie, quelle per la tutela del possesso si chiamano possessorie.

 

Reintegrazione o spoglio. Quando un possessore è spogliato della cosa con violenza o occultazione, entro un anno dallo spoglio, può chiedere al giudice la restituzione della cosa (1168). L'azione spetta anche al proprietario o al detentore a meno che non lo sia per servizio, tolleranza o ospitalità. Se lo spoglio è clandestino, l'azione si prescrive a partire dal giorno in cui se n'è avuta notizia. Il terzo acquirente a conoscenza dello spoglio (pertanto in mala fede) non può esimersi dal subire l'azione (1169).

 

Manutenzione. È l'azione con cui si interrompe una turbativa nei confronti di chi possiede, da più di un anno, senza violenza o clandestinità (o a un anno dalla cessazione di tali circostanze) un immobile, un diritto reale di godimento o un'universalità di mobili. In altre parole, quest'azione è concessa a chi ha il possesso qualificato del bene. Quest'azione spetta anche al possessore che abbia subito lo spoglio senza violenza o clandestinità (1170), come alternativa all'azione di reintegrazione. Le molestie possono essere di fatto o di diritto, a seconda che siano rivolte a limitare il diritto o che siano dirette all'esercizio di un'azione legale per limitarlo.

 

Nunciazione. È l'azione (cautelare) che si esperisce con denunzia di nuova opera oppure con denunzia di danno temuto. La denunzia di nuova opera spetta al proprietario, o al titolare di un diritto reale di godimento, o al possessore di un fondo, che risulti danneggiato da un'opera in costruzione da meno di un anno (e non ancora ultimata). L'autorità giudiziaria svolge dapprima accertamenti sommari, quindi si pronuncia sulla sospensione o meno dei lavori, prendendo opportune cautele di risarcimento, o del danno al costruttore per la sospensione, o del danno al diritto del denunciante per la mancata sospensione, a seconda di come risulterà dalla sentenza definitiva (1171). Si distingue, quindi, una fase sommaria e una successiva fase inquisitoria più approfondita. La denunzia di danno temuto, invece, si riferisce a qualcosa che esiste già e che incombe pericolosamente sulla cosa oggetto del diritto (proprietà, usufrutto, servitù, possesso, ecc.). L'azione tende a che il giudice verifichi lo stato di pericolo immediato di un danno grave. Anche qui il giudice prende precauzioni per il risarcimento del danno eventuale di una delle parti. È logico che l'azione deve prevenire il danno, altrimenti si tratterebbe di un risarcimento del danno da fatto o atto illecito.

 

1 - LE OBBLIGAZIONI

 

Diritti personali, o di credito o relativi.

 

I diritti reali, esaminati finora, sono quelli, come abbiamo già detto, che si rivolgono a tutti e che non hanno bisogno del concorso dell'opera di nessuno al di fuori del titolare del diritto stesso. Esiste, però, nella vita sociale, anche la necessità di forme di relazione in cui un soggetto operi a vantaggio di altri per ottenere fini riconosciuti dall'ordinamento giuridico che altrimenti i singoli soggetti non potrebbero conseguire. Tali situazioni giuridiche comprendono diritti riferibili ed esigibili solo a determinate persone, legate in rapporti che li obbligano a tenere un preciso comportamento, o più in generale, una precisa prestazione. Il codice non definisce ne' le obbligazioni e ne' il rapporto obbligatorio, ma la dottrina classica vi sopperisce:

Obbligatio est iuris vinculum quo necessitate adstringimus alicuius solvende rei secundum nostre civitates iura

È un rapporto dal quale scaturisce un vincolo tra un soggetto passivo (debitore) che deve fornire una prestazione in favore di un soggetto attivo (creditore).

 

Distinzioni tra diritti reali e di credito.

 

Caratteristiche dei diritti

reali

Di credito

tipicità

Atipicità

assolutezza

Relatività

immediatezza

mediatezza

inerenza

non inerenza

 

Tipicità significa tassatività dei diritti riconosciuti dall'ordinamento. Assolutezza con riferimento all'efficacia erga omnes. Immediatezza indica l'assenza del concorso e della partecipazione nell'esercizio del diritto. Inerenza nei riguardi della relazione che unisce il titolare del diritto all'oggetto dello stesso in qualunque posto si trovi. Oggi, però, tali caratteristiche non assicurano più una netta distinzione tra diritti reali e diritti di credito, perché, per esempio, un contratto preliminare, se registrato, è opponibile ai terzi, quindi, il contratto, pur essendo certamente espressione di un rapporto obbligatorio, con la registrazione perde la caratteristica della relatività. Per i diritti di credito non è possibile una tutela esterna, cioè nei confronti di chi è estraneo al rapporto, ma, oltre al caso sopra rappresentato, a partire dagli anni '70, la giurisprudenza ha concesso la possibilità, per il creditore, di ottenere il risarcimento per il danno subito derivante dall'inadempimento del debitore provocato dal terzo. In questa fattispecie, il debitore inadempiente per causa a lui non imputabile (1218) (che dimostri , cioè, di non avere avuto modo di fornire la prestazione, avendo tenuto un comportamento conforme alla normale cura o diligenza del buon padre di famiglia) non è ritenuto responsabile (responsabilità contrattuale), ma sarà il terzo a dover risarcire il danno (per responsabilità extra contrattuale) ex art. 2043. La giurisprudenza ci fornisce un esempio del passato remoto ed uno più recente.

 

A)    Caso Superga. La società del Torino calcio chiese il risarcimento del danno per la mancata prestazione dei giocatori deceduti nel disastro aereo. La Corte di Cassazione respinse il ricorso.

B)     Caso Moroni. Il terzo che causò la morte, e quindi l'inadempimento del contratto che il calciatore aveva sottoscritto con la società Torino calcio, fu condannato a risarcire il danno alla squadra secondo le norme dell'illecito civile extracontrattuale.

 

È evidente l'evoluzione percorsa dalla giurisprudenza verso l'appiattimento della distinzione tra diritto reale e relativo rispetto alla caratteristica dell'assolutezza. La distinzione che garantisce ancora una netta distinzione è quella basata sul tipo di titolo di acquisto. I diritti reali si acquistano sia a titolo originario che a titolo derivativo, mentre i diritti relativi si acquistano solo a titolo originale.

2 - L'OBBLIGAZIONE

 

L'obbligazione è un vincolo giuridico per cui il debitore è tenuto ad una prestazione, valutabile economicamente, nell'interesse del creditore.

 

Elementi dell'obbligazione sono:

-          La dualità del rapporto;

-          L'interesse del creditore;

-          La prestazione.

 

Dualità del rapporto. È chiaro che per poter esistere un'obbligazione è necessario che nel rapporto siano presenti almeno due parti, di cui una passiva ed una attiva. Le due situazioni non è detto che siano nettamente delimitate e definite, perché possono esserci diritti e doveri reciproci, come nel caso della compravendita.

Interesse del creditore. Perché ci sia rapporto obbligatorio bisogna individuare l'interesse del creditore. Questo elemento non deve mai mancare in tutta la durata del rapporto, oltre che esserci nel momento dell'assunzione dell'obbligo.

Prestazione.         È l'oggetto dell'obbligazione. Deve essere economicamente valutabile, anche se il beneficio non è di tipo patrimoniale (1174). La prestazione è libera, ma deve essere degna di tutela da parte dell'ordinamento (1322). Il concetto di "valutabilità economica della prestazione" collima con il contenuto dell'art. 814, che dice che l'energia è considerata un bene quando è suscettibile di valutazione economica. Il carattere di patrimonialità del rapporto si evince da una norma dettata per i contratti, per i quali è tassativo che la prestazione (non l'interesse del creditore) sia di tipo patrimoniale (1321). I beni non patrimoniali (i beni demaniali dello stato, ad esempio) non essendo suscettibili di valutazione economica, perché non sono commerciabili, non possono essere oggetto di un contratto. Non è necessario che il beneficio diretto al creditore (ossia il suo interesse), sia un bene patrimoniale, ma è sufficiente che l'interesse che questi ha alla prestazione sia in qualche modo riconducibile, mediante un indice di patrimonialità, ad una valutazione economica (esempi ne sono la caparra penitenziale e la clausola penale, oppure la realizzazione di un'opera pittorica).

Le prestazioni possono essere in:

-     dare

-     fare

           di mezzi: prestazione senza garanzia di risultato, con rischio a carico del creditore (es. medici o avvocati)

           di risultato: prestazione con garanzia di risultato con rischio a carico del debitore (es. appalto d'opera o servizio - 1655)

-     non fare (o permettere)

 

 

3 - DUALITÀ DELLE SITUAZIONI SOGGETTIVE

 

Il rapporto obbligatorio si sviluppa intorno ai due aspetti del credito e del debito, e la legge vuole che questa relazione sia condotta da ambo le parti con correttezza (1175). Il metro di valutazione della correttezza è quella clausola generale che va sotto il nome di buona fede (1337). Ma non è la buona fede del possessore che non deve possedere con la coscienza di ledere un diritto altrui (buona fede soggettiva), è una cosa diversa il comportamento delle parti che rispondere a criteri oggettivi,  per questo si tratta di una buona fede oggettiva, che si misura con la diligenza del buon padre di famiglia (1176). Tra creditore e debitore deve esistere un rapporto di cooperazione. Il debitore deve preoccuparsi di adempiere all'obbligo fornendo la prestazione secondo l'interesse del creditore, il quale a sua volta deve creare le condizioni adeguate a che possa ricevere la prestazione, senza che il debitore sia gravato da ulteriori oneri.

 

 

4 - L'INTERESSE DEL CREDITORE

 

Il debitore può adempiere anche perché mosso dall'interesse di realizzare la sua personalità, quindi la remissione del debito da parte del creditore non ha efficacia se il debitore non accetta. L'interesse del creditore è uno degli elementi costitutivi dell'obbligazione, perché se viene a mancare anche solo per un momento, e il debitore accetta la remissione, l'obbligazione si estingue. Tale interesse può essere tale che il creditore chieda la prestazione direttamente dal debitore; a questo è concesso di devolvere a terzi solo se il creditore non ha un interesse a ricevere la prestazione personalmente dal debitore (1180), il che significa che non basta il capriccio del creditore, ci deve essere un interesse, come può essere quello di farsi dipingere un ritratto dall'artista debitore e non da un suo allievo.

 

 

 

 

5 - COERCITIVITÀ DELLA PRESTAZIONE

 

Dal combinato disposto del 1174 e del 1218 si evince che il mancato adempimento è gravido di effetti tendenti al riequilibrio del rapporto. Di fronte all'inadempimento il debitore è perseguibile. Il creditore ha a disposizione le azioni persecutorie per ottenere la prestazione oppure un risarcimento del danno che il debitore dovrà pagare facendo conto su tutto il suo patrimonio di beni presenti e futuri. L'adempimento non è coercibile per i casi di obbligazioni naturali (debiti di gioco, sentimenti di gratitudine, ecc.) che non sono riconosciute dal nostro ordinamento, quindi non ricevono tutela giudiziaria (2034) (1933), fatta salva la soluti retentio, ovvero la prerogativa del creditore di trattenere la prestazione se assolta volontariamente dal debitore (eccetto che questi sia incapace). In altri termini l'irripetibilità della prestazione da obbligazione naturale si applica a condizione che non ci sia violenza (libera volontà del debitore) e, di conseguenza, che il debitore sia in quel momento in grado odi intendere e di volere. L'ordinamento, se da un lato non riconosce effetti giuridici alle obbligazioni naturali, da un altro deve comunque tutelare degli obblighi morali o sociali, se questi sono spontaneamente ammessi coi fatti dal debitore, riconoscendo effetti non all'obbligazione, ma al suo adempimento. Il principio giuridico è applicabile anche all'adempimento di un obbligazione, pur giuridicamente rilevante, si sia prescritta, o sia stata comunque estinta (anche annullata da sentenza passata in giudicato).

 

Si distinguono 2 categorie di obbligazioni naturali, tipizzate (2° co. art. 2034) e non tipizzate (1° co.). Qualche autore parla di obbligazioni rispettivamente imperfette e generiche. Imperfette (tipizzate), perché non è concessa l'azione legale per la sua tutela (debiti di gioco - 1933). Le obbligazioni naturali non vanno confuse con gli atti di liberalità (donazioni - testamento), con i quali hanno delle attinenze. Entrambe mancano di coercitività, cioè non costituiscono obbligo giuridico finchè non gli si è dato corso; chi dona non ha nessun obbligo di farlo. Differiscono concettualmente perché, mentre gli atti di liberalità costituiscono la massima espressione della libertà negoziale, quindi fondamentalmente sulla liberà volontà del dante causa, le obbligazioni naturali si fondano su un obbligo morale o sociale.

 

 

6 - TIPOLOGIA DELLE OBBLIGAZIONI

 

Ci sono tre elementi strutturali del rapporto obbligatorio. Uno di questi è la dualità del rapporto, la coesistenza cioè di due situazioni soggettive. Si ammette che in una o in entrambe vi siano contemporaneamente più soggetti, implementati comunque in due fronti: la parte creditoria e la parte debitoria. In questo caso si distinguono obbligazioni: parziaria o solidale.

 

 

Obbligazioni parziarie o solidali.

 

1                    Parziaria: nella quale i debitori, o i creditori, sono titolari di una quota dell'obbligazione, cioè devono adempiere o ricevere la prestazione ciascuno per la propria parte;

2                    Solidale: se invece devono adempiere (o ricevere) per intero.

 

Dal lato passivo la legge fissa la presunzione di solidarietà. Se le parti tacciono a riguardo, nel senso che non risulti diversamente stabilito nel titolo costitutivo dell'obbligazione, si intende che i diversi debitori sono tutti tenuti all'adempimento per intero dal creditore. Questa presunzione va a favore del creditore, che vede aumentare le possibilità di ottenere la prestazione, potendo chiederla a uno qualunque dei creditori, e ciò fa comodo quando uno o alcuni dei creditori non sono solvibili. Il debitore a cui è stato richiesto l'adempimento può a sua voltare rivolgere agli altri debitori la quota di regresso, e nel caso che uno o più di questi fossero insolvibili, il valore della prestazione sarà ripartito tra i rimanenti debitori solvibili.

 

Esistono delle eccezioni riguardo ai coeredi, i quali rispondono solo per la loro quota d'eredità. L'erede, se universale, peraltro eredita il complesso delle situazioni del dante causa, quindi anche le eventuali passività, per le quali risponde anche con il suo patrimonio. Se ci sono più eredi, questi non risponderanno solidalmente delle obbligazioni, ma solo nella misura della quota d'eredità, e mai per l'intero debito. Il rapporto obbligatorio ha altri aspetti; se ad esempio uno dei creditori compie una ricognizione del debito per interrompere la prescrizione, anche gli altri debitori ne beneficiano. La prescrizione si interrompe anche per atto di riconoscimento del debitore. Ma l'ammissione del debito di uno dei debitori produce effetti di interruzione della prescrizione anche per gli altri debitori ? Oppure, la costituzione in mora fatta ad uno dei debitori, ha effetti anche sugli altri ? C'è una regola generale dettata dall'ordinamento, per cui, in presenza di solidarietà attiva o passiva, si estendono gli atti favorevoli alle parti agenti, e non invece per gli atti a sfavore delle parti (1294) (754 - coeredi). La costituzione in mora è un atto del creditore che crea uno svantaggio per il debitore, quindi in questo caso non si estendono gli effetti agli altri debitori cui non è stata comunicata. Il riconoscimento del debito di uno dei debitori solidali non coinvolge gli altri, mentre andrà a vantaggio di tutti gli altri creditori solidali (1309). Stesso per la remissione del debito, essendo a favore di tutti i debitori, si estenderà anche a loro, salvo che il creditore non abbia specificato l'esclusione degli altri debitori. Il creditore può anche rinunciare alla solidarietà verso uno dei debitori, conservandola per i rimanenti. Il codice non si esprime per la solidarietà attiva. Peraltro vi è la presunzione opposta, cioè, se le parti non stabiliscono diversamente nel titolo, si intende che i creditori abbiano stipulato un'obbligazione parziaria. Pertanto, se un debitore vuole assolvere alla prestazione, la deve rendere a ciascun creditore per la sua quota, e non interamente ad uno solo di essi, perché in tal caso l'obbligazione non si estinguerebbe. Esiste l'eccezione dei depositi bancari (conti correnti e cassette di sicurezza), che per legge sono solidali dal lato attivo, ovviamente se vi fossero più cointestarari del deposito. Esempio di situazione attiva parziaria: se due coniugi in regime di comunione dei beni vendono una casa, sono titolari della metà del credito ciascuno, quindi l'acquirente dovrebbe pagare il prezzo metà ad uno e metà all'altro coniuge; a meno che non sia diversamente stabilito nel contratto di compravendita.

 

 

Obbligazioni divisibili e indivisibili.

 

A seconda che la stessa prestazione sia divisibile o meno:

1                    Divisibile: quando la prestazione è divisibile, cioè quando non perde la sua essenza nell'essere divisa;

2                    Indivisibile: quando dividerla significherebbe renderla sostanzialmente diversa e perciò inservibile per gli scopi cui era destinata, oppure quando le parti ne hanno stabilito l'indivisibilità.

 

Un'auto non è divisibile senza che perda la sua essenza, di conseguenza anche l'obbligazione avente ad oggetto la consegna di un'auto sarà indivisibile.

Alle obbligazioni indivisibili si applicano le norme sulle obbligazioni solidali.

 

 

Obbligazioni cumulative e alternative.

 

1                    Cumulative: più prestazioni da adempiere tutte;

2                    Alternative: da adempierne una sola tra quelle stabilite.

 

Se ci sono più prestazioni nell'ambito di una stessa obbligazione, questa può rispondere a obbligazioni cumulative o alternative, a seconda che esista la previsione che le prestazioni siano rese tutte oppure una di esse soltanto, senza trascurare, nel secondo caso, a chi sia attribuita la facoltà di scelta della prestazione da rendere. Un esempio di obbligazione cumulativa è un pacchetto viaggio offerto da un tour operator, contenente il viaggio e il soggiorno, due prestazioni riferite ad una sola, e vanno adempiute tutte. Se le prestazioni sono alternative (es. 1179), il debitore si libera se adempie ad una di queste, a scelta, di norma, del debitore (1286), se non stabilito diversamente nel titolo. Per esempio la vincita di un premio per l'acquisto di un bene a scelta del vincitore in un determinato negozio. Il titolare del ius decidendi, una volta comunicata la scelta o data esecuzione a una prestazione, non può più cambiare idea; l'obbligazione diventa semplice, non è più alternativa. Da questo possono derivare effetti connessi al perimento della cosa.

 

 

7 - NASCITA DI UN'OBBLIGAZIONE

 

Sono fonti di obbligazioni, i contratti, i fatti illeciti ed ogni altro atto o fatto idoneo a produrle (1173). Da questa classificazione nasce il problema aperto della tipicità delle obbligazioni, per via delle ultime parole, nelle quali confluiscono quei tipi che la dottrina classica definiva quasi ex contratto e quasi ex maleficio (fatto illecito). Ci sarebbe spazio per supporre che il legislatore abbia lasciato volutamente aperto il problema per sancire l'atipicità delle obbligazioni. Ma è forse un falso problema, perché i 6 tipi di obbligazione che trovano posto nel codice sono i soli che si sono visti nell'esperienza giuridica, e questo perché tutti i casi, nella realtà, sono riconducibili al contratto o al fatto illecito.

 

8 - ESTINZIONE DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO

 

L'estinzione naturale è quella dell'adempimento. Per adempimento s'intende l'esatta prestazione che emerge dal combinato disposto dei due articoli del codice:

1176.      Diligenza nell'adempimento. Nell'adempiere l'obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia. Nell'adempimento delle obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell'attività.

1218.      Responsabilità del debitore. Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno se non prova che l'inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.

 

Esatta prestazione significa che deve soddisfare tutti gli interessi del creditore, quindi il comportamento del debitore deve tendere a che il creditore sia soddisfatto nei suoi bisogni oggetto del rapporto. Il creditore da parte sua deve favorire l'adempimento del debitore, quindi non deve ostacolare, anzi deve mettere in atto tutto quanto è nelle sue possibilità affinchè il debitore non abbia oneri aggiuntivi. Gli articoli seguenti al 1176, fino al 1217, sono riferiti alle modalità che qualificano come esatto l'adempimento (surrogazione, mora del creditore, ecc.). Dal 1218 in avanti sono definiti i canoni di adempimento (mora del debitore); dal 1224 in poi si tratta del pagamento, che è una forma di adempimento. La diligenza del buon padre di famiglia è quella dell'uomo medio. È una sorta di unità di misura per valutare la bontà del comportamento. In ogni caso si valuta caso per caso, non in modo astratto e generale. Sarà compito del giudice la valutazione, tenendo anche conto delle capacità professionali del debitore.

 

Ad esempio, se per conoscere la situazione di appartenenza di un immobile mi rivolgo ad un conoscente, la bontà delle informazioni potrà non essere delle migliori, e la responsabilità di quella persona saranno valutate rispetto all'uomo medio. Se invece incarico un professionista, questo avrà necessariamente una responsabilità maggiore. Al criterio generale del 1° comma del 1176 sull'uomo medio, soccorre quello del 2° che impone la valutazione caso per caso. Il debitore ha diritto alla quietanza, le cui spese rimangono a suo carico comunque. Ci sono tre elementi che influiscono sull'esatto adempimento: il luogo, il tempo e i soggetti (l'adempiente o il ricevente la prestazione). Se non ci sono accordi sul luogo di adempimento e non si può evincere dalle circostanze, il codice fissa alcuni principi, come il luogo dove è sorta l'obbligazione, o, se la prestazione è in denaro, il luogo di domicilio del creditore. Negli altri casi la prestazione va adempiuta al domicilio del creditore. Se adempiere nel domicilio del creditore, quando questi avesse cambiato domicilio, risultasse più oneroso, il debitore può chiedere di adempiere presso il proprio domicilio. Quindi, in definitiva i criteri rispetto al luogo sono tre.

 

L'altro elemento che costituisce le modalità d'adempimento è quello del termine. In mancanza di accordi sul momento dell'adempimento, il creditore lo può chiedere la prestazione in qualsiasi momento (1183). In questo caso il debitore può rivolgersi al giudice perché fissi un termine. L'adempimento può essere lasciato all'arbitrio di una delle parti, mentre l'altra può chiedere di fissare un termine. Se il termine si rende necessario, lo stabilisce il giudice. Se le parti hanno stabilito il termine (ad es. 30 gg. data fattura fine mese), si presume che il beneficio del termine vada a vantaggio del debitore, se non è stato stabilito il contrario (1184). Quando il beneficio del termine è in favore del debitore, ma questi decade prima della scadenza, ad esempio per diminuzione delle garanzie prestate per sua colpa, è tenuto all'adempimento immediato (1186) (2743). La garanzia principale è l'intero patrimonio del debitore, ma vi sono anche garanzie specifiche su una parte di esso: il pegno, l'ipoteca, ecc..

 

La conseguenza più importante per la decadenza del termine, in mancanza di adempimento immediato, è l'esecuzione forzata dei beni del debitore. Il computo del termine è stabilito dalle norme in materia di prescrizione, ed è lo stesso utilizzato per computare il trascorrere del tempo nel diritto, anche processuale. Il giorno di partenza non si conta. Il giorno di scadenza si calcola intero, cioè il termine scade a mezzanotte dell'ultimo giorno. Se la scadenza è in un giorno festivo, salvo usi locali, si protrae al successivo giorno feriale. Se l'unità di misura è il mese, il termine scade alla fine dello stesso giorno di partenza nel mese che risulta. L'altro elemento dell'esatto adempimento è il soggetto, sia quello che deve rendere la prestazione che quello che la deve ricevere.

Non sempre ad adempiere sarà necessariamente il debitore, ma può essere un terzo a rendere la prestazione, come nel caso del padre che paga il debito del figlio. Il codice prevede che l'adempimento sia reso da un terzo a condizione che il creditore non abbia un interesse particolare per richiedere la prestazione direttamente al debitore (es. un intervento chirurgico da parte di un famoso specialista) (11801). Il creditore può rifiutare la prestazione da un terzo se il debitore ha comunicato la sua contrarietà (11802). La scelta di accettare la prestazione spetta in ultimo al creditore, è la sua posizione a ricevere la maggior tutela. Il terzo che ha reso la prestazione può surrogarsi al creditore, subentrando in quella posizione, ed esigendo la prestazione a sua volta dal debitore.

 

Di regola la prestazione va resa al creditore, oppure al suo rappresentante o comunque legittimata a ricevere, ma se avviene ad altra persona e il creditore ratifica l'adempimento, il debitore si libera dal vincolo (1188). Se mancano le circostanze della ratifica o dell'approfittamento del creditore, il debitore non è liberato dall'obbligazione. Esiste differenza tra la capacità del debitore e quella del creditore. Perché l'obbligazione possa estinguersi per adempimento, è richiesta la capacità del solo creditore (1190); il debitore, anche se incapace, non può ripetere l'adempimento vantando la sua incapacità (1191). Il creditore non può liberarsi dell'obbligazione con l'adempimento al creditore, se questo è incapace di intendere e di volere in quel momento, a meno che non dimostri che la prestazione è andata comunque a vantaggio del creditore (ed esempio se si rende al minore d'età). La capacità di agire del debitore è rilevante al momento del sorgere dell'obbligazione. Qui, il codice, per capacità intende quella naturale di intendere e di volere, diversa dalla capacità legale, richiesta per i contratti e i matrimoni, che si consegue con la maggiore età (2). L'adempimento a persona apparentemente legittimata libera il debitore in buona fede, ed impegna chi ha ricevuto la prestazione a renderla al titolare del credito (1189)(2033). Ad esempio tizio che afferma di essere rappresentante del creditore, vanta al debitore una procura (che deve avere la stessa forma dell'obbligazione, quindi può essere anche orale), e riceve da lui la prestazione. La procura, anche se scritta, può essere stata revocata; in entrambi i casi il falso rappresentante assume l'obbligazione verso il creditore, liberando il debitore iniziale.

 

9 - ALTRI MODI DI ESTINZIONE

 

Oltre all'adempimento e all'impossibilità sopravvenuta, ci sono altri modi di estinzione dell'obbligazione. Si è detto che l'adempimento deve essere esattamente eseguito, e si sono anche visti gli elementi che influiscono sull'esattezza della prestazione. Si è anche evidenziato il criterio di collaborazione tra creditore e debitore basato sulla correttezza e buona fede. Spesso si richiede la collaborazione del creditore, ad esempio quando si deve consegnare qualcosa, questi deve aprire i locali per ricevere la consegna. Se il creditore non pone in condizioni di poter eseguire la prestazione possono intervenire complicazioni del rapporto, con maggiori oneri per il debitore, o addirittura danni. Se le cause dell'inadempimento si riconducono all'atteggiamento scorretto del creditore, il debitore può considerarsi liberato.

 

Mora del creditore.

È parificata all'esatta prestazione l'offerta formale, oppure quando è impossibile per cause del creditore (se rifiuta illegittimamente) (1206). Il debitore non sarà inadempiente e non potrà essere costituito in mora, neanche per ritardo dell'inadempimento. Però, perché si verifichino gli effetti sul creditore che non collabora, lo si deve costituire in mora in modo formale, cioè rispondente a determinati requisiti (1208): se in denaro (o in beni fungibili) con offerta reale; altrimenti per mezzo di notifica (intimazione a ricevere) fatta da un ufficiale pubblico. Gli effetti riguardano l'interruzione degli interessi verso il debitore, le spese di conservazione o deposito della cosa, nonché il risarcimento del danno (1207). In ogni caso gli effetti si verificano dal giorno dell'offerta se convalidata da sentenza passata in giudicato, oppure accettata dal creditore. Il debitore, per impossibilità sopravvenuta, della prestazione si libera, mantenendo ogni diritto alla controprestazione eventuale. Il giudice, chiamato a convalidare l'offerta, accerterà che questa sia legittima, e poi che risponda ai requisiti di formalità. L'offerta reale, di per se', non libera il debitore, ma è tesa ad ottenere la costituzione in mora del creditore, e a far ricadere su di lui gli effetti. Siamo in presenza di ritardo, ma l'adempimento è ancora possibile. Infatti, il debitore che abbia costituito in mora il creditore, per liberarsi deve attuare l'azione di deposito (della merce o del denaro). L'offerta reale è riferita a denaro, titoli di credito o beni mobili, e si svolge presso il domicilio del creditore. Le cose mobili che si è stabilito di consegnare in altro luogo sono proposte con offerta per intimazione a ricevere, esperita dall'ufficiale giudiziario, nelle forme previste per l'atto di citazione. Se è una prestazione di fare, il creditore deve predisporre le condizioni necessarie per ricevere l'adempimento. Se la prestazione è la consegna di un bene immobile, oggetto dell'intimazione sarà la presa di possesso dell'immobile (1216). In ogni caso l'impossibilità di adempiere deve essere verbalizzata da un pubblico ufficiale autorizzato (un notaio ad esempio, non un poliziotto)(1212).

Per evitare che l'obbligazione resti in piedi a lungo, il debitore può ricorrere al deposito, che deve essere approvato dal giudice o dal creditore stesso (1210). Ciò estingue l'obbligazione, con spese a carico del creditore. È comunque un procedimento che spetta solo al debitore, è un suo diritto potestativo. Per l'immobile è previsto l'intervento di un sequestratario.

 

Mora del debitore.

L'inadempimento del debitore avviene quando è scaduto il termine per la prestazione, o quando abbia adempiuto solo in parte o in modo non esatto. Il ritardo è inadempimento. L'inadempimento non è più ritardo quando la prestazione è diventata impossibile o inopportuna (quando la prestazione è connessa a particolari circostanze, verificatesi le quali non ha più ragione d'essere). Dal momento in cui l'adempimento può avvenire, partono i termini di prescrizione, che devono essere interrotti dal creditore con un atto di costituzione in mora (ritardo qualificato). Perché dal ritardo si passi alla mora è necessario un comportamento formale, oppure che il ritardo si qualifichi secondo quanto stabilito dall'ordinamento. Quindi per costituire in mora il debitore occorre un atto formale (ex personam), oppure, in taluni casi previsti dalla legge, avviene automaticamente (ex re), (quelle da fatto illecito, quelle per le quali esiste una dichiarazione scritta del debitore di non volere adempiere, quando è scaduto il termine e la prestazione andava pagata al domicilio del creditore). Gli effetti della mora del debitore, conseguenza del ritardo, sono: il risarcimento del danno (quello prevedibile al momento in cui sorse l'obbligazione), gli interessi moratori (al tasso che venne stabilito o a quello legale) (i moratori sono diversi da quelli compensativi del mutuo). Le conseguenze del perimento, ed il relativo risarcimento, ricadono sul debitore, anche se non dipendente da sua colpa. Quando la prestazione è nel non fare, il fare è inadempimento, e non è pensabile un ritardo nell'adempimento o una prestazione di mora; sarà inadempimento definitivo (1222).

 

 

Tutela.

 

Ci sono due tipi di tutela: reale e risarcitoria.

Reale: la possibilità di ottenere comunque la prestazione anche in modo coatto.

Risarcitoria: quando invece della prestazione si vuole ottenere il risarcimento del danno derivante dal mancato adempimento.

Esistono comunque dei casi in cui il debitore è liberato dall'impossibilità sopravvenuta.

1.      elemento oggettivo

2.      impossibilità di attribuire ad un elemento imprevedibile (caso fortuito)di inevitabile forza maggiore.

a)     è una causa tale da rendere impossibile l'esecuzione della prestazione da parte di chiunque, non solo nel singolo debitore;

b)     la causa non è imputabile al debitore: caso fortuito, es. interruzione improvvisa dell'energia elettrica; forza maggiore può essere invece determinata da elementi naturali: es. per causa altrui, a causa di un ordine dell'autorità.

Se la responsabilità è imputabile al debitore dovrà risarcire il danno.

L'art. 2930 del codice civile, se non è adempiuto l'obbligo di consegnare un a cosa che si è deteriorata, mobile o immobile, l'avente diritto può ottenere la consegna o il rilascio forzato a norma delle disposizioni del codice di procedura civile.

Se nemmeno una di queste forme è possibile, si deve far ricorso alla tutela risarcitoria.

Sono dei casi di tutela forzata:

a.     per consegna o rilasci: se è scaduto un contratto di locazione e il locale non viene lasciato libero; il locatore può chiedere l'esecuzione forzata, tramite titolo esecutivo, avendo un procedimento di sfratto;

b.     esecuzione degli obblighi di fare in forma specifica: il creditore può ottenere che quell'opera sia realizzata da un terzo, ma a spese del debitore;
c.     esecuzione dell'obbligo di concludere un contratto: si può chiedere l'esecuzione dell'obbligo trasgredito e distruggere ciò che è stato costruito a spese del debitore, ovviamente ci deve essere il consenso del giudice; l'autotutela è ammessa solamente se concessa dall'ordinamento.

I criteri per i risarcimenti del danno sono menzionati dall'articolo 1218 (responsabilità del debitore), e 1223:"il risarcimento del danno per l'inadempimento o per il ritardo deve comprendere la perdita subita dal creditore e il mancato guadagno che siano conseguenza immediata e diretta".

Es: ho consegnato ad un soggetto delle forme di formaggio perché me le custodisse e poterne ottenere la stagionatura; a causa del comportamento del debitore si ha un deterioramento del formaggio; il proprietario subirà una perdita, ma anche un mancato guadagno per non aver potuto vendere la merce.

Il codice detta anche i casi dell'inadempimento da parte dei soggetti ausiliari del debitore, che in ogni caso è tenuto al risarcimento per dolo o colpa di quelli.

A garanzia del rapporto obbligatorio sono previste diverse tutele per la conservazione del patrimonio del creditore.

Art. 2740 c.c. "il debitore risponde dell'inadempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri". E' una garanzia per il creditore che produce maggiori effetti quando l'obbligazione non è stata adempiuta, ma prevede anche alcuni strumenti cautelari che può esperire nei confronti del debitore.

Art. 2900 c.c. condizioni, modalità ed effetti per conservare la garanzia patrimoniale. Se si è verificato l'inadempimento, l'intero patrimonio del debitore costituisce garanzia. Se ci sono più debitori che hanno iniziato l'esecuzione forzata e il patrimonio non è sufficiente, ognuno ne può ottenere una parte in proporzione all'ammontare del credito.

Ci sono però alcuni creditori particolari, così detti chirografari.

Legittime prelazioni:

           privilegio;

           pegno;

           ipoteca.

 

In alcuni casi non ha carattere reale, cioè non segue il bene che viene trasferito.

Il privilegio trova fondamento nella causa del creditore ed è previsto dalla legge.

Art. 2745 c.c. " Il privilegio è accordato dalla legge in considerazione della causa del creditore. La costituzione del privilegio può tuttavia dalla legge essere subordina alla convezione delle parti, può anche essere subordinata a particolari forme di pubblicità".

 

Distinzione tra privilegi:


           privilegi generali: gravanti su tutti i beni mobili del debitore, non sono reali perché si tratta della totalità dei beni;

           privilegi speciali: gravanti su determinati beni mobili e immobili, ha carattere reale.

Ne esistono alcuni convenzionali, che nascono per accordo delle parti; es.: privilegio speciale a favore dell'albergatore sui beni mobili situati nell'albergo . Art.2760 c.c.

 

 

 

1 - IL CONTRATTO

 

Il contratto è un istituto rilevante che trova il suo ambito di applicazione principale nel diritto privato, ma che è applicabile anche in altre materie.

Il contratto è una delle fonti di obbligazione.

L’art. 1321 c.c. dice che il contratto è quell’accordo tra le parti …

È una fonte di obbligazione dal quale possono derivare sia effetti obbligatori che effetti reali con effetto circolatorio dei beni.

La permuta, ad esempio è un contratto di scambio di diritti reali. Da contratto può nascere un diritto di usufrutto, ma anche una servitù.

Anche quando il contratto ha effetti reali esso ha comunque sempre carattere obbligatorio.

Il contratto è lo strumento più diffuso per esplicare il principio ed il potere dell’autonomia privata.

Riconoscimenti dell’autonomia privata si trovano già nella costituzione, contenuti nel principio di iniziativa economica, art. 42.

 

 

2 - AUTONOMIA PRIVATA

 

La categoria negoziale privata è la più ampia espressione di autonomia contrattuale.

Tutte queste regole trovano anche accesso nel diritto pubblico, dal momento che anche gli enti pubblici possono agire con strumenti di diritto privato. Questi, pertanto, sono considerati strumenti di diritto comune.

Il principio di autonomia privata esprime il potere che l’ordinamento riconosce ai privati di autoregolare i propri interessi.

Le regole possono essere emanate da un soggetto diverso da quello interessato, ed allora saranno dette eteronome, come ad esempio quelle del codice sul diritto di famiglia, emanate dallo Stato per curare gli interessi delle persone.

Anche un giudice, con una sentenza, può intervenire a regolare i rapporti di altre persone.

L’autonomia privata si classifica in contrattuale e negoziale. Queste due classificazioni sono legate fra loro nel senso che l’autonomia contrattuale è una specificazione dell’autonomia negoziale.

Nel codice civile, l’espressione “autonomia negoziale” non c’è, è un’elaborazione dottrinale, mentre è citata l’autonomia privata, come espressione di libertà del matrimonio, o del testamento, ecc.

L’autonomia negoziale è il termine in cui la dottrina racchiude tutte le autonomie private che il codice attribuisce ai soggetti in vari istituti. Essendo la dottrina soggetta alle correnti di pensiero, non tutti ammettono l’esistenza della categoria generale dei negozi giuridici.

Il principio dell’autonomia privata va ricondotto allo strumento del contratto, il quale può essere plurilaterale ed avere anche carattere patrimoniale.

Ad esempio, il contratto di società è plurilaterale (anche se oggi esiste anche la società unipersonale, che è però una contraddizione in soli termini).

Il testamento invece, che contratto non è, è un atto unilaterale e può avere natura patrimoniale o meno.

In definitiva si può parlare di autonomia privata generale, di autonomia contrattuale e di autonomia negoziale.

L’art. 1322 dice che le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto, nel rispetto dell’ordinamento.

Il contratto ha forza di legge tra le parti; questa è la tutela dell’autonomia privata.

Le parti sono libere di scegliere il contratto più idoneo tra quelli tipici (o nominati), ma anche formulare un contratto atipico (innominati) che sono pur sempre genericamente dalla legge. I contratti non specificamente previsti dalla legge devono, però, perseguire fini meritevoli di tutela (13222) da parte dell’ordinamento.

Il contratto di leasing, ad esempio, o quello di locazione finanziaria, sono contratti atipici, cioè non sono regolati dalla legge, ma trovano ugualmente accoglimento perché assolvono a fini utili che non contrastano con l’ordinamento.

Il leasing finanziario è una forma alternativa di finanziamento che ha, in certi casi, superato le potenzialità del contratto di mutuo. Nonostante oggi il leasing sia contemplato da certe norme, in materia fiscale o di incentivazione varia, non è mai stato disciplinato come istituto, che lo definisca come funzione e struttura.

Ogni contratto ha una propria causa e una propria funzione che lo distingue dagli altri contratti.

È proprio la causa che permette la distinzione di n contratto atipico da un altro; in base alla causa si può stabilire se quel contratto persegue fini meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento.

Le prime sentenze sul contratto di leasing lo considerarono nullo perché non ne fu ravvisata la causa.

L’autonomia privata trova esplicazione già nella decisione e determinazione a fare un contratto, con la libertà di applicare il tipo più idoneo ai propri fini.

Alla stipula del contratto serve, poi, il consenso, oppure la convergenza degli interessi, come nel caso del contratto di società. I soggetti che pongono in essere un contratto cercano sempre di ottenere il soddisfacimento di un proprio interesse, che può essere comune ad altri nel caso della società.

Le parti possono anche scegliere le forme del contratto (libertà di forma del contratto: scritta, verbale, ecc.), fatte salve le norme che prevedono una particolare forma per certi tipi di contratto, come, ad esempio la forma scritta per la compravendita o per la traslazione di diritti reali. Ad esempi per le donazioni è previsto l’atto pubblico, alla presenza di due testimoni (atto pubblico solenne). A volte una norma può richiedere una forma specifica per garantirne la prova (ad probationem), come, ad esempio, nei contratti di assicurazione, per poter dirimere le controversie che potrebbero sorgere sull’applicazione delle clausole che il contratto contiene.

Un altro contratto che è previsto nella forma scritta è quello di transazione, col quale si previene o si risolve una lite in modo extragiudiziale.

Il principio generale è quello della libertà di forma, con specificazione di quei casi previsti dalla legge, nelle forme da essa stabilite.

È espressione dell’autonomia anche la libertà di scelta del contraente, anche se pure in questo caso ci sono limitazioni. Esistono casi in cui l’ordinamento non lo permette, ad esempio nel sistema delle locazioni urbane, o nella vendita di fondi agrari (prelazione del vicino coltivatore). Sono comunque regole definite da leggi speciali, ma pur sempre sulla scia di principi costituzionali.

A volte esistono imposizioni più forti, come l’obbligo a contrarre, ad esempio nei confronti di soggetti che operano in regime di monopolio. In questo caso non solo non si sceglie il contraente, ma si deve contrarre obbligatoriamente con chiunque lo chieda (2597).

Esistono poi delle limitazioni dettate dai criteri di protezione di determinate categorie di persone, o con riferimento alle modalità con cui certe attività economiche devono essere condotte.

L’art. 41 della costituzione è la norma destinata a impostare la regolazione dei rapporti economici non senza essere subordinati ad altri valori costituzionali.

A partire dagli anni 60, l’ordinamento, in applicazione della costituzione, ha emanato norme speciali che hanno limitato la libertà contrattuale, ad esempio del lavoro subordinato, per tutelare le categorie più deboli. Questo tipo di leggi sono prevalenti rispetto al codice civile che è comunque una legge pre costituzionale.

 

 

 

Il principio costituzionale della libertà contrattuale passa in secondo piano rispetto al principio di uguaglianza (art. 32 cost.), infatti, quando una delle parti si trova in stato di inferiorità, non avrebbe la reale possibilità di contrattare liberamente, quindi, in tal caso, la libertà agirebbe a favore esclusivo di una sola delle parti, la più forte.

La Corte costituzione stessa intervenne a richiedere un intervento del legislatore per riequilibrare rapporti tra contraenti di diverso peso specifico, e ciò avvenne puntualmente con leggi inderogabili, ad esempio nel settore dei contratti di lavoro subordinato.

Altri interventi si sono avuti nel settore delle locazioni di immobili urbani e per i contratti agrari.

Recentemente sono intervenute normative a tutela dei consumatori, con conseguente compressione dell’autonomia contrattuale, per riequilibrare la posizione di debolezza in cui viene a trovarsi il consumatore nei confronti di produttori e professionisti.

Quello di applicazione dell’articolo 3 della costituzione è un processo che è stato anche sollecitato dalle norme a favore del consumatore contenute nel trattato europeo, e dalle direttive comunitarie come quella sulla pubblicità ingannevole, o quella sulla tutela del consumatore per i contratti con i professionisti.

Ne sono un esempio le modifiche apportate al codice con l’inserimento dell’art. 1469 bis e seguenti in materia di rapporti tra consumatori e professionisti, secondo i quali le clausole vessatorie (che ledono una parte ingiustamente) sono considerate nulle, quindi disapplicabili nel contesto del contratto.

Altre limitazioni derivano dal cosiddetto ordine pubblico di struttura economica del Paese, che limitano la libertà contrattuale a riguardo della regolamentazione delle attività economiche.

Anche qui ci sono molte norme a riguardo, come quelle sulla libera concorrenza (contenute nel trattato U.E.) che vietano gli accordi tra imprese volti a falsare le condizioni di mercato e l’equilibrio della domanda e dell’offerta. La libera concorrenza va in favore del consumatore, ma anche dell’impresa.

Anche l’ordinamento italiano ha emanato al riguardo varie norme, a partire dalla L. 287/90 (libera concorrenza e istituzione del garante per l’editoria ed il mercato), che per la prima volta ha disciplinato la materia.

Ci sono poi delle norme che regolano la circolazione dei beni.

 

Nell’autonomia privata, e specialmente in quella contrattuale, accanto al potere di autoregolamentarsi che hanno i soggetti singolarmente rispetto ai rapporti, c’è anche l’autonomia privata collettiva, cioè il potere di autoregolamentarsi riconosciuto anche alle organizzazioni sociali, come i sindacati. In questo caso l’autonomia contrattuale è esercitata collettivamente dai soggetti rappresentativi, e va sotto il nome di autonomia collettiva.

Ultimamente ha trovato anche affermazione l’autonomia privata assistita, la quale richiede che il potere di autoregolamentazione sia valido solo se espletato in presenza dei rappresentanti di categoria. Oggi è presente solo in materia di contratti agrari di concessione.

In questa materia ci sono delle norme imperative ed inderogabili. L’istituto dell’autonomia contrattuale assistita bilancia le necessità sociali e quelle private. Qui il legislatore dà fiducia non al singolo, ma al suo rappresentante di settore il quale contratterà per suo conto.

L’autonomia assistita non è comunque da confondere con l’autonomia collettiva. La prima riconoscere un’autonomia ad assistere.

Art. 1321: definizione di contratto.

Art. 1322: libertà di scelta del contenuto e del tipo di contratto

Art. 1323: applicabilità sia ai contratti tipici che a quelli atipici delle norme per i contratti. Il contratto atipico deve essere conforme a quanto sancito dalle regole generali per i contratti, le quali trovano applicazione anche nei negozi unilaterali.

Art. 1324: le norme generali sui contratti si applicano anche agli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale. Le manifestazioni di volontà inter vivos dell’agente possono essere anche unilaterali; ne sono esempi: l’atto costitutivo di fondazione, la procura, la rinuncia al mandato, le promesse unilaterali (1987 e seguenti), ogni forma di rinuncia ad un diritto. Al testamento, che è un atto mortis causa, non sono applicabile queste norme, appunto perché non sono tra vivi.

Valgono, per quei casi, ad esempio, le norme sui vizi di volontà (che deve essere manifestata senza influenza di altri con dolo violenza; alcuni vizi possono portare all’annullamento, come l’errore, ma questo deve essere riconosciuto dall’altra parte come tale, quindi non è applicabile nei negozi unilaterali tra i vivi).

In definitiva, non tutti i negozi o contratti sono disciplinati dalle stesse regole, ma solo da quelle applicabili.

 

 

3 - CLASSIFICAZIONE DEI CONTRATTI

 

Contratti a titolo oneroso e a titolo gratuito. Quelli onerosi hanno il sacrificio di una parte con il corrispettivo di un’altra. A titolo gratuito non ci sono corrispettivi (es. donazione). Questa distinzione ha rilevanza nei riguardi della diversa valutazione della libertà contrattuale che fa l’ordinamento. In quelli gratuiti c’è meno vigore nella valutazione della responsabilità, mentre è più severa nei rapporti a corrispettivi patrimoniali. Ne è un esempio l’art. 1768, riguardo al deposito gratuito, in cui la responsabilità per il perimento della cosa è meno vigorosa di quella per un deposito a titolo oneroso.

 

 

Contratti unilaterali, bilaterali e plurilaterali.

 

Nei contratti unilaterali c’è la presenza di una sola prestazione. È il caso della donazione, o, per es., del deposito gratuito, o anche della fideiussione (garanzia personale) oppure il comodato. Nei contratti bilaterali ci sono invece due prestazioni, e in quelli plurilaterali ce ne sono di più, per i quali si dice che sono a struttura aperta.

 

 

Contratti consensuali e reali.

 

Ci sono contratti che si differenziano per il modo di perfezionarsi. La maggior parte dei contratti ha natura consensuale, cioè si perfezionano con la manifestazione del consenso. Ci sono poi i contratti reali, che invece, per essere perfezionati, necessitano del requisito della consegna della cosa oggetto del contratto. Il comodato, per esempio, è un contratto reale, perché prevede la consegna di una cosa che il comodante concede al comodatario per farne un uso consono alla sua destinazione a condizione che si assuma le spese di esercizio e manutenzione. Lo sono anche il mutuo e il pegno.

 

Contratti sinallagmatici e non.

 

Sinallagmatici sono quelli in cui ad una prestazione deve corrispondere una contro prestazione, le quali sono tra loro vincolate. Tale vincolo sinallagmatico esiste sia al momento della stipulazione (sinallagma genetico) che durante la sua esecuzione (sinallagma funzionale). Quando sorge il contratto, il vincolo sinallagmatico fa sì che, se la prestazione non avviene, venga meno anche la contro prestazione (es. la compravendita). L’art. 1460, per i casi di scioglimento del contratto, menziona anche il vincolo sinallagmatico. Tra i casi di scioglimento c’è anche la risoluzione. Un’altra ipotesi di risoluzione del contratto, oltre a quella per inadempimento, c’è quella per impossibilità di adempimento della prestazione.

 

 

Contratti associativi e di scambio.

 

Altra classificazione di contratti è tra contratti associativi e di scambio. Quelli associativi non hanno interessi contrapposti, anzi hanno lo stesso scopo. Quelli di scambio hanno invece rispettivamente interessi contrapposti, ad esempio in una compravendita, uno di acquistare e l’altro di vendere, cioè il primo vuole la disponibilità di un bene e l’altro vuole realizzare il migliore corrispettivo possibile.

 

Contratti commutativi e aleatori.

 

I contratti commutativi le prestazioni sono certe al momento della formazione del contratto, mentre in quelli aleatori almeno una prestazione non è certa, nel senso che è soggetta a determinati rischi o possibilità di realizzarsi o meno (es. contratto di assicurazione, oppure un contratto che preveda una rendita vitalizia, come una pensione integrativa). Il rischio che una prestazione diventi impossibile dopo la stipulazione del contratto esiste anche nei contratti commutativi, ma in quelli aleatori è palese nel contratto stesso l’assunzione di un rischio particolarmente verificabile.

 

 

4 - REQUISITI DEL CONTRATTO

 

L’art. 1321 si occupa della definizione del contratto come accordo tra due o più parti per estinguere, costituire o modificare un rapporto patrimoniale. Il titolo seguente del codice si occupa dei requisiti del contratto, cioè degli elementi che devono essere presenti perché lo si possa dire perfetto, che non sono altro che gli elementi del negozio giuridico in generale. Ci sono elementi comuni a tutti i negozi, quindi anche ai contratti, e che hanno natura essenziale, ai quali si aggiungono di volta in volta requisiti particolari che permettono la distinzione tra le varie forme di negozio.

 

L’art. 1323 elenca i requisiti:

 

-            l’accordo (volontà) delle parti;

-            la causa del contratto;

-           l’oggetto;

-            la forma (se richiesta dalla legge).

 

 

Accordo delle parti.

 

Per il contratto l’accordo corrisponde alla volontà delle parti (inteso anche per i contratti unilaterali, con la specificazione che la donazione, per esempio, richiede la volontà del donante, ma anche la volontà del beneficiario di accettare, anche se la relativa dichiarazione viene considerato un atto distinto dalla donazione in se’). Il codice parla di accordo tra le parti, intendendo per parti anche una pluralità di soggetti. La parte fa riferimento più all’interesse, cioè alla posizione del soggetto, che al soggetto stesso. La volontà, è uno degli elementi essenziali degli atti o negozi giuridici in generale. La volontà deve essere, però, manifestata all’eterno della persona per poter essere presa in considerazione; deve essere riconoscibile dai terzi. La manifestazione può comunque essere espressa, o tacita; recettizia o irrecettizia. Può essere espressa con segni comunicativi (parole verbali o scritte, cenni o gesti fatti ad esempio alle aste, ecc.). È tacita se non vengono fatti segni comunicativi, ma si assume un atteggiamento tale da trasmettere comunque all’esterno una significativa manifestazione di pensiero. È cosa diversa il silenzio. Tacere senza dare nemmeno l’impressione di avere assunto una decisione mediante un comportamento concludente, può avere effetti solo se è espressamente previsto, come nel caso della clausola del “silenzio assenso” o “silenzio rigetto”. La manifestazione tacita della volontà essere configurata come un comportamento concludente chiaramente ed inequivocabilmente manifestativa di una volontà precisa, non compatibile con una volontà diversa nel contenuto. Ad esempio, se un creditore restituisce il documento titolo del debito, è chiara la volontà di porre in atto una remissione del debito, oppure, quando il chiamato a succede paga con i propri beni i debiti del defunto, appare chiara la volontà di accettare l’eredità.

 

 

Differenze tra dichiarazioni di volontà recettizie e non recettizie.

 

Sono recettizie le manifestazioni di volontà che producono subito degli effetti. Nei contratti le dichiarazioni devono essere necessariamente recettizie. Per latri negozi possono anche essere non recettizie, come può essere l’accettazione dell’eredità. Se la volontà delle parti pone in essere un rapporto a contenuto patrimoniale, si è in presenza di un contratto, altrimenti (es. matrimonio) sarà un altro genere di negozio giuridico. Il matrimonio, infatti, è un accordo diretto a realizzare la convivenza e l’assistenza reciproca, quindi secondo il codice non può essere un contratto, perché la causa del matrimonio non è certo di natura patrimoniale, anche se vi sono inclusi aspetti patrimoniali di secondo piano, sui quali peraltro i coniugi devono esprimere un consenso al regime patrimoniale in cui vogliono contrarre matrimonio, in comunione o in separazione dei beni. Quando si fa riferimento al contratto, ci si può riferire sia all’atto che al rapporto.

 

 

La causa.

 

La causa di un negozio, ed in particolare di un contratto, è la funzione o l’obbiettivo (in astratto) che persegue. È la ragione economico - sociale cui mira. Il motivo, cioè l’obbiettivo concreto che si propone la parte, non ha rilevanza giuridica. Se manca la causa c’è nullità (o inesistenza) dell’atto, in quanto è elemento essenziale, senza il quale il contratto o negozio non può dirsi neanche esistente. È nullo anche il contratto fondato su una causa illecita. La causa deve essere meritevole di tutela, oltre che lecita, cioè non contraria a norme imperative dello Stato o all’ordine pubblico ed il buon costume. (1343) una causa illecita potrebbe essere quella del contratto col quale un soggetto si impegna a pagare una somma ad un pubblico ufficiale. Parificata alla causa illecita è la causa del negozio in frode alla legge (1344). In questo caso il contratto è conforme alla legge, ma con questo le parti si propongono di ottenere un risultato che non è consentito dalla legge, mediante un raggiro. Ad esempio con riferimento ad un contratto in cui una delle parti è più debole. Ad esempio la vendita con contratto regolare di un fondo a Tizio e non a Caio, che è confinante e coltivatore diretto, il quale ha diritto di prelazione. Per i contratti tipici andrà verificata la corrispondenza della causa a quella stabilita dalla legge per quel contratto tipico. Sulla causa si fonda la distinzione tra i vari contratti (compravendita da locazione). Nel contratto unilaterale della donazione, per esempio, la causa è l’arricchimento di una parte senza vantaggio per l’altra. L’importante quindi è andare a vedere se ciò che le parti hanno posto in essere è ciò che l’ordinamento riconosce come causa per quel tipo di contratto. Per esempio se ci fosse una rendita senza corrispettivo, non sarebbe un contratto di compravendita perché mancherebbe la causa di quel contratto, che notoriamente è la consegna di una cosa contro il prezzo.

 

L'oggetto.

 

L'oggetto è un requisito essenziale del contratto, e consiste o nel diritto o nella cosa che è, appunto, oggetto della prestazione.

 

L'oggetto è libero, ma dev'essere:

 

           possibile;

           determinato o determinabile;

           lecito.

 

Possibile, perché, ad esempio, non si può, appunto, vendere la luna, perché il trasferimento non potrà mai avvenire; quindi non si concepisce un contratto in cui il fine, a priori, si sa che non sarà raggiunto. L'impossibilità può essere di fatto, come nel caso della vendita della luna, oppure di diritto, ad esempio, non si può vendere un bene demaniale, in quanto è un bene indisponibile (extra commercium) per definizione. Lecito, ossia non contrario a norme imperative, all'ordine pubblico o al buon costume. Determinato o determinabile, perché il contratto necessita di certezze, onde evitare errori nella formazione della volontà. Questo significa che, per esempio, in una compravendita il bene deve essere indicato con certezza, nel senso che non posso vendere un mio fondo, ma il fondo "corneliano". L'oggetto può essere determinato anche da un terzo (1349), oppure cosa futura (1348), cioè che deve ancora venire ad esistenza, salvi i limiti di legge (es. è nulla la donazione di cosa futura - 771).

 

La forma.

 

Un altro elemento essenziale del contratto è la forma. Secondo il principio dell'autonomia contrattuale, la forma è libera salvo i casi stabiliti dalla legge. Quando la legge richiede una determinata forma per un contratto, bisogna capire a che titolo, se ad substantiam, cioè quando è richiesta a pena di nullità, o se è richiesta ad probationem, cioè quando è richiesta per poter tutelare le parti vicendevolmente in un'eventuale controversia sui termini e le clausole del contratto. La forma richiesta può anche essere di atto pubblico (2699) (o atto solenne), per richiamare l'attenzione degli stipulanti sull'importanza dell'atto che stanno per concludere. L'articolo 1350 elenca i casi in cui la forma scritta o dell'atto pubblico è richiesta a pena di nullità.

L'atto pubblico, cioè quella scrittura fatta innanzi ad un notaio o altro pubblico ufficiale (L. 15/68) con o senza i due testimoni (es. non sono richiesti nella costituzione di società per la quale è richiesta la forma pubblica solo se ci sono conferimenti di immobili). Altri casi sono introdotti da leggi speciali, come quelle per la tutela dei consumatori. Spesso le parti scelgono una forma specifica di loro iniziativa, ma solo ad probationem. Attualmente, il problema dei contratti telematici, o a distanza, è stato appena disciplinato dal d. lgs. 185/99. Ma il problema della firma digitale, prevista dal D.P.R. 513/97, un regolamento governativo delegato con la L. 59/97 (Bassanini1), è che non è stato ancora attuato nella pratica. Quando sarà operativa, la firma digitale permetterà di contrarre via computer, ma si porrà il quesito della validità di quegli atti per i quali è prevista la forma scritta. In generale, la firma deve essere autografa, salvo rare eccezioni di legge, tra cui appunto la firma digitale.

 

Il consenso si intende realizzato (1396) quando vengono a incontrarsi le volontà delle parti. Nella maggior parte dei casi, la fase della conclusione è quella preceduta dalle trattative. Soltanto quando proposta e accettazione si incontrano il contratto può dirsi concluso. Proposta e accettazione possono essere parti di un unico contesto (conclusione simultanea del contratto), oppure in fasi successive. per il codice si ritiene validamente concluso il contratto nel momento in cui l'accettazione (nei termini della proposta) giunge al proponente (1335). L'indirizzo del destinatario può non coincidere ne' con il domicilio, ne' con la dimora e ne' con la residenza, ma potrebbe essere, in astratto, un luogo definito dalle parti. Ciò si deduce, come presunzione relativa, dalla possibilità lasciata al ricevente di eludere la dichiarazione di volontà ricevuta, se dimostra di non poter essere stato a conoscenza della stessa. Proposta e accettazione possono comunque anche essere revocate, fino al momento in cui l'altra parte non ritiene ormai concluso il contratto: per l'accettazione, prima che si sia data esecuzione al contratto da parte dell'accettante; per la proposta (ancorché questa preveda prestazioni a carico solo del proponente, per cui non è più revocabile dal momento in cui è giunta al destinatario - 1333), la revoca può avere effetto solo se giunge prima della proposta (1328). Il proponente può dare esecuzione prima dell'accettazione, ma deve darne previa comunicazione, pena il risarcimento dei danni (1327) (esecuzione tacita). Quando il proponente ha stabilito un periodo di validità dell'offerta (1329), la revoca non è efficace in quel lasso di tempo. L'accettazione che giungesse dopo quel termine non è efficace, salva la ratifica del proponente inviata per iscritto. Un'applicazione della proposta irrevocabile (1329) è l'opzione (1331), la quale consiste nell'obbligo del proponente di mantenere ferma l'offerta, mentre l'altra parte è libera di accettare o meno, nell'ambito di un termine. In questo caso, infatti, la proposta si considera irrevocabile, ma si differenzia dalla fattispecie della proposta irrevocabile, perché nell'opzione ha natura contrattuale; peraltro, in quanto diritto di natura contrattuale, l'opzione può essere ceduta, mentre la proposta che sia irrevocabile non può essere lasciata a terzi se non è appunto previsto dal proponente (1332). La proposta può essere aperta all'adesione di altri, o anche aperta a tutti (offerta al pubblico - 1336). L'offerta è considerata valida come proposta se comprende tutti gli elementi necessari a formare il corrispondente contratto. Le offerte al pubblico sono, ad esempio, le vetrine di un negozio che espongono della merce ed i relativi prezzi, in mancanza dei quali si ritiene essere un invito a proporre. Chi fa l'invito a proporre si riserva di scegliere il tipo di cliente, come, ad esempio, il ristorante, che può rifiutarsi di servire il cliente che vuole consumare solo alcolici, senza ordinare il pasto; in realtà , il menù del ristorante, malgrado riporti i prezzi dei piatti e dei vini, è solo un invito a proporre. Nella fase precedente la conclusione del contratto avvengono le trattative, nelle quali le parti devono tenere un comportamento di buona fede (1137). Questa responsabilità precontrattuale si riferisce principalmente al fatto che non si possono interrompere le trattative senza un plausibile motivo, senza rispondere dei danni eventualmente arrecati, c.d. danni negativi, di natura extra contrattuale, in quanto appunto, precedono il contratto.

 

Spessissimo la conclusione del contratto è preceduta dalle trattative. Anche in questa fase ci può essere responsabilità, derivante dall'obbligo delle parti di comportarsi in buona fede. Si parla in questo caso di responsabilità pre contrattuale o extra contrattuale. Esistono alcuni contratti, detti standardizzati, in cui non esiste la fase delle trattative, dato che l'offerta è fissa. Lo sono ad esempio i contratti di massa di fornitura di beni e servizi, che talvolta si concludono quasi inconsapevolmente, come quando si acquista un biglietto della metro o del bus (contratti di trasporto), ma che possono essere anche scritti, come quello della fornitura di acqua, gas, ecc., ma anche contratti come quelli turistici, d'assicurazione, bancari, ecc.. Le clausole dei contratti standardizzati sono già definite dal proponente e non sono oggetto di trattativa, per motivi di equità tra i diversi utenti (la parte accettante di un'offerta al pubblico di un servizio pubblico, anche se reso da privati, dato a tutti alle stesse condizioni, è un particolare tipo di contraente).

Le clausole del contratto hanno valore con la parte accettante se questa ne era a conoscenza al momento della sottoscrizione o se ne sarebbe stato a conoscenza se avesse usato l'ordinaria diligenza. Le clausole vessatorie, cioè quelle poste dal proponente a suo vantaggio, senza una contropartita, sono valide solo se specificamente accettate per iscritto (1341). Se il sottoscrittore aggiunge clausole scritte a mano su un modulo predisposto dall'offerente, e queste sono in contrasto con quelle stampate, le prime prevalgono sulle seconde (1342). Si pensi ad una fideiussione bancaria in cui sia precisato che il fideiussore è solidale, ma prima della firma, a mano, il sottoscrittore inserisce una clausola di beneficio di escussione a suo favore, la banca non potrà rivalersi sul fideiussore finchè non avrà prima agito nei confronti del debitore originario. Esistono alcune leggi speciali che riservano una tutela particolare ai consumatori, sulla scia delle direttive comunitarie(direttiva 97/7/CE) e sul trattato istitutivo della comunità europea (art. 153), e sono:

          d. lgs. 185/1999 - Contratti a distanza;

           legge 281/1998 - Disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti;

           legge 52/1996, art. 25 - Attuazione della direttiva 93/13/CEE del Consiglio concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori (inserimento degli art. 1469 bis e ss. nel codice);

           d. lgs. 11/1995 - Attuazione della direttiva n. 90/314/CEE concernente i viaggi, le vacanze ed i circuiti «tutto compreso»;

           altri.

 

La disciplina introdotta nel codice dalla legge 52/96 per la tutela del consumatore dal professionista (dove per professionista si intende un'azienda pubblica o privata o un libero imprenditore) è di tipo generale, ma è speciale nei confronti degli rt. 1341 e 1342 che si applicano a tutti i contratti standardizzati e ai rapporti tra professionisti e professionisti, e che trattano la stessa materia in termini più generali e meno tutelativi della posizione dell'accettante; il consumatore o utente è infatti un accettante particolare, cioè non utilizza il contratto per fini lucrativi professionali. Negli art. 1341 e 1342 si tratta di contratti, come già detto, predisposti unilateralmente dalle aziende e destinati agli utenti. Sarebbe impensabile che un'azienda di fornitura dell'acqua, ed esempio, si mettesse a trattare con ogni utente, oltre all'esigenza di mantenere condizioni contrattuali uguali per tutti. Gli articoli dal 1469 bis al 1469 sexies trattano le clausole vessatorie, il loro accertamento e la loro eventuale inefficacia, ed infine, l'azione inibitoria esperibile dall'associazione consumatori con ricorso al giudice, che mira ad eliminare dal contratto tipo utilizzato dall'azienda fornitrice del servizio una clausola ingiusta. In ogni caso, se una clausola è di dubbia interpretazione, si intende contraria agli interessi di chi l'ha formulata (1370). Questa disciplina tende a riequilibrare le posizioni di proponente e accettante, laddove il primo gode del vantaggio di poter influenzare il mercato e fare offerte a condizioni inique.

 

Questi sono comunque tutti contratti consensuali.

 

Nel contratto di trasporto aereo le clausole vessatorie sono inserite nel biglietto, ma ciò rappresenta un'anomalia, in quanto, come si sa (13412), queste vanno sottoscritte specificamente. Nei formulari che elencano le clausole, quelle vessatorie vanno riepilogate alla fine e sottoscritte in calce. Questo della firma è un sistema di controllo solo formale delle clausole vessatorie, mentre le norme comunitarie hanno introdotto un controllo anche sostanziale con l'elencazione di casi concreti e la definizione di criteri di valutazione ed interpretazione delle clausole.

 

Le clausole vessatorie, quando non sono efficaci (perché poste senza tenere conto dei limiti imposti dalla legge), non fanno cadere l'intero contratto, ma solo restano inefficaci quelle. Possono essere dichiarate inefficaci d'ufficio da parte del giudice (mentre di norma le clausole di un contratto vanno fatte valere su istanza di parte). Esiste una distinzione tra clausole vessatorie sospette, quelle cioè che si presumono tali fino a prova contraria, e clausole assolutamente vessatorie, anche se volute da entrambe le parti.

 

 

Efficacia del contratto.

 

Nei contratti consensuali, quando si è verificato il consenso, il contratto non può più essere sciolto. Il contratto ha forza di legge tra le parti e non può essere sciolto se non per mutuo consenso di chi l'ha stipulato (1372), salvi i casi previsti dalla legge, ovverosia, ad esempio, quando ciò sia contenuto di una clausola a favore di una delle parti (1373 - recesso unilaterale), oppure per rescissione per inadempimento (1453). Il contratto può essere sciolto se ne viene chiesto l'annullamento.

 

Riassumendo, il contratto può essere sciolto:

           con un altro accordo in tal senso;

           con recesso unilaterale se previsto dal contratto;

           con rescissione o annullamento se ne ricorrono i casi stabiliti dalla legge.

 

Il contratto concluso vincola le parti alle clausole d'uso e a quelle imposte dalle norme imperative. È questa la c.d. funzione integrativa operata dal codice nei riguardi del contratto. Le clausole d'uso sono inserite d'autorità nel contratto e prevalgono su quelle poste dalle parti che fossero eventualmente difformi (1339). Sono tutte dettate a tutela della parte più debole, la quale potrebbe essere disposta ad accettare condizioni inique che l'ordinamento, e il principio di uguaglianza, condannano. Ad esempio la disciplina degli affitti di immobili urbani tutela gli inquilini, essendo questa una categoria che si trova a dover soddisfare un bisogno fondamentale, per cui a volte è disposta ad accettare condizioni inique pur di procurarsi un alloggio. Il contratto include anche le clausole d'uso, a meno che non siano state volutamente ed espressamente escluse dai contraenti (1374).

 

 

Il recesso.

 

È la facoltà, potestativa, di una delle parti, o anche di entrambe, di sciogliere il contratto, ed è legittimata dalla legge in taluni casi, oppure risulta dallo stesso contratto. Il recesso è previsto per alcuni contratti tipici, mentre alcuni tipi di contratto l'escludono. L'art. 1373 detta la regola generale del recesso, ma ci sono alcune specializzazioni. Ad esempio in tema di contratto di lavoro subordinato, il recesso è previsto per entrambe le parti, ma è più a favore del lavoratore, ed ha una maggiore onerosità per il datore. Quest'ultimo, infatti, può recedere (licenziare) solo motivatamente, e con giusta causa (non una motivazione qualsiasi). Il lavoratore, invece, può recedere (dimettersi) a sua discrezione. Analogo tenore si ha per i contratti agrari, e anche nelle locazioni in generale, in cui le parti non godono di pari condizioni. Il recesso è consensuale quando sono le parti a prevederlo, salvo l'eventuale divieto da parte dell'ordinamento.

 

La penale.

 

Le parti possono definire anche una eventuale caparra convenzionale, che costituisce il corrispettivo per poter usufruire della clausola di scioglimento del contratto, la c.d. caparra penitenziale, o più semplicemente possono prevedere una clausola penale (1382) da versare invece della prestazione, una sorta di liquidazione (determinazione in denaro) anticipata del danno.

 

Quando la clausola penale non è prevista, il creditore può chiedere il risarcimento del danno da inadempimento, provando la consistenza e la relazione del danno alle responsabilità contrattuali del debitore. La penale viene inserita proprio per evitare quest'onere della prova nella relativa azione in giudizio. Infatti, quando la clausola è inserita nel contratto, vi è la presunzione del danno, per cui è chi danneggia che deve dimostrare il contrario (13822), e il creditore può ottenere la penale. La penale serve quindi a facilitare il risarcimento e migliorare la posizione del creditore. Se non si specifica, nella clausola, il diritto del creditore al risarcimento dell'eventuale maggior danno, la penale esaurisce la controversia nell'importo in cui è stata fissata. Se il danno, invece, è inferiore, è ammesso il ricorso del debitore al giudice per la riduzione della penale (1384). Il creditore può scegliere se chiedere l'esecuzione della prestazione oppure il pagamento della penale, a meno che questa si sia convenuta anche per il solo ritardo (1383) o per il parziale adempimento, caso in cui può cumulare le richieste.

 

 

La caparra.

 

La caparra confirmatoria è invece uno strumento di rafforzamento del contratto che rappresenta un risarcimento anticipato per responsabilità contrattuale (inadempimento o ritardo), e consiste nella consegna, da parte del debitore al creditore, di una somma di denaro o di altre cose fungibili che, in caso di inadempimento, possono essere fatte proprie dall'avente causa, previo recesso. Il danneggiato può comunque scegliere se recedere e trattenere la caparra, oppure se chiedere la prestazione o la rescissione, nel quali casi potrà chiedere un risarcimento ad hoc. Se l'inadempimento è di chi ha ricevuto la caparra, l'altra parte può recedere e chiedere la restituzione nel doppio. Quando la prestazione è adempiuta regolarmente, la caparra deve essere restituita, ovvero imputata a prestazione. È molto frequente nei contratti preliminari (es. preliminare di vendita immobiliare) e di compravendita.


5 - PATOLOGIA DEL CONTRATTO

 

 

            Rescissione                           patologie genetiche (presenti al sorgere del contratto)

                                               (stato di necessità e stato di bisogno con prezzo > del 50% del   

                                                   valore reale)

 

            Risoluzione                            patologie funzionali (riscontrabili durante lo svolgimento del

                                                                contratto)

                                                           (inadempimento, impossibilità sopravvenuta, eccessiva onerosità

                                                                sopravvenuta)

 

           nullità (assenza di un elemento essenziale o di un loro requisito)

 

            Invalidità

 

           annullabilità (vizio di volontà)

 

 

Inefficacia    (stabilita dalla legge o se accordo contrario alla legge)

 

Rescissione.

 

I contratti possono essere sciolti solo nei casi previsti dalla legge con il recesso unilaterale, la rescissione e la risoluzione.

 

La rescissione è un mezzo concesso dalla legge determinato da patologie genetiche, e si può fare solo in casi in cui al momento della stipula una delle parti risulta essere stata danneggiata, ad esempio, il contratto concluso in condizioni di pericolo (1447). Il pericolo si riferisce alla persona, non ai suoi beni. La rescissione del contratto concluso in stato di pericolo si verifica, ad esempio, quando una persona salva un'altra da una situazione di pericolo solo, ma a patto di un cospicuo compenso. Alla base di una rescissione vi è sempre una condizione di squilibrio tra le parti al momento della stipula, ed una relativa lesione dei suoi interessi (1448). L'azione generale di rescissione, invece di quella dello stato di pericolo, prevede uno stato di bisogno, inteso come economico, noto alle parti, a causa del quale una parte accetta condizioni inique. L'iniquità è determinata da uno svantaggio pari o maggiore al 50% del valore effettivo della prestazione. Per esempio, Tizio, che ha bisogno di denaro, per poter essere operato, si rivolge a Caio, il quale, per sfruttare la situazione, acquista la casa di Tizio ad un prezzo pari alla metà del suo valore commerciale. In questo caso, dunque, Tizio potrà rivolgersi al giudice per ottenere la rescissione del contratto, per lesione ultra dimidium. Ad ogni modo il convenuto può chiedere di modificare l'offerta superando l'iniquità (1450). I contratti aleatori non possono essere rescissi, perché la loro causa contempla il rischio di perdita di una parte a vantaggio dell'altra. In questi contratti il rischio va molto oltre la normalità.

 

La prescrizione dell'azione è di un anno (1449) dalla conclusione del contratto. L'eccezione di rescissione non può essere opposta se l'azione è prescritta. Se la condizione iniqua implica un reato, la prescrizione sarà quella del reato (29473).

 

 

Risoluzione.

 

La risoluzione del contratto a prestazioni corrispettive può essere chiesta al giudice per inadempimento della controparte. Si può richiede o la prestazione coatta o la risoluzione, in ambo i casi si ha diritto al risarcimento. Si può mutare il petitum in giudizio da prestazione coatta a risoluzione, ma non viceversa (1453).

 

La risoluzione è determinata da patologie funzionali, cioè a causa di eventi verificatisi dopo la conclusione del contratto. Il caso più frequente è quello di risoluzione per inadempimento, ma la si può chiedere anche per impossibilità sopravvenuta di adempiere, e per eccessiva onerosità sopravvenuta nell'adempiere.

 

Esistono casi speciali di risoluzione, disciplinati da leggi speciali, come nel caso del contratto di lavoro subordinato, o peri contratti di fondi rustici.

 

Nei casi di risoluzione per inadempimento si distinguono le risoluzioni di diritto e quelle del giudice. Nelle prime il contratto si scioglie automaticamente, nelle seconde avviene per sentenza (costitutiva, cioè gli effetti si producono dal momento della sentenza) del giudice. La risoluzione di diritto ha come presupposto l'inadempimento, che deve avere una sua rilevanza (1455). In caso d'inadempimento, si può chiedere al giudice l'esecuzione del contratto, oppure la risoluzione, come meglio si crede; ma per ottenere la risoluzione di diritto deve essere stata inclusa una clausola risolutiva espressa nel contratto, quindi, verificatosi l'inadempimento, la parte lesa comunicherà di volersi avvalere della clausola, ma solo dopo almeno 3 giorni dalla scadenza del termine previsto dal contratto per l'adempimento, perché, anche in assenza della clausola risolutiva espressa, se il termine è essenziale (1457), l'inadempiente ha tempo 3 giorni per comunicare che intende adempiere, trascorsi i quali il contratto può intendersi risolto. Se la clausola non è stata inserita, e il termine non è essenziale, per dar luogo ad una risoluzione di diritto, devono verificarsi 3 requisiti:

           avere inviato la diffida ad adempiere

           scadenza del termine essenziale fissato nella diffida, di norma di quindici giorni;

           inserimento nella diffida della clausola risolutiva espressa.

 

Per l'eccessiva onerosità sopravvenuta e impossibilità sopravvenuta della prestazione, è necessario il requisito della imprevedibilità ed eccezionalità degli eventi.

 

 

Nullità, annullamento e inefficacia.

 

Le cause di invalidità si dividono in nullità ed annullabilità. Può darsi che un contratto (e in generale un negozio) nasca senza uno degli elementi essenziali, rendendolo nullo, cioè inesistente di fronte dell'ordinamento (la nullità deve e può essere richiesta da chiunque ne abbia interesse). Oppure può verificarsi che il contratto nasca in presenza di un vizio di uno degli elementi, senza che per questo sia nullo, ma può essere annullato su richiesta di una delle parti. Nel primo caso si ha la nullità, nel secondo la parte interessata usufruirà dell'azione di annullamento.

 

La nullità (1418) non fa produrre effetti, e si verifica:

         quando il contratto è contrario a norme imperative dello Stato (nullità virtuale) o al buon costume, a prescindere dagli effetti diversi che possono discendere dall'aver violato una norma imperativa (ad esempio, per i contratti agrari, la sanzione è la conversione di quelli vietati in altri non vietati);

         quando manca uno degli elementi essenziali (causa, oggetto, accordo delle parti, forma);

         altri casi stabiliti dalla legge (donazione con motivo illecito - 788, donazione a tutore - 779, patti successori -458).

 

Esistono altre ipotesi al di fuori di queste, e ipotesi in cui il contratto non è nullo del tutto, ma solo la parte che, ad esempio, è contraria alle norme imperative, una clausola, o un termine. Per esempio, la locazione deve avere un termine di almeno 4 anni, e se un contratto prevedesse una durata inferiore, tale termine si adeguerebbe alla norma. Questo, però, a patto che la clausola non sia essenziale per la volontà delle parti.

 

Il negozio nullo può essere convertito in un altro valido con una novazione, se le condizioni lo consentono. Per la conversione ci deve essere un requisito oggettivo, che la forma e la sostanza del contratto possano confluire nella forma e sostanza di un diverso contratto, ed un requisito soggettivo, rappresentato dalla volontà delle parti a non concludere un contratto che non può avere effetti, e che se fossero stati a conoscenza di un eventuale simile risultato avrebbero stipulato il contratto che risulterà dalla conversione (es. 2701 conversione di atto pubblico in scrittura privata, 602 conversione di testamento segreto in olografo).

 

Quando c'è nullità, il contratto non esiste per l'ordinamento giuridico, per questo non produce alcun effetto. La nullità non è prescrivibile (salvo usucapione di terzi sul bene oggetto), e può essere dichiarata anche d'ufficio dal giudice.

 

L'annullabilità, invece, è una patologia del contratto che scatta in presenza di vizi meno gravi. Il negozio annullabile è affetto da qualche vizio, ma ciò non è letale per la sua validità, perciò produce effetti, che sono validi fino alla richiesta di annullamento da parte dell'interessato (1441), il quale, però, può ratificarli o sanarli (con atto di convalida), oppure può far decorrere il termine di prescrizione (5 anni - 1442). L'atto di sanatoria deve citare il contratto e i suoi vizi. Non si prescrive l'eccezione di annullamento(1442). Se ad esempio, passano i 5 anni e il contratto era viziato, dovrò osservare il contratto comunque, ma se devo ancora pagare una parte del prezzo, e per questo vengo citato in giudizio dalla controparte, posso eccepire l'annullabilità per vizio, ad esempio, della volontà.

 

L'annullabilità è prevista quando il negozio è posto in essere da un soggetto incapace di contrattare (1425) (incapacità legale - cioè maggiore età). L'annullamento può essere domandata dall'incapace o dal suo rappresentante. Se per interdizione legale, potrà essere chiesto da chiunque ne abbia interesse. Il negozio è annullabile a istanza di parte per incapacità naturale (428), cioè per incapacità di intendere e di volere, ma il contratto è annullabile solo se c'è mala fede della controparte (eccetto la donazione che, invece, è annullabile anche senza la mala fede - 775). Il termine di prescrizione decorre dal momento in cui l'incapace legale ha compiuto la maggiore età (1442).

 

L'annullabilità è proponibile anche per vizi della volontà, ossi a quando questa si è formata con: errore, violenza o dolo.

Il termine di prescrizione decorre dal momento in cui fu scoperto l'errore (1442).

 

Altre ipotesi sono contemplate da casi specifici del codice o di leggi speciali.

 

Peraltro si possono verificare casi di contratti che sono validi, non hanno vizi, eppure non producono effetti. Questo è il caso dell'inefficacia, che può dipendere dalla mancanza di un presupposto giuridico che fa si che non si possano produrre gli effetti voluti. Per esempio, il testamento, per produrre effetti, deve verificarsi la morte certa del testatore; se ciò non avviene, cioè se non si verifica la condicio iuris, il testamento non ha efficacia.

 

L'inefficacia può dipendere dall'applicazione delle norme sulle clausole vessatorie (1469 bis e ss.), oppure dal mancato rispetto delle norme sulla pubblicità dei contratti sugli immobili, che in tal caso non sarebbero opponibili ai terzi.

 

 

Inefficacia in presenza di condizione o termine (elementi accidentali del contratto).

 

Esistono condizioni di fatto che possono impedire l'efficacia del contratto, e sono le condicio facti, cioè la condizione sospensiva o risolutiva. Quindi, altro esempio di negozio inefficace, è quello sottoposto a condizione, per cui gli effetti si hanno se si verifica la condizione (sospensiva), oppure cessano se si verifica (risolutiva).

 

La condizione è un evento futuro e incerto al quale si assoggetta la produzione degli effetti. Il termine, invece, cui si è fatto già riferimento, è un evento futuro e certo.

 

Esistono negozi giuridici che non ammettono l'apposizione di elementi accidentali, come il matrimonio e l'accettazione o la rinuncia dell'eredità, oppure il riconoscimento di un figlio.

 

Il contratto può essere inefficace anche solo rispetto a certi soggetti. Ad esempio, il debitore, per sottrarre ai creditori i propri beni, li vende, facendo venire meno le sue garanzie privilegiate, o la semplice garanzia patrimoniale. In tal caso, avendo il debitore, l'intento di danneggiare il creditore, quest'ultimo avrà diritto all'azione revocatoria, che, se accolta, porterà all'inefficacia del contratto di compravendita nei soli confronti del creditore. Per il terzo acquirente, se a titolo oneroso e in buona fede, il contratto avrà valore. Mentre se il terzo acquirente era a conoscenza della garanzia sul bene, il creditore può agire direttamente e anticipatamente sulla cosa senza che il credito sia scaduto.


6 - RESPONSABILITÀ DA ATTI O FATTI ILLECITI

 

Responsabilità civile extracontrattuale (o Papiniana - 1173).

 

Le fonti delle obbligazioni sono, dunque, fondamentalmente, i contratti e gli atti o fatti illeciti (2043). Per gli atti illeciti si parla di responsabilità extracontrattuale, con riferimento ad una pluralità di atti, tra i quali si sono aggiunti, ad opera della giurisprudenza della Corte di cassazione, anche quelli relativi ad interessi legittimi. L'art. 2043 contiene la fattispecie generale di illecito civile, con obbligo del risarcimento, che è un principio giusnaturalistico. Si parla di responsabilità Aquiliana, perché era già prevista in una lex Aquilia dei Romani. La fattispecie generale si applica dove non esiste una disciplina specifica (2048 e ss. o leggi speciali). La sentenza della cassazione fa seguito all'art. 34 della Bassanini 3 del '98, ed ha una valenza molto ampia.

 

Art. 2043. Risarcimento per fatto illecito. Qualunque fatto doloso, o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno.

 

Sono evidenziabili due elementi costitutivi del fatto illecito: uno soggettivo, della consapevolezza (dolo o colpa) di colui che ha agito; e uno oggettivo, l'ingiustizia del danno, ovvero la lesione di un interesse meritevole di tutela. E sono due elementi essenziali, perché entrambi sono necessari, ma non sufficienti. Cioè, chi cagiona un danno ingiusto, ma ne' con colpa e ne' con dolo, può essere tenuto al risarcimento. Tra il danno e il comportamento di chi ha agito deve esserci il nesso di causalità. La colpa consiste nell'inosservanza di leggi, regolamenti, ordini dell'autorità, discipline varie, con un'azione svolta con negligenza, imprudenza o imperizia, ma senza il carattere della volontarietà del danno. Il dolo implica invece una certa intenzionalità nel cercare gli effetti che portano al danneggiamento. A ciò va aggiunto il criterio di imputabilità (2046), cioè la capacità naturale di agire, la capacità di intendere e di volere, a meno che il suo stato di assenza non dipenda da causa (es. ubriachezza), appunto imputabile al soggetto agente.

 

L'incapace legale, invece, risponde del danno causato (es. il minore d'età). Se il soggetto non era in grado di intendere e di volere, non sarà ritenuto responsabile e non dovrà risarcire il danno. Infatti, nel caso di danno arrecato da un incapace, il risarcimento è dovuto dai genitori o dal suo sorvegliante, se questo non dimostra di non aver potuto impedirlo (2047), e se questo non può risarcire, il giudice può stabilire un indennizzo a carico dell'incapace. Se un bambino, invece, è capace naturale (capacità naturale = capacità di intendere e di volere), risponde lui in prima persona. È imputabile solo il soggetto che ha agito con la capacità naturale.

 

Questi sono i presupposti su cui si basa la responsabilità extracontrattuale. La fattispecie del 2043 è talmente generica da avere un ambito di applicazione molto ampio. La responsabilità civile è una forma atipica, mentre tipica è quella penale. Lo stesso codice, però, subito dopo descrive casi specifici, e poi lo fanno altre leggi speciali. In alcuni casi il legislatore prescinde dalla colpa o dal dolo, lasciando irresponsabili alcuni soggetti. Bisogna inoltre sottolineare come colpa o dolo non sono imputabili ai soggetti che danno una giustificazione in base agli articoli 2044 e 2045: legittima difesa e stato di necessità. Per il secondo è previsto solo un indennizzo stabilito dal giudice in via equitativa. Per il diritto penale, la legittima difesa è la reazione proporzionale all'offesa, perciò l'azione commessa per opporre una resistenza, non un'offesa ulteriore. Lo stato di necessità, ad esempio, si configura  quando un automobilista si scontra contro un veicolo in sosta per evitare di investire un ciclista ubriaco che gli ha tagliato la strada; l'automobilista non dovrà pagare il risarcimento del danno, ma semmai un indennizzo. Il risarcimento toccherà al ciclista, nella differenza tra indennizzo e danno.

 

 

 

La responsabilità extracontrattuale esula da uno specifico obbligo da rispettare, come nella responsabilità contrattuale, ma piuttosto un generico comportamento riguardoso dei danni che si possono arrecare al prossimo. Una responsabilità extra contrattuale può trasformarsi in contrattuale se si verifica in violazione di un ordine o di un obbligo preciso preesistente. Questo può verificarsi, per esempio, in un incidente stradale, il soggetto danneggiato chiede il risarcimento; se il danneggiante non adempie, il danneggiato si rivolgerà al giudice, il quale emanerà una sentenza di condanna al pagamento, cioè un ordine, ossia un obbligo preciso. Se dopo la sentenza il convenuto continua a non voler pagare, sarà soggetto a responsabilità contrattuale. Gli effetti si riferiscono soprattutto alla prescrizione. Il diritto di credito derivante da contratto, si prescrive in 10 anni, mentre quello derivante da responsabilità extracontrattuale, o meglio la relativa azione di risarcimento, si prescrive in 5 anni, che si riducono a 2 anni per gli incidenti stradali tra veicoli. L'ipotesi di responsabilità pre contrattuale è una variazione di quella extracontrattuale, quindi le si applicano le norme del 2043 e seguenti.

 

Nella responsabilità extracontrattuale, l'onere della prova, in via generale, è a carico del danneggiato, che deve provare sia l'esistenza dell'elemento oggettivo, il danno ingiusto (nel suo ammontare), che quello soggettivo della colpa (o il dolo). Il danno dev'essere ingiusto, quindi, per esempio, è ingiusto il danno apportato ad un fondo per l'aver costruito un edificio senza il rispetto delle distanze imposte dal piano regolatore (872). Il danno non sarà ingiusto se il vicino costruisce nel rispetto delle norme del piano regolatore, anche se ostruisce la vista panoramica. Il terzo elemento è il nesso di causalità, cioè il rapporto di dipendenza del danno dal comportamento del danneggiante. Questo nesso di causalità esiste quando esiste una causalità adeguata, cioè, le conseguenze imputate al danneggiante devono essere quelle che in un determinato momento storico potevano essere determinate da quel comportamento. L'intervenire di eventi eccezionali vanno invece ad intervenire sul nesso casualità, cioè la fatalità dell'insorgere del danno a causa di eventi eccezionali che da soli avrebbero causato il danno, mentre nel nesso di causalità il comportamento dell'agente è causa del danno. Ad esempio, le complicazioni delle condizioni del ferito di un incidente stradale non sono di tipo eccezionale. Se invece il ferito subisce un aggravamento per causa di un ulteriore incidente avvenuto durante il trasporto in ambulanza, allora si configura un caso di evento eccezionale, e, in quanto tale, non imputabile al responsabile del sinistro precedente, anche se a causa di quello il ferito si trovava a bordo del veicolo di soccorso. Quindi la responsabilità extracontrattuale si relaziona ai soli danni immediati e diretti causati da qualcuno. Questo è il senso del terzo elemento dell'atto illecito: l'imputabilità.

 

Riassumendo, la responsabilità extracontrattuale dipende da tre elementi costitutivi:

           colpa o dolo;

           danno ingiusto;

           imputabilità.

 

Inoltre, da qualche anno a questa parte, per danno risarcibile si deve intendere, oltre che la lesione di un diritto assoluto (la proprietà, oppure un diritto della personalità, per esempi), anche la lesione di un interesse inteso come diritto di credito, che ad esempio non venisse onorato dal debitore per colpa di un terzo, il quale potrà essere chiamato a rispondere del danno direttamente dal creditore principale. Oggi, anche un giudice amministrativo può condannare al risarcimento. Si assiste, quindi, ad una espansione dell'istituto del risarcimento.

 

Il danno economico è risarcibile secondo i principi della responsabilità contrattuale, quindi, sia come danno emergente che come lucro cessante (la lesione e le sue dirette conseguenze). Ovviamente l'onere della prova grava sempre sul danneggiato.

 

Un altro aspetto importante è che risarcibile non è soltanto un danno di natura economica. Peculiarità della responsabilità extracontrattuale è quella di dar luogo al risarcimento anche di danni non patrimoniali, come il danno biologico. Il codice prevede espressamente il risarcimento del danno no patrimoniale, vincolandolo ai soli casi previsti dalla legge (2059), per esempio, la raccolta non autorizzata di dati personali, ai sensi della legge 675/96 (privacy).

 

 

Tipologia del danno.

 

I danni possono essere di tre tipi: economico, non patrimoniale, biologico. Quest'ultimo è di derivazione giurisprudenziale, ed è quantificabile con l'ausilio di alcune tabelle predeterminate dai tribunali e dai periti. Il danno non patrimoniale di cui al 2059, corrisponde ad un risarcimento solo nel caso in cui l'illecito civile si rifletta da un reato penale, e si configura nel danno morale, ossia il prezzo per il dolore. Nel danno economico rientra l'incapacità lavorativa, ossia quella situazione di impossibilità a produrre il proprio reddito col lavoro, e si quantifica anch'esso con l'ausilio di tabelle. Se il danno è riferito alla persona, scattano automaticamente tutti e tre i tipi di danno. Si è quindi considerato ingiusto che la persona che era stata privata della capacità lavorativa non fosse risarcita del danno. Il danno biologico è risarcibile indipendentemente dalla natura penale dell'illecito. A questo riguardo si è espressa la Corte Costituzionale, dicendo che il problema non è l'illegittimità dell'art. 2059, ma che il danno biologico è diverso da quello previsto da quell'articolo, e che deriva piuttosto dal combinato disposto del 2043 e dell'art. 32 della costituzione.

 

Riepilogando, per atto o fatto illecito, sono risarcibili: il danno economico (lucro cessante e danno emergente), il danno morale (quando è associato ad un reato) e il danno biologico (che un D.L. ha cercato di disciplinare nella sua determinazione, ma che poi è stato convertito in legge con modifiche senza la disciplina dettata in materia di risarcimento). Il danno biologico è stato concesso anche ai parenti del danneggiato che hanno lamentato l'insorgenza di una nevrosi connessa all'assistenza che hanno dovuto prestare al parente paziente.

 

Responsabilità oggettive.

 

Rispetto alla norma generale (2043), esistono anche ipotesi specifiche disciplinate dagli art. 2049 - 2052, e anche da leggi speciali. Ad esempio la legge Mammì n.223/90, in materia di rettifica radiotelevisiva di informazioni errate trasmesse che hanno danneggiato l'immagine di talune persone. Ma ci sono norme speciali anche in materia di responsabilità del produttore di un bene difettoso immesso sul mercato, ed anche in materia di danno ambientale con relativo risarcimento allo Stato (art. 18 L. 349/86 - l'azione risarcitoria può essere proposta dal Comune, dalla Provincia o dalla Regione, oppure dall'amministrazione centrale dello Stato).

 

La responsabilità dell'imprenditore che immette un prodotto difettoso sul mercato è ammessa, anche se non c'è colpa o dolo (elemento soggettivo). È un tipo di responsabilità detta oggettiva, perché le manca l'elemento soggettivo della colpa, e che trova radicamento nel codice dentro norme non esplicite, come l'art. 2049 sulla responsabilità dei padroni e dei committenti, che pur non avendo colpa per gli atti compiuti dai loro domestici o commessi, devono comunque risponderne (es. la collaboratrice domestica, nel fare le pulizie fa cadere un vaso dalla finestra su un'auto, la responsabilità sarà del padrone di casa).

 

Un altro esempio di responsabilità oggettiva è quello derivante dalla custodia di animali.

 

In sostanza, si ha responsabilità oggettiva, quando il soggetto è chiamato a rispondere senza che nessun addebito soggettivo possa essergli contestato.

 

Sono più chiare le ipotesi di responsabilità oggettiva delineate dalle leggi speciali.

 

Invece, nel codice, come per l'art. 2052, per alcuni autori è responsabilità oggettiva, mentre per altri è responsabilità aggravata.

 

 

 

Anche il 4° comma del 2054 è da considerarsi una responsabilità oggettiva, perché il proprietario del veicolo, l'usufruttuario e il conducente, sono responsabili per i difetti di fabbricazione del veicolo che causino danni a terzi.

 

Nei casi già illustrati e previsti dagli art. 2047 e 2048, quello che interessa ai fini del risarcimento è la capacità naturale di intendere e di volere, quella d'agire è relativa. In particolare, il 2048 si riferisce alla responsabilità dei genitori che devono rispondere degli atti commessi dal minore che era capace di intendere e di volere, altrimenti si configura il caso precedente del 2047. Se, però, il genitore dimostra di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, a rispondere sarà chiamato il minore stesso. Non è un caso di responsabilità oggettiva, perché sul soggetto incombe la responsabilità per non aver vigilato diligentemente sul minore. Per questa fattispecie è previsto il requisito della convivenza, che è fondamentale. Nell'esempio dei genitori separati, dove il figlio minorenne coabita con un solo genitore, il quale ne ha l'onere della vigilanza, la responsabilità del 2048 si fa risalire solo al genitore che lo ha in affidamento; nel caso che il danno emerga dal fatto commesso mentre il minore era temporaneamente vigilato dall'altro genitore, alcune sentenze hanno fatto risalire la responsabilità sempre al genitore che lo aveva in affidamento, cioè che vi coabita, perché le Corti hanno ritenuto che l'educazione abbia importanza primaria rispetto alla vigilanza.

 

Altri casi di responsabilità oggettiva è quella del produttore di un bene difettoso (Decreto del Presidente della Repubblica 24 maggio 1988, n. 224 - Attuazione della direttiva CEE n. 85/374 relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi, ai sensi dell'art. 15 della l. 16 aprile 1987, n. 183). Per questo caso il termine di prescrizione dell'azione risarcitoria è di 3 anni. Se però non si configurano tutti gli estremi per la responsabilità del produttore, espressamente, il decreto dice che non sono esclusi i diritti al risarcimento garantiti da altre leggi eventuali. Restano comunque esclusi da questa disciplina i prodotti agricoli che non sono trasformati. Sono però parificati ai prodotti trasformati quelli che vengono impacchettati e confezionati, perché comunque, in qualche misura, sono stati manipolati. Nel D.P.R. 224/98, oltre alla riduzione della prescrizione, vi è un'altra norma in favore del produttore, quella della decadenza dopo 10 anni dall'immissione sul mercato di quel tipo di prodotto.


7 - SUCCESSIONI

 

Quando un soggetto muore il suo patrimonio va ai suoi eredi. La terminologia successione mortis causa sta ad indicare che un soggetto subentra nei diritti del defunto. Anche la costituzione definisce le regole generali delle successioni facendo distinzione tra legittima e testamentaria. Tutto questo è legato al sistema della proprietà provata. Il codice tratta delle successioni nel libro secondo, a partire dall'art. 456. Questo è simbolicamente significativo, perché, il fatto si seguire direttamente il libro delle persone e della famiglia, vuol dire che questo istituto serve principalmente alla tutela del patrimonio di famiglia. È il problema della tutela della famiglia legittima del defunto. Ma è un istituto che trova la sua importanza nel fatto di dare un proprietario alle cose del patrimonio. Solo in estrema ratio è lo Stato a essere erede, proprio per assicurare in ogni caso un titola, al fine di evitare il problema sociale dei beni vacanti. Un'altra ragione e di carattere finanziario, dato che lo Stato fa dei prelievi sui trasferimenti dei cespiti patrimoniali.

 

 

Erede universale e legatario.

 

L'erede universale è colui che subentra in tutti i rapporti del de cuius, anche quelli passivi, è vi risponde anche con il proprio patrimonio. Il successore a titolo particolare (legatario), è colui che succede solo nei rapporti espressamente indicati. Mentre per l'erede è richiesta l'accettazione, per il legatario no, anche se può comunque rinunciare. Il legatario succede immediatamente. Nei confronti del legatario è tenuto l'erede, quindi il primo può chiedere al giudice di fissare un termine per l'accettazione dell'eredità. Talvolta, però, non è semplice capire se il chiamato a succedere nel testamento sia erede o legatario.

 

 

Successione legale.

 

Nel nostro ordinamento, la successione mortis causa, si apre nell'ultimo domicilio del defunto. C'è anche la possibilità di redigere un testamento, che è un atto di liberalità mortis causa. Quindi, nell'apertura della successione, bisognerà vedere prima di tutto se c'è un testamento. Se è così, si avrà una successione, in parte per testamento, e in parte legale. Se non c'è testamento si darà luogo alla successione legale. La vocazione ereditaria è la chiamata a succedere. Una volta individuato l'erede, perché sia tale, c'è bisogno della sua accettazione. L'accettazione può essere anche tacita.

 

 

Successione necessaria.

 

Il nostro codice definisce 6 categorie di succedibili, cioè fino al 6° grado di parentela, dopo di che succede lo Stato. C'è, però, una forte tutela della famiglia evidenziata dalle norme della successione necessaria in favore di eredi legittimati, cioè indicati tassativamente dalla legge.

 

Sono eredi legittimati:

           il coniuge;

           i discendenti legittimi, naturali e adottivi;

           gli ascendenti, se in assenza dei precedenti.

 

Una quota dell'asse ereditario deve essere necessariamente riservata a questi eredi. Le norme della successione legittima hanno riguardo di questo. E' invece nella successione testamentaria che si può verificare una lesione degli interessi degli eredi legittimati. Se il testamento non rispetta le quote legittime, le sue disposizioni di volontà non sono nulle, ma inefficaci nei confronti dei legittimati, i quali hanno 10 anni di tempo per impugnare il testamento è chiedere l'azione di riduzione. Questa è un'azione personale che non può neanche essere chiesta dai creditori dell'erede leso nella legittima. Tutto questo, perché, in ragione della tutela della famiglia, esiste la quota legittima, alla quale, però, i legittimati possono rinunciare non richiedendone l'azione relativa.

 

 

Successione testamentaria.

 

I testamenti ammessi dal nostro ordinamento sono 3: olografo, pubblico e segreto. L'olografo è quello privato redatto dal testatore di suo pugno, gli altri sono quelli redatti dal pubblico ufficiale. L'olografo viene tenuto con se' dal testatore nella sua abitazione.

Può succedere che il testamento sia nullo o che sia annullabile. Ognuno dei testamenti richiede delle forme specifiche, in mancanza delle quali si arriva alla nullità. L'olografo deve essere scritto di pugno e sottoscritto; è richiesta poi anche la data, ma ad probationem rispetto ad altri testamenti precedenti, oppure in controversie riferite alla capacità di intendere e volere del testatore prima di un determinato giorno. La sottoscrizione serve per identificare la paternità dell'atto e può anche essere una sigla o un diminutivo usuale. La data può anche essere espressa in modo implicito (natale 2000). Il testamento pubblico è ricevuto verbalmente dal notaio e messo per iscritto in presenza di 2 testimoni, che ascolteranno la rilettura da parte del testatore, prima di sottoscriverlo (forma solenne). Il testamento pubblico è l'unico che può essere fatto da chi non sa leggere è scrivere. Il testamento segreto può essere scritto dal testatore, o da un terzo (nel qual caso deve riportare la firma del testatore sopra ogni mezzo foglio). Il notaio poi quando lo riceve, deve assolvere altre necessarie formalità per rendere valido il testamento segreto. Il notaio non conosce il contenuto, ma adempie solo alle formalità del visto.

 

 

Istituti di tutela.

 

Ci sono degl'istituti tipici delle successioni, come l'azione interrogatoria, o la rappresentazione, che consente la successione dei discendenti in luogo dell'ascendente che non vuole o non può diventare erede. Questo però si applica solo quando il chiamato a succedere è figlio o fratello del defunto. In questo caso, si avrà una successione per stirpi.

 

Un altro istituto tipico è quello della collazione, che ha lo scopo di assicurare la parità di condizione tra figli legittimi e naturali e il coniuge, i quali devono conferire agli eredi tutto ciò che hanno avuto dal defunto in donazione, per riequilibrare eventuali situazioni di disparità di trattamento. Ovviamente salva la lesione della legittima. Ci sono beni che sono sottratti alla collazione come per esempio le donazioni di modico valore fatta al coniuge e le spese di mantenimento.

 

 

Accettazione dell'eredità con beneficio d'inventario del successore a titolo universale.

 

Un caso di tacita accettazione dell'eredità è quando l'erede è nel possesso dei beni del defunto. In questo caso ha 3 mesi di tempo per dichiarare o no se accetta l'eredità. L'inventario si deve fare entro 40 giorni dall'accettazione con beneficio d'inventario. Un altro caso di tacita accettazione dell'eredità è la riscossione di un credito del defunto. Il termine per accettare l'eredità è di 10 anni . Ci sono casi in cui il soggetto deve accettare con beneficio d'inventario, come nel caso dei genitori o del tutore che accettano l'eredità per conto di un figlio minore o di un interdetto giudiziale. Devono poi accettare con beneficio d'inventario anche tutte le persone giuridiche, quindi anche gli enti pubblici.

 

 LA RESPONSABILITÀ PATRIMONIALE E LE GARANZIE DELL'OBBLIGAZIONE

 

1. GENERALITA’

 

La responsabilità patrimoniale si può definire come «L’assoggettamento del patrimonio del debitore inadempiente al soddisfacimento forzoso delle ragioni del creditore».

 

La responsabilità si manifesta come conseguenza dell'inadempimento del debitore e concorre e realizzare la tutela giuridica del credito. In materia vigono due principi fondamentali:

 

‑ l'assoggettamento cade su tutti i beni presenti e futuri del debitore (cioè anche quelli pervenuti dopo l'assunzione dell'obbligo: v. art. 2740

C.C.);

‑ inoltre tutti i creditori hanno uguale diritto di essere soddisfatti sui beni del debitore (garanzia generica), salve le cause legittime di prelazione (art. 2741 c.c.) che sono: il pegno, l'ipoteca e i privilegi, i quali attribuiscono ai crediti cui accedono il diritto ad essere soddisfatti prima degli altri su talu­ni beni.

 

Esaminiamo, innanzitutto, le cause legittime di prelazione che sono, per espressa previsione legislativa, il privilegio, il pegno e l'ipoteca: il creditore da esse assistito è preferito, nel riparto del prezzo ricavato dalla vendita forza­ta, rispetto agli altri creditori (chirografari).

 

2. I PRIVILEGI

A) Nozione

Il privilegio è un titolo di prelazione che la legge accorda al creditore in con­siderazione della particolare natura o causa del credito (art. 2745 c.c.).

Fonte dei privilegi è soltanto la legge: le parti non possono creare altri cre­diti privilegiati oltre quelli previsti dal legislatore.

 

B) Tipi

I privilegi si distinguono in due categorie:

 

1) privilegio generale, che è solo mobiliare e si fa valere sul ricavato della vendita coattiva eseguita su tutti i beni mobili del debitore.Esso consiste in un particolare riconoscimento fatto alla causa del credito, indipendentemente da ogni rapporto con i beni mobili che sono sottoposti ad esecuzione.

2) privilegio speciale, che può essere mobiliare o immobiliare e grava soltanto su determinati beni del debitore. Esso è giustificato dal particolare rapporto di connessione esistente tra il credito e la cosa su cui si esercita.

I privilegi speciali, se la legge non dispone diversamente, hanno un diritto

di seguito, cioè possono esercitarsi anche in pregiudizio dei diritti acquistati

dai terzi posteriormente al loro sorgere (art. 2747 c.c.).

 

C) Graduazione fra cause di prelazione

Qualora coesistono più crediti privilegiati, la legge (artt. 2777‑2783 c.c.) stabilisce un ordine di preferenza fra gli stessi fondato esclusivamente sulla causa del credito e non sulla priorità nel tempo di costituzione dell'uno o dell'altro. Ad esempio, alle spese di giustizia è sempre accordata preferenza assoluta.

 

3. I DIRITTI REALI DI GARANZIA (PEGNO E IPOTECA)

Anche il pegno e l'ipoteca sono cause legittime di prelazione, in quanto

diritti reali, però, essi presentano altresì i seguenti requisiti:

‑ l'immediatezza: per il loro esercizio non occorre la cooperazione di alcun soggetto;

‑‑ l'assolutezza: sono opponibili erga omnes;

‑ il diritto di sequela (di inseguire, cioè, il bene) nel senso che il creditore ha il potere di soddisfarsi sul bene anche se la proprietà è passata ad altra persona.

 

A) Caratteristiche comuni ai due diritti

‑ Accessorietà: se manca o si estingue l'obbligazione garantita, viene meno o si estingue anche la garanzia;

‑ specialità: il pegno e l'ipoteca si costituiscono soltanto su beni determinati (al contrario il privilegio può essere generale, cioè applicabile a tutti i beni mobili del debitore);

‑ determinatezza: la garanzia giova unicamente per determinati crediti, compresi i diritti connessi (es.: interessi);

‑ indivisibilità: il diritto di pegno o di ipoteca si estende «sull'intero bene che ne è oggetto e sulle sue parti, a garanzia dell'intero credito e di ogni parte di esso»;

‑ il cal. supplemento di pegno e di ipoteca: se la cosa data in garanzia perisca o si deteriori, il creditore può chiedere che gli sia prestata la garanzia su altri beni e, in mancanza, ha diritto al pagamento immediato del suo credito (perdita del beneficio del termine, art. 2743 c.c.);

‑ divieto del patto commissorio: è vietato il patto con cui si stabilisce che, ove il debitore sia inadempiente, la proprietà della cosa oggetto del pegno o dell'ipoteca spetti al creditore (art. 2744 c.c.).

 

B) Il pegno

Secondo la definizione più comune, il pegno è un diritto reale di garanzia; ossia un diritto concesso dal debitore (o da un terzo) su cosa mobile a garanzia di un credito. Esso si perfeziona solo con la consegna materiale della cosa.

Oggetto del pegno possono essere i beni mobili (eccetto quelli registrati), le universalità di mobili, i crediti ed altri diritti aventi per oggetto beni mobili (art. 2784 c.c.) che siano infungibili.

II pegno si costituisce mediante contratto (contratto di pegno), tra il creditore e il debitore o un terzo datore del bene. Si tratta di un contratto reale, perché si perfeziona con la consegna al creditore della cosa. Il debitore (o il terzo) proprietario del bene ne è temporaneamente spossessato a garanzia del pagamento del debito (art. 2786 c.c.).

 

C) L'ipoteca

È un diritto reale di garanzia, concesso dal debitore (o da un terzo) su un bene, a garanzia di un credito, che attribuisce al creditore il potere di espropriare il bene e di essere soddisfatto con preferenza sul prezzo ricavato.

Possono essere oggetto di ipoteca (art. 2810 c.c.):

‑ i beni immobili con le loro pertinenze;

‑ i beni mobili registrati (navi, aeromobili, autoveicoli);

‑ l'usufrutto, il diritto di superficie, il diritto dell' enfiteuta e quello del conce

dente sul fondo enfiteutico; ‑le rendite dello Stato.

Anche la quota di un bene indiviso può essere oggetto di ipoteca (art. 2825 C.C.).

Il diritto di ipoteca si costituisce mediante iscrizione nell'apposito registro presso l'ufficio dei registri immobiliari che ha competenza territoriale sul luogo ove si trova il bene. Tale iscrizione ha, pertanto, carattere costitutivo: la volontà delle parti, la legge o la sentenza attribuiscono al creditore il diritto ad ottenere l'iscrizione (cioè costituiscono il titolo per la costituzione), ma solo con l'iscrizione il diritto viene ad esistenza.

L’ ipoteca, per la sua natura di diritto reale, ha efficacia anche nei confronti di chi acquisti l'immobile dopo l'iscrizione: infatti, i creditori ipotecari possono far espropriare i beni ipotecati anche dopo l'alienazione (v però gli artt. 2889 ss. c.c.).

 

 

4. GARANZIE SEMPLICI O PERSONALI

Sono quelle garanzie che non si costituiscono mediante la creazione di un diritto su una cosa determinata, con conseguente diritto di prelazione sulla stessa, ma consistono nella creazione di un nuovo rapporto obbligatorio (accessorio all'obbligazione principale) fra lo stesso creditore e un altro soggetto che si aggiunge, col suo patrimonio, a rafforzare la garanzia del creditore.

 

A) La fideiussione (artt. 1936‑1957 c.c.)

La fideiussione si costituisce mediante un contratto col quale un terzo si obbliga personalmente verso il creditore, garantendo l'obbligazione altrui.

Di regola la fideiussione presuppone un accordo con il debitore principale, ma tale accordo non è essenziale: l'eventuale intesa è, cioè, al di fuori dello schema del rapporto di fideiussione che, come tale, è bilaterale, non trilaterale. La volontà di prestare fideiussione deve essere espressa (art. 1937 c.c.).

Per quanto concerne la responsabilità del fideiussore:

‑sussiste un rapporto di solidarietà fra il debitore e il fideiussore che diviene «obbligato in solido» col debitore garantito;

‑può, peraltro, stabilirsi l'obbligo della previa escussione dell'obbligato principale: ci si deve rivolgere, cioè, prima al debitore garantito, poi, solo dopo l'esecuzione sui beni di quest'ultimo, ci si potrà rivolgere al fideiussore (art. 1944, 2° comma, c.c.);

‑può essere stabilito, nel caso di più fideiussioni, il beneficio della divisione: il debito si divide in tante parti quante sono i fideiussori e ogni fideiussore può esigere che il creditore richieda solo la parte di sua spettanza (art. 1947 c.c.);

‑il fideiussore che ha pagato è surrogato nei diritti che il creditore aveva contro il debitore (art. 1949 c.c.): egli, cioè, può valersi di tutte le garanzie che erano a disposizione del creditore per rifarsi sul patrimonio del debitore garantito ed ha l'azione di regresso con la quale può agire contro il debitore per farsi rimborsare di quanto ha pagato (art. 1950 c.c.);

‑il fideiussore può opporre al creditore tutte le eccezioni che spettano al debitore principale, salva quella derivante da incapacità (art. 1945 c.c.).

I’obbligazione del fideiussore si estingue: per l'estinzione dell'obbligazione del debitore principale; attraverso i normali modi di estinzione delle obbligazioni; per particolari ipotesi previste dagli artt. 1955‑1957 c.c.

 

B) L'avallo

l'avallo è una dichiarazione cambiaria, con la quale taluno garantisce il pagamento della cambiale per uno degli obbligati cambiari (il traente, l'emittente o un girante). Si tratta di un'obbligazione cambiaria autonoma di garanzia.

 

5. LA CAPARRA

Per i soli contratti a prestazioni corrispettive, per rafforzare il diritto del creditore al risarcimento del danno in caso di inadempimento, le parti possono convenire che una consegni nelle mani dell'altra una caparra, ossia una somma di denaro o una quantità di cose fungibili.

Si distingue tra:

caparra controfirmatoria (art. 1385 c.c.): è una somma di denaro o una quantità di cose fungibili che, al momento della costituzione del rapporto obbligatorio, una parte dà all'altra, quale conferma dell'adempimento, di cui segna quasi un'anticipata e parziale esecuzione.

Se il contratto viene adempiuto, la caparra deve essere restituita o imputata alla prestazione dovuta. In caso di inadempimento, invece: se inadempiente è la parte che ha dato la caparra, l'altra può recedere dal contratto e ritenere la caparra; se inadempiente è la parte che l'ha ricevuta, l'altra può recedere dal contratto ed esigere il doppio della caparra; resta salvo, comunque, il diritto di agire per il normale adempimento o per la risoluzione e il risarcimen­to del danno (in tale ultimo caso, la caparra varrà come anticipo sul pagamento dei danni);

caparra penitenziale (art. 1386 c.c.): in cui la somma che una parte dà all'altra non rappre­senta una cautela contro l'inadempimento, ma è il corrispettivo per l'attribuzione della facoltà di recesso dalla obbligazione contrattuale (cioè di liberarsi dall'obbligazione assunta).

Una volta versata la caparra, i contraenti si riservano la scelta tra l'adempimento ed il reces­so. Il recesso si attua per volontà unilaterale, rinunziando alla caparra nelle mani della con­troparte, se recede il soggetto che l'ha consegnata, o provvedendo alla restituzione di una doppia caparra nell'ipotesi inversa.

 

6. IL DIRITTO DI RITENZIONE

 

Talvolta la legge concede al creditore di trattenere una cosa che egli avreb­be l'obbligo di restituire al proprietario, alfine di indurre quest'ultimo a sod­disfare un suo debito. Trattasi di un mezzo di pressione sulla volontà del debitore, cui non si accompagnano garanzie reali o privilegi.

 

7. LA CONSERVAZIONE DELLA GARANZIA PATRIMONIALE

 

Le azioni giudiziarie concesse al creditore per la difesa della sua garanzia patrimoniale sono le seguenti:

1) l'azione surrogatoria: è l'azione con cui il creditore chiede al giudice di potersi sostituire nella posizione del debitore, quando questi non eserciti o meglio trascuri di esercitare verso i terzi tutti i diritti a lui spettanti. Affin­ché il creditore possa proporre tale azione è necessario dunque che vi sia: inattività o inerzia da parte del debitore nell'esercizio dei suoi diritti e che da tale inerzia possa derivare un danno al creditore quindi impossibilità di quest'ultimo, di soddisfare su tale patrimonio le sue pretese.

La surrogazione è ammessa solo nei diritti che abbiano contenuto patri­moniale;

2) l'azione revocatoria: in questo caso il presupposto per poterla invocare non è l'inerzia del debitore, bensì un atto di disposizione del suo patrimo­nio che possa arrecare danno alle ragioni del creditore.

Distinguiamo:

a) se l'atto è a titolo gratuito e sia stato effettuato dopo il sorgere del credito, è sufficiente che il creditore provi in giudizio la conoscenza da parte del debitore stesso del pregiudizio che questo avrebbe potuto arrecare al creditore;

b) se l'atto è a titolo gratuito e sia stato effettuato prima del sorgere del credi­to, allora il creditore deve provare anche il dolo del debitore ossia la premeditazione di arrecare danno alle ragioni del creditore;

c) se l'atto è a titolo oneroso e sia stato compiuto dopo il sorgere del credito, occorre dimostrare che non solo il debitore ma anche il terzo era a cono­scenza del pregiudizio che l'atto poteva arrecare alle ragioni del creditore;

d) se l’ atto è a titolo oneroso e sia stato compiuto prima del sorgere del credito, il creditore deve dimostrare oltre alla conoscenza anche la dolosa premeditazione del debitore e del terzo.

L'azione revocatoria si prescrive in 5 anni dalla data dell'atto.

3) il sequestro conservativo: si tratta di un provvedimento di natura cautelare e per poterlo richiedere occorre il fondato timore, da parte del creditore, di perdere le garanzie a tutela del proprio credito (es.: rischio di fuga del debitore o distrazione di beni dal suo patrimonio).

E’ proponibile, in caso di revocatoria, nei confronti di colui che abbia acquistato beni dal debitore.

 

 

 

 

1 - LA LOCAZIONE

 

La locazione è un contratto tipico (cioè è espressamente regolato dalla legge), a titolo oneroso e con carattere di durata. In ragione della diffusione di tale tipo di contratto, il Codice Civile contiene ben 83 articoli, dal 1571 al 1654, che la riguardano. L’oggetto della locazione è rappresentato dal godimento e dall’uso della cosa locata. I limiti al potere di utilizzazione possono variare a seconda della destinazione contrattuale: vi è, infatti, l'uso per abitazione, per ufficio, per esercizio commerciale ecc. (locazioni abitative e non abitative). 
La durata del contratto è fissata dal Codice Civile (art. 1573) nel tempo massimo di trent’anni, essendo nulla qualsiasi pattuizione per un periodo superiore. Sia al locatore, sia al conduttore in materia di locazione competono per espressa volontà legislativa specifici obblighi e relativi diritti. 


La locazione di beni immobili

Accanto alle previsioni contenute nel Codice Civile sono operanti alcune leggi che disciplinano particolari tipi di locazione. Si fa riferimento alle disposizioni previste dalla Legge 27 luglio 1978, n. 392, meglio nota come “legge sull’equo canone” , al Decreto Legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, dalla Legge 8 agosto 1992, n. 359, conosciuta come disciplina dei “patti in deroga” e alla Legge 9 dicembre 1998, n. 431, che contiene la recente riforma della locazione e delle norme sul rilascio degli immobili adibiti ad uso abitativo. 

 

La legge 27 luglio 1978, n. 392, aveva introdotto l’equo canone nella locazione degli immobili urbani. 
Tale legge aveva dettato una nuova disciplina del rapporto locativo, prevedendone la durata, la possibilità di sublocazione, di scioglimento, di successione nel contratto. Era previsto un meccanismo di aggiornamento e adeguamento del canone, accanto a disposizioni concernenti la risoluzione giudiziale delle controversie tra locatore e conduttore. 


La durata della locazione avente per oggetto immobili urbani per uso abitativo non poteva essere inferiore a quattro anni, salvo i casi di locazioni stipulate per soddisfare esigenze abitative di natura transitoria. Il contratto si rinnovava per un ulteriore periodo di quattro anni se nessuna delle parti comunicava all'altra, almeno sei mesi prima della scadenza, con lettera raccomandata, che non intendeva rinnovarlo. Quanto al recesso dal contratto, indipendentemente dalle previsioni contrattuali, il conduttore, qualora ricorressero gravi motivi, poteva recedere in qualsiasi momento dal contratto con preavviso di almeno sei mesi da comunicarsi con lettera raccomandata. In caso di morte del conduttore, gli succedevano nel contratto il coniuge, gli eredi e i parenti e affini con lui abitualmente conviventi. Tale legge conteneva, altresì, i criteri di ripartizione delle spese condominiali, fatti salvi dalla nuova disciplina, nonché la normativa relativa alla locazione di immobili urbani adibiti ad uso diverso da quello di abitazione (locazioni non abitative), tuttora in vigore per le parti non abrogate dalla nuova legge.Successivamente è stata introdotta la disciplina dei cosiddetti “patti in deroga” con le norme contenute nel decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito in legge, con modificazioni, dall’art.
1, L. 8 agosto 1992, n. 359. 


Con tale tipo di rapporto, a fronte della corresponsione di un canone di locazione maggiore rispetto a quello “equo”, è stata prevista una durata del contratto più lunga, di quattro anni più altri quattro alla prima scadenza ed è stata introdotta l’assistenza, da parte delle organizzazioni della proprietà edilizia e dei conduttori maggiormente rappresentative a livello nazionale, tramite le loro organizzazioni provinciali, nella stipula degli accordi in deroga alle norme della citata Legge n. 392 del 1978. La crisi dell’istituto locativo si è tuttavia acuita soprattutto in conseguenza delle difficoltà incontrate dai proprietari per rientrare in possesso del bene locato alla naturale scadenza del contratto in quanto solo una percentuale minima dei locatari è pronta a riconsegnare l’immobile al tempo prefissato nel contratto. La pressione dell’opinione pubblica sulle forze politiche ha fatto sì che l’esecuzione dei provvedimenti di rilascio per finita locazione di immobili adibiti o meno a uso di abitazione sia stata più volte sospesa per mezzo di numerosi provvedimenti legislativi. Tale situazione ha segnato il punto di inizio per una ormai indilazionabile riforma del sistema. 


La riforma si è concretizzata nel 1998 con l’approvazione della Legge 9 dicembre 1998, n. 431 e si è ispirata, tra l’altro, alla necessità di rivitalizzare un mercato che da troppi anni ristagnava a causa della mancanza di sufficiente offerta di immobili ad uso abitativo, dovuta soprattutto, come già detto, alle difficoltà, per i proprietari, di rientrare nella disponibilità dell’appartamento alla scadenza del contratto. 
Per cercare di raggiungere tale risultato il Parlamento ha seguito una strada a prima vista diversa rispetto ai principi ispiratori della legge del 1978, prevedendo la possibilità di liberalizzazione del canone locatizio (contratto libero o di primo canale), la certezza della durata del rapporto e anche alcuni incentivi di natura fiscale, nel solo caso - però - che il locatore aderisca alla stipula di contratti-tipo con fissazione di un canone prestabilito sulla base di appositi accordi - definiti in sede locale tra le organizzazioni della proprietà edilizia e le organizzazioni dei conduttori maggiormente rappresentative - che tengano conto di parametri oggettivi , quale per esempio la rendita catastale dell’immobile (contratto regolamentato o concordato o di secondo canale). 
Quanto alla durata , per i contratti liberi, è stabilita in quattro anni più altri quattro, salvo alcuni casi espressamente stabiliti dalla legge. Nel caso di contratti regolamentati la durata è di tre anni, più due, nel caso in cui, alla prima scadenza, le parti non concordino sul rinnovo. Viene previsto inoltre un tipo di contratto di natura transitoria, volto a soddisfare particolari esigenze delle parti, e con durata anche inferiore ai limiti suddetti. Per favorire la stipula di contratti regolamentati il legislatore ha previsto tutta una serie di agevolazioni di carattere fiscale: esse riguardano, in sintesi, la facoltà per i comuni di diminuire, a carico del proprietario, l’aliquota dell’imposta comunale sugli immobili (ICI) e la riduzione di IRPEF, IRPEG e imposta di registro.

Altra non meno importante novità è l’introduzione dell’obbligo della forma scritta per la stipula di contratti di locazione validi. Tale innovazione è stata resa indispensabile per evitare, o quanto meno ridurre, i casi in cui vengono stipulati contratti di locazione “mascherati” sotto forma di altri contratti e quindi per evitare l’aggiramento delle norme di legge ed è volta a stabilire in modo chiaro e certo la sussistenza del rapporto locatizio. La legge prevede, in caso di sua inosservanza, la reductio ad aequitatem del rapporto, con applicazione del canone del “contratto regolamentato”. Non rientrano invece nell’ambito di applicazione della nuova legge, e sono quindi restituite alla regolamentazione delle norme del Codice Civile, le locazioni degli immobili vincolati ai sensi della Legge 1° giugno 1939, n. 1089 (le cui norme sono ora contenute nel D.L. n. 490/1999), le abitazioni di tipo signorile e le abitazioni in ville, mentre si applica la normativa vigente in materia, statale e regionale, per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica. Vi è inoltre un altro gruppo di immobili, che il legislatore ha considerato a parte, vista la loro peculiare destinazione, nei quali vanno ricompresi gli alloggi destinati esclusivamente a finalità turistiche e quelli destinati a soddisfare esigenze abitative di carattere transitorio in cui gli enti locali figurano in qualità di conduttori. 

 

La legge n. 431 del 1998, inoltre, contiene misure volte a combattere l’evasione fiscale, che è stata finora piuttosto alta, sui redditi derivanti da rapporti di locazione: viene infatti stabilita quale conditio sine qua non per la messa in esecuzione del provvedimento di rilascio dell’immobile, la dimostrazione da parte del locatore, della registrazione del contratto, della denuncia dell’immobile ai fini ICI e delle dichiarazione, ai fini IRPEF, del reddito derivato dal contratto stesso. Tale dimostrazione dovrà essere soddisfatta con l’indicazione, nel precetto di rilascio, degli estremi delle operazioni relative a ciascuna condizione. 
Con la nuova legge “sugli affitti” si è inoltre cercato, facendo leva su agevolazioni di carattere fiscale, di far emergere tutta quella serie di rapporti che fino ad oggi non venivano dichiarati al fisco. Il legislatore ha dapprima anticipato, al periodo di imposta 1999, la detrazione ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, riconosciuta ai conduttori di immobili utilizzati come abitazione principale, con il Decreto Legislativo 17 agosto 1999, n. 327, che rapporta la detrazione spettante al periodo di durata del contratto di locazione; la conseguenza di ciò è la decadenza del conduttore dal diritto di fruire della detrazione per tutto il periodo in cui non adibisca l’immobile ad abitazione principale. La detrazione di imposta riconosciuta dal Decreto n. 327 suddetto è però riservata ai soli conduttori con contratto a canone cosiddetto convenzionato e la misura della detrazione è rapportata al reddito complessivo del conduttore e non è prevista nel caso di redditi superiori ai sessanta milioni di lire.

 

Con l’approvazione della Convenzione Nazionale sono stati individuati i criteri generali che costituiscono la base per la realizzazione di appositi accordi da predisporre in sede locale ai fini della definizione dei canoni di locazione. Conclusa a Roma il giorno 8 febbraio 1999, nella sede del Ministero dei lavori pubblici, i criteri in essa previsti sono stati formalizzati nel Decreto Ministeriale 5 marzo 1999; a livello locale vengono previste aree omogenee determinate attraverso vari parametri quali il valore di mercato, la dotazione infrastrutturale (trasporti pubblici, aree verdi, servizi scolastici, attrezzature commerciali ecc.), i tipi di costruzione, evidenziando zone di particolare pregio o di degrado. 
Tutto ciò contribuirà alla determinazione del canone effettivo che oscillerà dunque tra un valore minimo e massimo determinato alla luce dei criteri suddetti.La nuova legge ha comunque regolato soltanto le locazioni ad uso abitativo; le locazioni non abitative (industriali, professionali, commerciali, artigianali, turistiche ed altre attività particolari) continuano ad essere disciplinate dalle vecchie norme contenute nel Codice Civile e nella Legge 392 del 1978.In conclusione, si ritiene utile la conoscenza delle norme che regolano la materia procedurale in questo ambito

 

 

 

 


2 - LOCAZIONI ABITATIVE

 

La nuova disciplina delle locazioni abitative è stata stabilita dalla Legge n. 431/1998.
Dopo aver scelto e firmato il contratto di locazione ad uso abitativo, occorre effettuare tutta una serie di operazioni affinché tale atto si perfezioni e tutto vada a buon fine. Alcune di queste operazioni sono (con alcune eccezioni) obbligatorie (registrazione, deposito cauzionale), altre facoltative (verbali di consegna e riconsegna dell'immobile, disdetta; il rinnovo è automatico). Per gli affitti superiori a 30 giorni, il proprietario deve provvedere a effettuare la denuncia di cessione del fabbricato presso il competente Commissariato di Polizia entro 48 ore dall'insediamento dell'inquilino, in base a quanto previsto dalla Legge n. 59/1978 sull'antiterrorismo. Inoltre è sempre consigliabile che l'inquilino acquisisca ogni prova documentale che dimostri la reale situazione di uso abitativo (per esempio, la documentazione anagrafica, l'attestato di lavoro, il permesso di soggiorno o altro) e che si intesti tutte le utenze domestiche, ovvero, luce, gas, acqua e telefono. In questo modo, l'inquilino potrà provvedere a saldare le bollette direttamente agli enti erogatori, senza bisogno di rivolgersi al padrone di casa.


È possibile avvalersi della prestazione di un mediatore anche per l'affitto di una casa. L'agente immobiliare impiegato presso un'agenzia operante sul territorio è senz'altro la figura più indicata per la ricerca dell'immobile più congeniale alle specifiche esigenze abitative relative alle diverse tipologie di clientela. Il mediatore (Legge n. 39/1989) ha diritto a una provvigione che può essere calcolata con tre criteri diversi, tutti leciti: una mensilità del canone d'affitto (che si riduce alla metà se il contratto è di durata pari o inferiore a sei mesi); il 5% del canone annuo di locazione (che rappresenta il sistema ufficiale, raccomandato dalla Camera di commercio); una somma diversa stabilita in precedenza con atto sottoscritto dalle parti. A questo proposito occorre sottolineare che l'aver sottoscritto accordi più dispendiosi rispetto alle somme riportate sopra comporta comunque il rispetto degli accordi. Nei casi controversi, se non è presente alcun accordo scritto, il giudice tenderà ad applicare la provvigione del 5%. La registrazione del contratto è prevista per legge (Testo unico n. 131/1986) ed è resa obbligatoria per tutti i contratti, indipendentemente dall'ammontare dell'affitto annuo. L'unica eccezione è rappresentata dai contratti con durata inferiore a 30 giorni.
Per assicurarsi che l'inquilino riceva l'immobile in buono stato e alla scadenza del contratto lo riconsegni nelle stesse condizioni, si può fare affidamento sui verbali di consegna e di riconsegna dell'immobile. È lo stesso Codice Civile che ne prevede la stesura: "il conduttore deve restituire la cosa al locatore nel medesimo stato in cui l'ha ricevuta, in conformità alla descrizione che ne sia stata fatta dalle parti, salvo il deterioramento o il consumo risultante dall'uso della cosa in conformità del contratto. In mancanza di descrizione si presume che il conduttore abbia ricevuto la cosa in buono stato di manutenzione" (art. 1590). 


Dunque, l'inquilino non è responsabile per i normali deterioramenti dovuti all'usura, mentre dovrà ripagare gli eventuali danni straordinari causati da cattiva manutenzione o da trascuratezza. Il verbale di consegna è contemplato negli affitti regolati, infatti tutti i tre i facsimili di contratto lo prevedono esplicitamente. D'altra parte, anche prima della riforma, il verbale di consegna era usato comunemente, soprattutto negli affitti di immobili arredati o per uso transitorio. In entrambi i casi, infatti, sia per la presenza di mobili appartenenti al proprietario, sia per il ricambio continuo e frequente di inquilini, è di primaria importanza la presenza di un atto scritto nel quale vengano annotate tutte le componenti dell'immobile e la descrizione dello stesso.
In ogni caso, completare il contratto d'affitto con il verbale di consegna si rivela molto utile, in quanto consente di mettere al riparo sia il proprietario sia l'inquilino da inutili polemiche successive sullo stato di manutenzione. In caso di contestazioni, infatti, se il verbale non è stato redatto, si procederà ad accertare presuntivamente le condizioni originarie. E questo, oltre a costituire un accertamento di difficile attuazione, può risultare sfavorevole anche per l'inquilino, che può essere condannato a risarcire dei danni che in realtà non sono stati provocati da lui, ma che erano già presenti nell'immobile.Al momento della scadenza del contratto le parti possono redigere un nuovo verbale, quello di riconsegna, nel quale si descrive lo stato dell'immobile dopo l'uso da parte dell'inquilino. I verbali di consegna e riconsegna devono essere firmati contestualmente da proprietario e inquilino.Per garantire il proprietario circa il rispetto del contratto d'affitto è stato previsto il versamento a inizio contratto di un deposito cauzionale (Legge n. 392/1978, art. 11), da riottenere (con gli interessi) alla scadenza. Anche se nessuna legge prevede norme in relazione a tale argomento, è prassi ormai consolidata iniziare a pagare il canone relativo al primo mese all'inizio della durata del contratto. 

È consentito inoltre che il proprietario effettui delle visite periodiche presso l'immobile locato. Infatti, mentre questi deve consegnare e mantenere la casa in buono stato di manutenzione, l'inquilino deve prendere in consegna l'immobile e farne un uso corretto. La verifica di questi obblighi è lasciata al libero accordo delle parti. Ma, proprio per evitare problemi al riguardo, spesso le associazioni di categoria hanno introdotto nei contratti clausole per consentire al proprietario di visitare l'immobile almeno una volta l'anno, previo accordo con l'inquilino e con una comunicazione scritta. Nei contratti sprovvisti di tale clausola sarà comunque utile trovare un accordo al riguardo, poiché il fatto di poter visitare la propria casa costituisce uno specifico diritto del proprietario (norma stabilita in conseguenza di una sentenza della Cassazione). Inoltre, l'inquilino deve consentire la visita dell'immobile una volta la settimana per almeno due ore durante gli ultimi sei mesi d'affitto, per agevolare l'attività di ricerca di nuovi inquilini. Queste visite di tipo commerciale sono possibili durante l'intero rapporto d'affitto in caso di messa in vendita dell'appartamento.
Dunque, in un corretto rapporto proprietario/inquilino, il proprietario chiederà all'inquilino, per iscritto o telefonicamente, in che giorno e in quale ora egli possa accedere alla casa per visitarla al fine di sincerarsi dello stato di manutenzione o anche per mostrarla a terzi interessati all'acquisto o all'affitto.

Normativa locazioni abitative

Dal 30 dicembre 1998 è in vigore la nuova normativa relativa alle locazioni di immobili adibiti ad uso abitativo stabilita dalla Legge 9 dicembre 1998, n. 431. 
Le principali novità sono costituite dalla previsione:
- della forma scritta del contratto di locazione, a pena di invalidità; 
- di due tipi di contratti: uno "libero", l'altro basato su contratti "tipo" elaborati dalle organizzazioni dei proprietari e degli inquilini; 

- di benefici fiscali per il locatore e il conduttore.

La nuova disciplina stabilisce l’abrogazione espressa, tra l’altro:
- di numerosi articoli della Legge 27 luglio 1978, n. 392 (cosiddetta legge sull'equo canone), limitatamente alle locazioni abitative; 
- dell’art. 11 del D.L. 11 luglio 1992, n. 333 (cosiddetta. legge sui patti in deroga). 

I contratti e i giudizi dinanzi alla Magistratura riguardanti rapporti di locazione sorti precedentemente all'entrata in vigore della legge e cioè prima del 30 dicembre 1998 seguiteranno ad essere disciplinati e regolati dalle norme vigenti al momento della stipula. Questo significa che gli inquilini potranno per tutto il periodo di futura validità di questi contratti, e fino alla loro prossima scadenza, avvalersi dei diritti stabiliti dalle leggi 392/78 (equo canone) e 359/92 (patti in deroga). In particolare potranno essere ricondotte con azione specifica all'equo canone tutte le situazioni di contratti simulati, variamente sorte in violazione di norme imperative su misura degli affitti, durata e altri diritti dell'inquilino. 


Alla scadenza della loro durata naturale, tutti i vecchi contratti, se non saranno disdettati, diventeranno tacitamente contratti di quattro anni rinnovabili automaticamente per altri quattro. Ovviamente anche tutte le cause in corso davanti al Magistrato, per esempio per la determinazione dell'equo canone, saranno decise sulla base della precedente normativa dettata dalla L. 392/78.

La Legge n. 431/1998 è entrata in vigore il 30 dicembre 1998.
Le nuove disposizioni si applicano ai contratti di locazione di immobili adibiti ad uso abitativo stipulati o rinnovati dopo il 30 dicembre 1998.
Le nuove disposizioni non si applicano alle locazioni riguardanti (art. 1.2):
- immobili vincolati ai sensi della Legge 1 giugno 1939, n. 1089 (le cui norme sono ora contenute nel
D.L. n. 490/1999) o inclusi nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9; 
- alloggi di edilizia residenziale pubblica; 
- locazioni esclusivamente per finalità turistiche. 
A partire dal 30 dicembre 1998 per la stipula di validi contratti di locazione è richiesta la forma scritta (art 1.4).
Ai sensi dell’art. 2.1, le parti possono stipulare contratti di locazione (cosiddetti "liberi"o di "primo canale") di durata non inferiore a 4 anni, decorsi i quali sono rinnovati per un periodo di altri 4 anni, salvo i casi in cui il locatore intenda:
- destinare l'immobile ad uso abitativo, commerciale, artigianale o professionale proprio, del coniuge, dei genitori, dei figli o dei parenti entro il secondo grado; 
- effettuare lavori di ristrutturazione, demolizione o radicale trasformazione dell'intero stabile; 
- vendere l'immobile a terzi. 
Alla seconda scadenza del contratto:
- ciascuna delle parti può comunicare all'altra, con raccomandata, le condizioni per il rinnovo o la relativa rinuncia; 
- in assenza di comunicazioni delle parti, si ha il rinnovo tacito alle medesime condizioni. 

La disciplina dell’art. 2.1 si applica anche ai contratti di locazione stipulati prima del 30 dicembre 1998 che si rinnovino tacitamente (art. 2.6).
Ai sensi dell’art. 2, commi 3 e
5, in alternativa ai contratti "liberi", le parti possono stipulare contratti di locazione definendo il valore del canone, la durata e altre condizioni contrattuali sulla base di quanto stabilito in appositi accordi definiti tra le organizzazioni dei proprietari e dei conduttori maggiormente rappresentative (cosiddetti contratti "tipo" o di "secondo canale") .
Tali contratti devono avere durata non inferiore a tre anni, prorogati di diritto per altri due, salva la facoltà di disdetta del locatore nei casi già indicati per i contratti "liberi".
Alla seconda scadenza del contratto:
- si ha il rinnovo tacito alle medesime condizioni, in assenza di comunicazioni delle parti; 
- ciascuna delle parti può comunicare all'altra, con raccomandata, le condizioni per il rinnovo o la relativa rinuncia. 
L’art. 2.4 prevede che, per favorire gli accordi, i comuni possono deliberare:
- aliquote ICI più favorevoli, anche inferiori a quelle minime, per i proprietari che locano alle condizioni definite dagli accordi stessi; 
- l’aumento dell'aliquota ICI massima fino a due punti (cioè, attualmente, fino al 9 ‰) per gli immobili non locati da almeno due anni. 
Alla prima scadenza del contratto, il locatore può disdettarlo, dandone comunicazione al conduttore con almeno sei mesi di preavviso, per i seguenti principali motivi (art. 3.1):
- il locatore intenda destinare l'immobile ad uso abitativo, commerciale, artigianale o professionale proprio, del coniuge, dei genitori, dei figli o dei parenti entro il secondo grado; 
- il conduttore abbia la piena disponibilità di un alloggio libero e idoneo nello stesso comune; 
- l'immobile sia compreso in un edificio gravemente danneggiato e debba essere ricostruito o assicurata la sua stabilità; 
- il locatore intenda effettuare lavori di ristrutturazione, demolizione o radicale trasformazione dell'intero stabile; 
- il conduttore non occupi continuativamente l'immobile senza giustificato motivo; 
- il locatore intenda vendere l'immobile a terzi e non abbia la proprietà di altri immobili ad uso abitativo oltre a quello eventualmente adibito a propria abitazione. 
Nella comunicazione di disdetta deve essere specificato, a pena di nullità, il motivo sul quale si fonda.
Al conduttore è riconosciuto il diritto di prelazione in caso di:
- vendita dell'immobile (art. 3.1 lett. g); 
- locazione dopo la conclusione dei suddetti lavori di ristrutturazione, trasformazione ecc. (art. 3.2) 
In caso di illegittimo esercizio della facoltà di disdetta, il conduttore ha diritto al risarcimento del danno o al ripristino del rapporto di locazione (art. 3, commi 3 e 5).
Il conduttore può invece recedere in qualsiasi momento dal contratto, qualora ricorrano gravi motivi, dando comunicazione al locatore con preavviso di sei mesi (art. 3.6).
I proprietari che locano immobili nei comuni ad alta tensione abitativa, sulla base dei contratti "tipo", beneficiano:
- di un'ulteriore riduzione del 30% del reddito dell'immobile, determinato ai sensi dell'art. 34 del Tuir; 
- dell'applicazione dell'imposta di registro sui corrispettivi annui nella misura minima del 70% (art. 8.1). 
Per usufruire dei benefici, il locatore deve indicare nella dichiarazione dei redditi gli estremi di registrazione del contratto di locazione (ove obbligatorio) e quelli della denuncia dell'immobile ai fini ICI (art. 8.2).
Tali agevolazioni non si applicano ai contratti di locazione per esigenze abitative di natura transitoria, fatta eccezione per quelli a favore di studenti universitari o stipulati da enti locali (art. 8.3).
Con una modifica all’art. 23.1 del TUIR, viene stabilito che i redditi derivanti da contratti di locazione di immobili ad uso abitativo, se non percepiti, non concorrono a formare il reddito dal momento di conclusione del procedimento giurisdizionale di convalida di sfratto per morosità del conduttore.
Inoltre, per le imposte versate sui canoni venuti a scadenza e non percepiti, come accertato nell'ambito del procedimento di convalida di sfratto per morosità, è riconosciuto un credito d'imposta di pari ammontare (art. 8.5).


Con i provvedimenti "collegati" alla manovra finanziaria del triennio 2000-2002 sarà concessa una detrazione IRPEF a favore dei conduttori:
- di alloggi adibiti ad abitazione principale, 
- appartenenti a determinate categorie di reddito (art. 10). 
Mediante un Fondo nazionale a sostegno dei conduttori, gli stessi possono ottenere contributi per il pagamento dei canoni di locazione.
I contributi sono concessi a condizione che il conduttore dichiari che il contratto di locazione è stato registrato (ove obbligatorio) e non sono cumulabili con le detrazioni IRPEF previste dall'art. 10 (art. 11). 
Ai sensi dell’art. 13, è nulla ogni pattuizione volta a:
- determinare un importo del canone di locazione superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato; 
- attribuire al locatore, per i contratti "tipo", un canone superiore a quello massimo definito dai relativi accordi; 
- derogare i limiti di durata del contratto stabiliti dalla presente legge. 
Il conduttore può richiedere:
- la restituzione delle somme corrisposte in misura superiore, entro sei mesi dalla riconsegna dell'immobile locato; 
- la riconduzione della locazione a condizioni conformi.


3 - LA REGISTRAZIONE- IL RINNOVO - IL DEPOSITO CAUZIONALE - LA DENUNCIA DI CESSIONE DEL FABBRICATO

 

 

La registrazione del contratto di locazione è obbligatoria per tutti i contratti, indipendentemente dall'ammontare dell'affitto annuo, con la sola eccezione dei contratti con durata inferiore a 30 giorni.


Vediamo brevemente quali sono le modalità mediante le quali è possibile effettuare la registrazione. Dal primo gennaio 1998 tutti i contratti di locazione devono essere "obbligatoriamente" registrati entro 20 giorni dalla firma del contratto stesso o dalla data della sua decorrenza economica, se precedente. Per esempio, se l'inquilino è andato ad abitare nell'immobile il primo gennaio, ma il contratto è stato sottoscritto il 10 gennaio, la decorrenza dei 20 giorni utili per la registrazione non scatta dal 10 gennaio (data della firma), ma dal primo del mese.

In caso di registrazione effettuata in ritardo, la legge prevede il pagamento di una mora (entro 30 giorni, il 15% in più dell'importo dovuto più gli interessi legali attualmente al 2,5%; oltre i 30 giorni, il doppio dell'importo iniziale più gli interessi legali).

In genere, è il proprietario a effettuare la registrazione in qualsiasi Ufficio del registro (Imposte dirette), previo pagamento del bollettino presso banche, esattorie o uffici postali (dal primo gennaio 1998 non è più in funzione lo sportello cassa dell'Ufficio del registro). La ricevuta del versamento sarà poi esibita all'Ufficio del registro insieme ai seguenti atti: l'originale e una copia del contratto, ciascuno con una marca da bollo da 20.000 lire (è comunque consigliabile predisporre tre copie, in modo che, oltre a quella dell'ufficio, ne rimanga una per il proprietario e una per l'inquilino); il modello 69 compilato (disponibile presso l'Ufficio del registro); il modello A8 riepilogativo dei contratti che si presentano per la registrazione.


Solo a questo punto può dirsi concluso l'iter della registrazione. Per quanto riguarda il versamento dell'imposta di registro relativa alle annualità successive alla prima, gli interessati devono utilizzare l' apposito modello F23 da presentare alla posta o in banca. Non occorre tornare all'Ufficio del registro a meno che non si debba notificare una proroga o la risoluzione del contratto. È importante sottolineare, infine, che l'imposta deve essere pagata dalle parti contraenti in ugual misura (50% a testa), ma allo stesso tempo il proprietario e l'inquilino sono obbligati in solido al pagamento. Ciò significa che lo Stato può richiedere l'intero importo dell'imposta anche solo a uno degli interessati, il quale sarà obbligato a versarlo, salvo, poi, riottenere la metà dall'altro.

IL RINNOVO

Se di un contratto ad uso abitativo non viene data disdetta nei tempi previsti, lo stesso si rinnova automaticamente per tempi diversi, a seconda del tipo di contratto. Occorre fare particolare attenzione ai vecchi contratti in corso stipulati prima della nuova legge, perché, a parte il rinnovo automatico per altri quattro anni del patto in deroga alla prima scadenza, negli altri casi (equo canone e patto in deroga alla seconda scadenza), se non viene notificata la disdetta del contratto, quest'ultimo entra nel regime della nuova legge con durata quattro anni più quattro di rinnovo.

IL DEPOSITO CAUZIONALE

Circa il rispetto del contratto d'affitto, a garanzia del proprietario la Legge n. 392/1978 ha previsto l'esistenza del cosiddetto deposito cauzionale, una cifra che l'inquilino deve versare a inizio contratto e che riotterrà con gli interessi legali (attualmente il 2,5%) alla scadenza, se le clausole del contratto sono state rispettate. Secondo la prassi più comune, il deposito cauzionale è pari a due mensilità se la locazione è a uso abitativo, a tre mensilità se è a uso diverso. La nuova Legge n. 431/1998 prevede che per i contratti regolati non sia superiore a tre mensilità.


In genere, gli interessi legali sono corrisposti all'inquilino alla fine del rapporto di locazione, insieme alla restituzione del deposito. Ciò non toglie che l'inquilino, avendone diritto, possa richiedere gli interessi di anno in anno. È buona regola per il conduttore acquisire la prova del reale pagamento della somma a deposito (attraverso le ricevute di versamento o di accrediti in banca, le matrici di assegni ecc.) così come delle cifre sostenute per l'affitto o per le spese condominiali.


La restituzione del deposito cauzionale deve avvenire al momento del rilascio dell'immobile.

 

LA DENUNCIA DI CESSIONE DEL FABBRICATO

Si tratta di una pratica burocratica (prevista dalla legge antiterrorismo) di competenza del proprietario di un immobile: quando quest'ultimo decide di affittare, vendere o comunque cedere il bene di sua proprietà è obbligato a farne, entro 48 ore, la denuncia in Questura. È necessario compilare un foglio in duplice copia (una per la questura, una per l'autorità locale di pubblica sicurezza) in cui riportare i propri dati, quelli dell'inquilino e quelli dell'immobile. Occorre quindi ricordarsi di chiedere all'inquilino copia dei documenti di identità validi con relativo numero e data di rilascio (è sufficiente fare la fotocopia fronte-retro della carta d'identità).


Per effettuare la presentazione materiale della denuncia non esiste una regola univoca e precisa. In alcune città la si presenta direttamente all'Ufficio della Questura competente per territorio, nelle piccole città o nei paesi la si può presentare alla Polizia Municipale oppure all'Ufficio Anagrafe o a quello Protocollo del Comune in cui è situato il proprio immobile. Se si risiede lontano, è possibile spedirla anche per posta, tramite raccomandata con ricevuta di ritorno.

 

4 - LOCAZIONI NON ABITATIVE

Le locazioni non abitative sono regolate da norme diverse rispetto a quelle previste per le abitazioni. La nuova legge sulle locazioni (n. 431/1998), infatti, non si riferisce a questo tipo di immobili, che pertanto continuano ad essere disciplinati dalla legge sull'equo canone (n. 392/1978). L'art. 27 di tale legge individua alcune tipologie di rapporti locativi non abitativi al fine precipuo di determinare la durata minima del relativo contratto. Tale disposizione contempla innanzi tutto le locazioni di immobili da adibire ad attività industriali, commerciali e artigianali, alle attività di interesse turistico, comprese nell'art. 2 della Legge 12 marzo 1968, n. 326, e all'esercizio abituale e professionale di qualsiasi attività di lavoro autonomo (sono da considerare inoltre anche le locazioni di immobili adibiti ad attività particolari). Le tipologie contrattuali più frequenti e ricorrenti nella pratica sono quelle legate alle attività industriali, commerciali e artigianali. La nozione delle attività in parola si ricava dal Codice Civile e dalle leggi speciali. La normativa sull'equo canone disciplina quindi anche il diritto di prelazione e riscatto, la sublocazione e la cessione del contratto e la successione nel contratto.

 

Locazioni commerciali

Per la regolamentazione delle locazioni commerciali si adottano norme differenti rispetto a quelle previste per le abitazioni. La nuova legge sulle locazioni (n. 431/1998), infatti, non si riferisce a questo tipo di contratti, che pertanto continuano ad essere disciplinati dalla legge sull'equo canone (n. 392/1978). 
La definizione di attività commerciale in senso stretto, quella che il Codice Civile chiama "attività intermediaria nella circolazione dei beni", si ricava dalla Legge 11 giugno 1971, n. 426, intitolata "Disciplina del Commercio".L'art. 1 della tale legge dispone, tra l'altro: "....Agli effetti della presente legge, esercita: 1) l'attività di commercio all'ingrosso, chiunque professionalmente acquista merci a nome e per conto proprio e le rivende ad altri commercianti, grossisti o dettaglianti o utilizzatori professionali o ad altri utilizzatori in grande. Tale attività può assumere la forma di commercio interno di importazione o di esportazione; 2) l'attività di commercio al minuto, chiunque professionalmente acquista merci a nome e per conto proprio e le rivende, in sede fissa o mediante altre forme di distribuzione, direttamente al consumatore finale; 3) l'attività di somministrazione di alimenti o bevande, chiunque professionalmente somministra, in sede fissa o mediante altra forma di distribuzione, alimenti o bevande al pubblico". Lo stesso articolo precisa poi che è vietato esercitare congiuntamente, nello stesso punto vendita, le attività di commercio al minuto e all'ingrosso (salve alcune eccezioni specificamente elencate dalla norma) e che le merci possono essere rivendute sia nello stato in cui sono state acquistate sia dopo che siano state sottoposte ad abituali trattamenti o modificazioni.
È molto utile conoscere i punti-cardine dei contratti d'affitto commerciali.
Il contratto dura sei anni (nove nel caso di alberghi) ed è rinnovabile automaticamente (ma solo alla prima scadenza) di altri sei (o nove), a meno che non siano presenti situazioni tali da rendere possibile il rifiuto del rinnovo da parte del proprietario.
L'importo del canone viene fissato liberamente all'inizio del rapporto d'affitto e può essere rivisto solo alla scadenza del contratto, se si intende rinnovarlo. L'aggiornamento annuale del canone non è automatico come nelle locazioni abitative, ma si verifica solo se è stato espressamente previsto nell'accordo (in ogni caso, il ritocco deve essere contenuto all'interno del 75% dell'indice ISTAT di variazione del costo della vita).
La disdetta va inviata 12 mesi prima della scadenza per i contratti a sei anni e 18 mesi prima per i contratti della durata di nove anni. Al primo rinnovo, la disdetta può essere inviata solo se ricorre uno dei seguenti casi: 
- il proprietario desidera adibire i locali affittati a propria abitazione; 
- il proprietario vuole svolgervi un'attività o intende demolire la costruzione.
Gli immobili presso i quali hanno sede attività che prevedono un contatto diretto con il pubblico (per esempio, negozi o botteghe artigiane) godono di alcuni diritti speciali, come la prelazione dell'inquilino in caso di vendita dell'immobile (una possibilità che non esiste nei contratti abitativi), la possibilità di cedere il contratto e quella di sublocare l'immobile, se ceduto insieme all'azienda.
Infine, l'inquilino che è stato privato dei locali che aveva preso in affitto ha diritto a una indennità d'avviamento pari a 18 mensilità (21 per gli alberghi), oltre a una indennità integrativa se da chiunque altro, in quegli stessi locali, viene svolta la sua medesima attività (Legge n. 392/1978).
A seconda del contratto, le locazioni possono essere assoggettate ad IVA o ad imposta di registro, tasse pagate in ogni caso dall'inquilino.

Locazioni industriali

Relativamente all'attività industriale, l'art. 2195 del Codice Civile, al n 1, definisce tale attività "diretta alla produzione di beni e servizi".
La disposizione si riferisce innanzi tutto ad ogni attività, di carattere non agricolo e non artigiano, volta alla trasformazione della materia, oltre a tutte quelle attività che, non comportando trasformazione della materia, si risolvono nella creazione e, quindi nella fornitura, di un servizio (si pensi alle imprese di leasing, a quelle di factoring, alle case di cura, agli istituti di istruzione, alle imprese di trasporto, a quelle assicurative ecc.).
Come per le locazioni di natura commerciale, la legge che disciplina i contratti d'affitto industriali, non abitativi, è quella sull'equo canone (Legge n. 392/1978).

Locazioni artigiane

Anche per l'impresa artigiana esiste una definizione legale. La normativa vigente definisce artigiana l'impresa che abbia per scopo prevalente lo svolgimento di un'attività di produzione di beni, anche semilavorati, o di prestazioni di servizi, escluse le attività agricole e le attività di prestazione di servizi commerciali, di intermediazione nella circolazione dei beni o ausiliarie di queste ultime, di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, salvo il caso che siano solamente strumentali e accessorie all'esercizio dell'impresa.
È artigiana l'impresa che è costituita ed esercitata in forma di società, anche cooperativa, escluse le società a responsabilità limitata e per azioni e in accomandita per azioni, a condizione che la 
maggioranza dei soci, ovvero uno nel caso di due soci, svolga in prevalenza lavoro personale, anche manuale, nel processo produttivo e che nell'impresa il lavoro abbia funzione preminente sul capitale.
È, altresì, artigiana l'impresa che:
a) è costituita ed esercitata in forma di società a responsabilità limitata con unico socio, sempre che il socio unico sia in possesso dei requisiti indicati dalla legge e non sia unico socio di altra società a responsabilità limitata o socio di una società in accomandita semplice;
b) è costituita ed esercitata in forma di società in accomandita semplice, sempre che ciascun socio accomandatario sia in possesso dei requisiti indicati dalla legge e non sia unico socio di una società a responsabilità limitata o socio di altra società in accomandita semplice.
In caso di trasferimento per atto tra vivi della titolarità delle società, l'impresa mantiene la qualifica di artigiana purché i soggetti subentranti siano in possesso dei requisiti previsti dalla legge.
L'impresa artigiana può svolgersi in luogo fisso, presso l'abitazione dell'imprenditore o di uno dei soci o in appositi locali o in altra sede designata dal committente oppure in forma ambulante o di posteggio. In ogni caso, l'imprenditore artigiano può essere titolare di una sola impresa artigiana".
Le locazioni di questi tipo sono regolate dalla Legge n. 392/1978 sull'equo canone alla stregua di quelle di natura commerciale.

Locazioni di immobili adibiti ad Attività abituale e professionale di lavoro autonomo

Nella definizione di "attività abituali e professionali di lavoro autonomo" si intendono comprese tutte quelle attività lavorative autonome, diverse da quelle "imprenditoriali" di carattere commerciale, artigianale e industriale, che vengano svolte professionalmente, cioè in modo non episodico e occasionale, ma con abitualità. Le attività libero-professionali, infatti, non sono considerate dalla legge "imprenditoriali", fatta salva l'ipotesi di cui all'art. 2238 del Codice Civile, il quale qualifica imprenditoriale l'esercizio della professione che costituisca solo uno degli elementi di un'attività organizzata in forma di impresa (l'esempio classico è quello del medico che opera all'interno della clinica di cui è titolare).
La professionalità non presuppone necessariamente l'iscrizione del soggetto economico in albi, ruoli o registri, potendo la stessa ravvisarsi anche nel soggetto che svolga attività di tipo artistico o letterario (per esempio, gli studi dei pittori, degli scultori o degli scrittori). Inoltre, come è stato ribadito più volte dalla 
giurisprudenza, "né la lettera né lo spirito della legge consentono di escludere dal novero delle attività professionali di cui all'art. 27, Legge n. 392/1978 quelle che non siano rigorosamente liberali (avvocati, medici, ingegneri, ecc.), bensì siano di più recente organizzazione (quali quelle dei biologi, dei geologi, dei consulenti del lavoro, quelle cosiddette paramediche ecc.)".

Locazione di immobili adibiti ad attività particolari

La disciplina della Legge n. 392/1978 è applicabile anche alle locazioni di immobili utilizzati dal 
conduttore per l'esercizio di attività diverse da quelle previste dall'art. 27, caratterizzate dalla funzione "sociale" in senso lato delle attività stesse, ovvero dalla particolare natura soggettiva del conduttore. Rispetto alle locazioni di immobili nei quali si svolgono attività propriamente imprenditoriali, la tutela legale delle suddette locazioni è minore. L'art. 42 della Legge n. 392/1978 sull'equo canone dispone al riguardo che i contratti di locazione di immobili urbani adibiti ad attività ricreative, assistenziali, culturali e scolastiche, nonché a sede di partiti o di sindacati, e quelli stipulati dallo Stato o da altri enti pubblici territoriali in qualità di conduttori, hanno la durata di cui al primo comma dell'art.
27. A tali contratti si applicano le disposizioni degli artt. 32 e 41 della stessa legge. 
Le attività prese in esame dalla norma riportata sopra costituiscono una serie eterogenea di servizi in alcuni casi (attività ricreative e assistenziali) di ambito talmente indefinito da non consentire alcuna classificazione o una precisa individuazione. Anche la giurisprudenza ha peraltro interpretato la disposizione in maniera elastica e la casistica che ne risulta è quanto mai variegata.
L'esercizio di un impianto sportivo può rientrare nel novero delle attività ricreative solo nel caso in cui non abbia fine di lucro e le attività vengano organizzate ai fini della produzione di un servizio. 
L'esatta individuazione delle attività di tipo assistenziale è invece estremamente complicata. La dottrina e la giurisprudenza hanno riconosciuto la natura assistenziale di molteplici attività. La casistica, prodottasi soprattutto in giurisprudenza, è decisamente vasta. In alcuni casi siamo di fronte a 
un'interpretazione molto ampia della norma dell'art. 42 e alla stregua di tali interpretazioni è possibile riconoscere natura assistenziale alle attività svolte da molti enti e numerose associazioni di carattere pubblico o privato che operano nei più vari settori dei volontariato, dell'assistenza medica, della sicurezza sociale. 
La Cassazione ha ritenuto che fra i rapporti previsti dall'art. 42 si dovessero far rientrare "i contratti di locazione e sublocazione di immobili adibiti ad attività consolari (che) debbono ritenersi di natura assistenziale, atteso che a norma dell'art. 5 della Convenzione di Vienna i consolati in particolare prestano assistenza e soccorso alle persone nonché salvaguardano i minori e gli incapaci dello Stato di invio ".
Vi sono anche delle sentenze che pervengono a interpretazioni opposte della norma con riferimento alla medesima attività. 
In relazione alle attività culturali e, in particolare a quelle scolastiche, si rileva che l'attività didattica rientra nella previsione dell'art. 42 solo se viene svolta senza fine di lucro. Nel caso in cui, infatti, l'attività didattica venga organizzata in modo imprenditoriale, il fenomeno rientra nelle attività industriali o commerciali (è il caso, per esempio, anche dell'attività svolta dalle autoscuole).

 

5 - DIRITTO DI PRELAZIONE E DI RISCATTO

Sulla base del principio di salvaguardia delle attività produttive, la legge stabilisce per il conduttore di un immobile il diritto di prelazione sia sulla compravendita dell'immobile affittato, sia sulla nuova, eventuale locazione dello stesso. Tale diritto è sancito dagli articoli 38 e 40 della Legge n. 392/1978. L'art. 39 disciplina invece l'esercizio, da parte dell'inquilino, del diritto di riscatto dell'immobile venduto non rispettando la normativa sulla prelazione di cui all'art. 38.
Le uniche due eccezioni al principio affermato al primo comma dell'art. 38 (diritto di prelazione dell'inquilino) sono previste all'ultimo comma del suddetto articolo: il principio è inapplicabile nelle ipotesi di prelazione ereditaria prevista all'art. 732 del Codice Civile e nell'ipotesi di trasferimento effettuato a favore del coniuge o dei parenti entro il secondo grado.
Secondo i giudici di legittimità, la prelazione è inoltre esclusa allorquando il conduttore sia la pubblica amministrazione.
In relazione all'ambito di vigenza dell'articolo 38, occorre osservare in primo luogo che la prelazione spetta solo laddove il locatore (inteso come il proprietario) intenda trasferire l'immobile a titolo oneroso (si escludono quindi i trasferimenti a titolo gratuito, cioè le donazioni). Il trasferimento della proprietà deve peraltro essere volontario e non deve trattarsi di una vendita coatta. Un'altra ipotesi di esclusione si verifica quando il locatore decide di procedere alla permuta dell'immobile locato. Il diritto di prelazione non spetta neppure al conduttore fallito e quindi il locatore non è tenuto a inviare al conduttore stesso o al curatore fallimentare alcuna comunicazione ai fini dell'esercizio della prelazione.
Al fine di consentire al conduttore l'esercizio del diritto di prelazione, il locatore deve fornire all'inquilino una comunicazione formale in merito alla sua intenzione di vendere l'immobile. Tale comunicazione deve essere notificata tramite l'ufficiale giudiziario. Il contenuto della comunicazione è previsto al comma 2 dell'art. 38 della Legge n. 392/1978. Devono essere indicati: il corrispettivo della vendita, da quantificarsi in denaro, le altre condizioni alle quali la vendita dovrebbe essere conclusa (tempi per la stipula dei contratto definitivo e dell'eventuale preliminare, modalità e termini dei pagamento ecc.) e l'invito a esercitare o meno il diritto di prelazione. La mancanza delle indicazioni richieste dalla norma rende inefficace la comunicazione.
Se il conduttore intende esercitare il diritto di prelazione, deve fornire comunicazione di ciò al proprietario, notificandogli, a mezzo di Ufficiale Giudiziario, un apposito atto nel quale formalmente offre condizioni uguali a quelle che gli sono state comunicate. Il termine per esercitare tale diritto è, a pena di 
decadenza, di 60 giorni dalla ricezione della comunicazione dei proprietario (art. 38, comma 3).
Non si può considerare valida la dichiarazione di accettazione che contenga offerte differenti rispetto a quelle formulate dal proprietario. Il comma 4 dell'art. 38 stabilisce che "ove il diritto di prelazione sia esercitato, il versamento del prezzo di acquisto, salvo diversa condizione indicata nella comunicazione del locatore, deve essere effettuato nel termine di trenta giorni decorrenti dal sessantesimo giorno successivo a quello dell'avvenuta notificazione della comunicazione da parte del proprietario, contestualmente alla stipulazione del contratto di compravendita o del contratto preliminare".
I commi successivi del suddetto articolo stabiliscono norme relative ai casi in cui il diritto di prelazione competa a una pluralità di conduttori.
Oltre alla prelazione nel caso di vendita dell'immobile,
la Legge n. 392/1978 prevede la prelazione del conduttore ove il locatore intenda affittare a terzi l'immobile utilizzato a fini non abitativi. Tale diritto viene riconosciuto solo ai conduttori che esercitano, nei locali affittati, attività che comportano contatti diretti con il pubblico e matura alla seconda scadenza del contratto, cioè dopo che lo stesso si è rinnovato ex lege secondo le previsioni dell'art. 28 della legge n. 392/1978.
Non beneficia della prelazione il conduttore receduto dal contratto (anche se lo stesso si è risolto per inadempimento del conduttore medesimo) e l'inquilino sottoposto a procedura concorsuale. Complessivamente si tratta di una tutela legale (art. 40) molto blanda, comunque senz'altro meno incisiva della prelazione sull'acquisto dell'immobile. Infatti, gli obblighi del locatore che intenda affittare a terzi l'immobile si concretizzano essenzialmente nella comunicazione al conduttore delle offerte di affitto ricevute. In assenza di offerte l'obbligo in parola non sussiste. La norma si rivela quindi facilmente eludibile, considerato che per l'inquilino non è possibile sapere se effettivamente il locatore abbia ricevuto le offerte in questione.
Se il locatore riceve offerte di terzi che lo inducono a ritenere conveniente la nuova locazione dell'immobile è tenuto a comunicare tali offerte al conduttore, mediante raccomandata con avviso di ricevimento, almeno sessanta giorni prima della scadenza del contratto.
Qualora il conduttore intenda esercitare la prelazione sulla nuova locazione, deve, a sua volta, comunicare mediante raccomandata con avviso di ricevimento indirizzata al locatore la sua offerta (che deve essere uguale a quella che gli è stata comunicata dal locatore). L'offerta del conduttore deve pervenire al locatore entro 30 giorni dalla ricezione della comunicazione del locatore stesso.
L'inadempimento del locatore agli obblighi previsti dall'art. 40 comporta l'obbligo dei risarcimento del danno subito dal conduttore.
L'inquilino può rientrare nella detenzione dell'immobile, solo se questo non risulta già occupato dal nuovo conduttore, rivolgendosi al giudice. 
L'ultimo comma dell'art. 40 dispone che il conduttore conserva il diritto di prelazione anche "nel caso in cui il contratto tra il locatore e il nuovo conduttore sia sciolto entro un anno, ovvero quando il locatore abbia ottenuto il rilascio dell'immobile non intendendo locarlo a terzi, e, viceversa, lo abbia concesso in locazione entro i sei mesi successivi".
Nella prima ipotesi, il vecchio conduttore potrà legittimamente richiedere al locatore di stipulare un contratto dal contenuto identico a quello scioltosi entro l'anno. Nella seconda ipotesi, il conduttore potrà pretendere solo il risarcimento del danno subito in dipendenza dell'inadempimento del locatore.
L'art. 39 attribuisce al conduttore il diritto di riscattare l'immobile venduto a terzi in caso di inosservanza da parte del venditore, ex locatore, della disciplina in materia di prelazione al conduttore. La norma è quindi correlata alla normativa dell'art. 38 del quale garantisce la compiuta applicazione. In generale il diritto di riscatto consente al conduttore di sostituirsi all'acquirente, diventandone proprietario in luogo di questi, dietro il versamento (rimborso) all'acquirente stesso del prezzo pagato.
L'art. 39 ammette l'esercizio del diritto di riscatto:
a) nell'ipotesi in cui il proprietario non provveda alla comunicazione al conduttore dell'intenzione di vendere l'immobile locato,
b) nel caso in cui il corrispettivo indicato nella comunicazione di cui sopra sia superiore a quello risultante dall'atto di trasferimento.
Se il proprietario ha venduto l'immobile dopo aver effettuato la comunicazione al conduttore ma prima che questi abbia potuto esercitare la prelazione sull'acquisto, al conduttore compete il diritto di riscatto solo laddove a suo tempo abbia comunicato al proprietario la volontà di esercitare la prelazione.
Il diritto di riscatto deve essere esercitato, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla trascrizione dell'atto di vendita. Occorre sottolineare l'importanza per il conduttore di rispettare il termine previsto a pena di decadenza, giacché per nessun motivo si ammette che il diritto di riscatto possa essere esercitato oltre il suddetto termine, quali che siano le ragioni dei ritardo.
Il conduttore che esercita il diritto di riscatto deve versare il prezzo all'acquirente retrattato entro tre mesi. Tale termine ha una decorrenza variabile a seconda che vi sia o meno opposizione alla domanda di riscatto. In assenza di opposizione, i tre mesi decorrono infatti o dalla prima udienza del relativo giudizio (quando cioè in sede processuale si constata che l'acquirente non intende opporsi alla domanda attrice), oppure, prima di tale udienza, dalla data di notificazione al conduttore-attore della comunicazione di non opposizione al riscatto fatta dall'acquirente-convenuto. Quando invece l'acquirente si oppone alla domanda di riscatto, il termine trimestrale decorre dal giorno del passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio.
Sul versamento del prezzo si ritiene che all'interno di quest'ultimo non debbano essere comprese né le spese notarili né gli altri oneri accessori relativi al contratto stipulato tra il retrattato e il venditore

 

6 - SUBLOCAZIONE E CESSIONE DEL CONTRATTO

Le questioni relative alla sublocazione e alla cessione del contratto di locazione sono regolamentate dall'art. 1594 del Codice Civile. Secondo la norma codicistica la sublocazione dell'immobile è sempre ammessa, a meno che le parti non la escludano espressamente in sede di conclusione del contratto. La cessione del contratto, invece, non può avvenire in assenza del consenso preventivo relativo alla cessione stessa. Tale consenso può anche essere tacito e, inoltre, può essere espresso già in fase di conclusione del contratto. 
La cessione del contratto e la sublocazione dell'immobile effettuate senza il consenso del locatore costituiscono specifici inadempimenti del conduttore e consentono al locatore di chiedere la risoluzione dei contratto vanificando i rapporti illegittimamente posti in essere dal conduttore.
Il conduttore deve comunicare al locatore la cessione del contratto di locazione o la sublocazione dell'immobile. È senz'altro preferibile che la comunicazione venga effettuata a mezzo di lettera raccomandata con ricevuta di ritorno e ciò anche se nessuna norma imponga tale formalità. Si ammette infatti l'impiego di mezzi diversi per l'informativa in questione purché si possa efficacemente dimostrare che il locatore ha avuto conoscenza dell'atto con il quale si è trasferita la detenzione dell'immobile a soggetto diverso dall'originario conduttore.
Tale comunicazione deve essere piuttosto dettagliata e contenere tutti gli elementi che valgano ad identificare la persona di colui che viene a subentrare nel godimento dell'immobile e il titolo in forza dei quale si realizza tale subentro.
Dal ricevimento della comunicazione, il locatore può, entro trenta giorni, opporsi per gravi motivi all'accordo intervenuto tra il conduttore e il terzo. I "gravi motivi" che giustificano l'opposizione del locatore devono riguardare la persona del nuovo conduttore.
Laddove il locatore che si oppone alla cessione del contratto di locazione (o alla sublocazione dell'immobile), risulti vittorioso nel relativo giudizio, il rapporto di locazione principale verrà risolto per inadempimento dell'originario conduttore (il quale ha illegittimamente ceduto o sublocato l'immobile) e il rapporto derivato (di cessione o di sublocazione) perderà, conseguentemente, ogni efficacia.

 

7 - LA SUCCESSIONE

L'art. 37 della Legge n. 392/1978 disciplina i diversi casi nei quali può avvenire la successione nella conduzione dell'immobile locato (oltre alle ipotesi di cessione o di affitto di azienda previste all'art. 36). Il primo comma dell'art. 37 prevede che, in caso di morte del conduttore, coloro che hanno diritto a proseguire nell'attività (per successione o per un rapporto precedente risultante da un atto di data certa anteriore all'apertura della successione) gli succedano nel contratto. 
La successione mortis causa costituisce un'eccezione alla regola, poiché il rapporto di conduzione, basato sulle qualità personali del conduttore, non rientra tra i rapporti che è possibile trasmettere agli eredi. L'obiettivo è quello della salvaguardia dell'attività di natura economica esercitata nell'immobile affittato. Possono infatti succedere al defunto solo coloro che hanno diritto a proseguire nell'attività dell'inquilino deceduto. Si tratta, praticamente, di una successione aziendale. In caso contrario non è possibile realizzare una successione nel contratto.
Il diritto a succedere nella conduzione dell'immobile viene riconosciuto, oltre agli eredi legittimi e testamentari, a coloro che abbiano acquisito il diritto alla prosecuzione dell'attività per atto certo precedente all'apertura della successione.
Esiste inoltre un caso particolare di successione legale nella locazione ad uso commerciale, disciplinato dal secondo comma dell'art. 37: si tratta della disciplina applicabile nelle ipotesi di separazione e di divorzio. Il principio alla base della norma è sempre quello della salvaguardia della continuità aziendale; viene quindi tutelato il coniuge che esercitava l'attività economica con l'altro coniuge già prima della separazione.
Anche i soci e i condividendi l'uso dell'immobile possono, sulla base del quarto comma del suddetto articolo, succedere al conduttore receduto, purché ricorrano i presupposti legali stabiliti dal comma 3. È previsto però che il locatore possa opporsi alla successione del contratto da parte degli aventi diritto, ove ricorrano gravi motivazioni (vedi art. 36).

 

8 - I CONTRATTI

I CONTRATTI CONVENZIONATI 
Esistono diversi tipi di affitto e la prima distinzione da fare è quella tra locazione a uso abitativo e locazione a uso diverso, vale a dire riguardante attività commerciali e altro. All'interno della categoria dei contratti d'affitto per uso abitazione si annoverano diversi tipi degli stessi: la riforma delle locazioni ha sostituito ai vecchi contratti a equo canone e ai patti in deroga due nuove tipologie di contratto, quello libero e quello regolato. A essi si aggiungono locazioni stipulate per uso transitorio o turistico. Questi sono i tre tipi di contratto previsti dalla nuova legge sulle locazioni. La locazione ad uso diverso riguarda, invece, l'uso commerciale per negozi, uffici, studi professionali ecc.
In relazioni agli affitti per uso abitativo occorre aggiungere che i vecchi contratti restano comunque in vigore, laddove già stipulati, fino alla loro naturale estinzione (quattro anni per l'equo canone, otto anni per il patto in deroga).
I due tipi principali di contratto di affitto introdotti dalla riforma delle locazioni (Legge n. 431/1998) sono i seguenti: un contratto d'affitto libero nel canone ma con durata di quattro anni (più quattro di rinnovo) e uno regolato da accordi tra le associazioni dei proprietari e quelle degli inquilini, su impulso dell'amministrazione comunale, con durata di tre anni (più due di rinnovo).
Per essere validi, devono essere entrambi stilati in forma scritta. I proprietari che scelgono il contratto regolato beneficiano di agevolazioni fiscali: uno sconto sull'IRPEF e sull'imposta di registro, oltre a una riduzione dell'ICI che può essere decisa dai singoli Comuni. Per gli inquilini con bassi redditi, a partire dal 2001, è previsto uno sconto dell'IRPEF grazie all'istituzione di un fondo nazionale di 1800 miliardi, in cui confluiranno anche i fondi ex Gescal. La riforma prevede poi una serie di norme antievasione. Per esempio, senza la registrazione del contratto sia i proprietari sia gli inquilini non potranno usufruire dei benefici fiscali. È importante sottolineare che lo sconto IRPEF si applica solo ai residenti nei Comuni ad alta tensione abitativa.
Come prevede l'art. 1 della succitata legge di riforma, le nuove tipologie di contratto si applicano a tutte le locazioni stipulate dopo l'entrata in vigore della legge (30 dicembre 1998) ad esclusione di quelle aventi per oggetto case popolari, alloggi affittati per turismo, case gestite dagli enti locali in qualità di conduttore per soddisfare esigenze abitative transitorie. Per gli immobili vincolati di valore storico e artistico, le abitazioni di tipo signorile (categoria catastale A/1), le ville (categoria catastale A/8) e le abitazioni di lusso (categoria catastale A/9), le parti possono scegliere se applicare il canale regolato della nuova normativa con i relativi benefici fiscali, oppure, avvalersi delle regole del libero mercato.
Per qualsiasi tipo di contratto si opti è importante ricordare che nella parte descrittiva esso deve contenere tutti gli elementi e i riferimenti documentali e informativi sulla classificazione catastale, le tabelle millesimali, lo stato degli impianti e delle attrezzature tecnologiche anche in relazione alle normative sulla sicurezza nazionale e comunitaria, nonché una clausola che faccia riferimento alla reciproca autorizzazione al trattamento dei dati in base alla normativa sulla privacy. Anche negli altri tipi di contratto è consigliabile (seppure non obbligatorio) inserire tutte queste informazioni, tanto che il facsimile del contratto libero concordato tra le associazioni della proprietà e i sindacati degli inquilini ne prevede l'elencazione.
La determinazione dei canoni di locazione a livello territoriale è stata stabilita sulla base della Convenzione nazionale convocata dal Ministro dei lavori pubblici con rappresentanze delle organizzazioni della proprietà edilizia e dei conduttori. Tale Ministro, di concerto con quello delle finanze, ha emesso successivamente un decreto (D. M. 5 marzo 1999) che ha formalizzato e reso attuative le delibere della suddetta Convenzione. 

IL CONTRATTO LIBERO 
Il primo canale di locazione (come prevede
la Legge n. 431/1998, art. 2, comma 1) affida alle parti interessate la determinazione libera del canone e degli altri aspetti contrattuali, ma la durata è imposta: minimo quattro anni con rinnovo automatico per altri quattro, a meno che il proprietario non dia disdetta alla fine del primo quadriennio ricorrendo ad uno dei motivi di necessità precisati dalla legge.
Sono nulli gli accordi che prevedono qualsiasi obbligo in contrasto con le disposizioni di legge nonché qualsiasi clausola o vantaggio economico diretto ad attribuire al proprietario un canone superiore a quello stabilito nel contratto. Qualora ci si trovasse di fronte a situazioni del genere, l'inquilino può chiedere (effettuando istanza al Tribunale) che l'affitto sia ricondotto negli ambiti di legge con la possibilità di riottenere le somme pagate in eccesso (almeno sei mesi prima della riconsegna). È utile disporre di un facsimile del contratto-tipo. 
IL CONTRATTO REGOLATO 
Il secondo tipo di contratto (in base alla Legge n. 431/1998, art. 2, comma 3), al contrario di quello libero, non consente piena libertà nella determinazione del canone, però prevede, in cambio, una durata inferiore (tre anni più due di rinnovo) e la possibilità di ottenere alcune agevolazioni fiscali. Proprietari e inquilini, dunque, possono certamente concordare il prezzo dell'affitto, ma all'interno di fasce di canone predeterminate.
Risulta nulla ogni eventuale pattuizione volta ad attribuire al proprietario un canone superiore a quello massimo definito dagli accordi territoriali per gli immobili appartenenti alle medesime tipologie. Anche in questo caso l'inquilino può chiedere (mediante istanza al Tribunale) che l'affitto sia ricondotto negli ambiti di legge con la possibilità di riottenere le somme pagate in eccesso (almeno sei mesi prima della riconsegna).
Ogni due anni, le associazioni della proprietà e degli inquilini, insieme al Comune, stabiliscono, a livello locale, fasce di oscillazione del canone di affitto all'interno delle quali, secondo le caratteristiche dell'immobile e dell'unità immobiliare, potrà essere concordato tra le parti il canone per i singoli contratti.
A tale scopo, nei Comuni ad alta tensione abitativa vengono individuate le aree con caratteristiche omogenee per valori di mercato, dotazioni infrastrutturali (trasporti, verde pubblico, servizi scolastici e sanitari, infrastrutture commerciali ecc.), tipi edilizi (tenendo conto delle categorie e classi catastali). Ad ognuna di tali aree corrispondono un valore minimo e uno massimo di canone al metro quadrato.
Una volta individuata la fascia di oscillazione relativa alla zona dell'immobile oggetto del contratto, il proprietario e l'inquilino fissano il canone effettivo. Nell'effettuare tale operazione devono tenere conto anche dei seguenti elementi: tipologia dell'alloggio; pertinenze dell'alloggio (posto auto, box , cantina ecc.); stato manutentivo dell'alloggio e dell'intero stabile; presenza di spazi comuni (aree comuni, cortili, aree a verde, impianti sportivi interni ecc.); dotazione di servizi tecnici (ascensore, riscaldamento autonomo o centralizzato, condizionamento d'aria, ecc.); degrado urbano; eventuale dotazione di mobilio. 
È molto importante anche avere informazioni precise in relazione alle agevolazioni di natura fiscale previste dalla nuova legge sulle locazioni.
Gli sconti fiscali riguardano sia il proprietario sia l'inquilino che aderiscono al contratto regolato, sempre che l'immobile sia situato nei Comuni ad alta tensione abitativa.
È stato inoltre istituito un fondo sociale per gli inquilini meno abbienti al quale i Comuni ad alta tensione abitativa potranno attingere anche per iniziative specifiche a sostegno dell'emergenza abitativa: convenzioni con cooperative edilizie per la locazione, agenzie o istituti per la locazione ecc. (vedi D.M. 7 giugno 1999). 
Per le locazioni di questo tipo (il contratto regolato), viene elaborato e depositato in Comune il contratto-tipo, da utilizzare rispettando le seguenti condizioni: 
-rinnovo tacito in mancanza di disdetta; 
-previsione, nel caso che il proprietario abbia riacquistato l'alloggio a seguito di illegittimo esercizio della disdetta ovvero non lo adibisca agli usi per i quali ha esercitato la facoltà di disdetta, di un risarcimento in misura non inferiore a trentasei mensilità dell'ultimo canone; 
-facoltà di recesso da parte dell'inquilino per gravi motivi; 
-previsione, ove le parti lo concordino, di prelazione a favore del conduttore in caso di vendita dell'immobile; 
-possibilità, in sede di accordi locali, di prevedere l'aggiornamento del canone in misura contrattata e comunque non superiore al 75% della variazione ISTAT; 
-modalità di consegna dell'alloggio con verbale o comunque con descrizione analitica dello stato di conservazione dell'immobile; 
-produttività di interessi legali annuali sul deposito cauzionale non superiore alle tre mensilità; 
-esplicito richiamo ad accordi sugli oneri accessori ai fini della ripartizione tra le parti e in ogni caso richiamo ad accordi sugli oneri accessori ai fini della ripartizione e alle disposizioni della Legge n. 392/1978, articoli 9 e 10; 
-previsione di una commissione conciliativa stragiudiziale facoltativa. 
I CONTRATTI PER USO TEMPORANEO 
La legge di riforma delle locazioni (n. 431/1998) e il successivo decreto interministeriale del 5 marzo 1999 hanno apportato modifiche alla disciplina dei contratti ad uso temporaneo e in particolare a quelli cosiddetti transitori. Il primo luogo l'uso transitorio è stato inserito nel cosiddetto secondo canale e quindi per affittare un'abitazione per un tempo limitato, in base alle esigenze delle parti, si devono utilizzare contratti speciali.
In particolare, è stato creato un contratto specifico per la locazione a studenti universitari fuori sede sulla base dei contratti a prezzo calmierato. Ciò non toglie che un inquilino studente universitario possa rivolgersi anche al mercato dell'affitto normale, stipulando un altro tipo di contratto ad uso abitativo.
È stato interamente liberalizzato l'uso turistico, che viene quindi regolato esclusivamente dalle norme del Codice Civile (art. 1571 e seguenti). In relazione all'uso foresteria, invece, esistono dubbi rispetto al fatto che il contratto si possa stipulare solo in base al Codice Civile oppure, con maggiori probabilità, debba rientrare nella nuova normativa.
Tra gli usi temporanei risulta utile fornire alcune informazioni anche in relazione al contratto di comodato, anche se non si tratta di vera e propria locazione; non è infatti disciplinato dalla nuova legge sugli affitti ma direttamente dal Codice Civile. 
I CONTRATTI TRANSITORI 
Chi utilizza un contratto transitorio non risiede nella casa ma semplicemente vi dimora, cioè vi si trattiene per il tempo necessario.
I canoni di locazione, come per tutti i contratti del secondo canale, sono fissati sulla base delle fasce di oscillazione per aree omogenee, come pure le relative misure di aumento o di diminuzione relativamente alla durata contrattuale, nonché i criteri di ripartizione degli oneri di manutenzione.
Il contratto prevede una specifica clausola che individui l'esigenza transitoria del proprietario e dell'inquilino. Il proprietario è tenuto a confermare i motivi della transitorietà attraverso una lettera da inviare all'inquilino prima della fine del contratto. L'esigenza transitoria dell'inquilino deve essere provata mediante apposita documentazione da allegare al contratto. Resta da chiarire se l'esigenza transitoria del proprietario sia sufficiente a rendere valido un contratto transitorio.
Per questo tipo di contratti viene elaborato e depositato in Comune il contratto-tipo da utilizzare basandosi sul facsimile nazionale e rispettando le seguenti condizioni:
- durata minima di un mese e massima di diciotto mesi; 
- dichiarazioni del proprietario e dell'inquilino che esplicitino l'esigenza della transitorietà; 
- onere per il proprietario di confermare prima della scadenza del contratto i motivi di transitorietà posti a base dello stesso; 
- riconduzione del contratto all'articolo 2, comma 1, della Legge 431/98 in caso di mancata conferma dei motivi, ovvero risarcimento pari almeno a trentasei mensilità in caso di mancato utilizzo dell'immobile rilasciato; 
- previsione di una particolare ipotesi di transitorietà per soddisfare esigenze dell'inquilino che lo stesso deve documentare allegandole al contratto; 
- facoltà di recesso da parte dell'inquilino per gravi motivi; 
- esclusione della sublocazione; 
- previsione, ove le parti lo concordino, di prelazione a favore dell'inquilino in caso di vendita dell'immobile; 
- modalità di consegna con verbale o comunque con descrizione analitica dello stato di conservazione dell'immobile; 
- produttività di interessi legali annuali sul deposito cauzionale che non superi le tre mensilità; 
- esplicito richiamo ad accordi sugli oneri accessori ai fini della ripartizione e in ogni caso richiamo alle disposizioni della Legge n. 392/1978, artt. 9 e 10; 
- previsione di una commissione conciliativa stragiudiziale facoltativa. 
Con la riconduzione dell'uso transitorio al canale regolato dalla Legge n. 431/1998, tale tipologia, molto probabilmente, non verrà più utilizzata per mascherare contratti d'affitto residenziali di lunga durata. Però rimane importante specificare la condizione transitoria che spinge il conduttore a stipularlo. Infatti, se vengono meno le cause della transitorietà, il contratto prevede la riconduzione della durata a quella prevista dal primo canale (quattro anni più quattro di rinnovo).
Sia il proprietario sia l'inquilino sono responsabili della dichiarazione resa. Il secondo non deve mentire circa le sue esigenze, il primo è, invece, chiamato ad accertarle e sottoscriverle in una lettera da inviare all'inquilino prima della scadenza del contratto.
Anche i contratti d'affitto per gli studenti universitari fuori sede sono stati inseriti nella riforma delle locazioni (Legge n. 431/1998, art. 5). Nei Comuni sede di Università o di corsi universitari distaccati, nonché nei Comuni limitrofi, gli accordi territoriali dovranno prevedere particolari contratti-tipo per soddisfare le esigenze degli studenti universitari fuori sede, vale a dire iscritti ad un corso di laurea in un Comune diverso da quello di residenza (da specificare nel contratto).
Come per tutti i contratti del secondo canale, i canoni di locazione vengono definiti in accordi locali, come pure le relative misure di aumento o di diminuzione relativamente alla durata contrattuale, nonché i criteri di ripartizione degli oneri di manutenzione. I sottoscrittori di questo contratto possono beneficiare delle agevolazioni fiscali proprie del secondo canale di locazione.
I contratti avranno durata da sei mesi a tre anni e potranno essere sottoscritti o dal singolo studente o da gruppi di studenti universitari fuori sede o dalle aziende per il diritto allo studio.
Per ogni contratto si potrà tenere conto della presenza di mobilio, di particolari clausole, delle eventuali modalità di rilascio.
Anche per questo tipo di contratti viene elaborato e depositato in Comune il contratto-tipo da utilizzare basandosi sul facsimile nazionale e rispettando le seguenti condizioni:
- durata minima di sei mesi e massima di trentasei mesi; 
- rinnovo automatico salvo disdetta dell'inquilino; 
- facoltà di recesso da parte dell'inquilino per gravi motivi; 
- facoltà di recesso parziale per il conduttore in caso di pluralità di conduttori; 
- esclusione della sublocazione; 
- modalità di consegna con verbale o comunque con descrizione analitica dello stato di conservazione dell'immobile; 
- produttività di interessi legali annuali sul deposito cauzionale che non superi le tre mensilità; 
- esplicito richiamo ad accordi sugli oneri accessori ai fini della ripartizione tra le parti e richiamo alle disposizioni della Legge n. 392/1978, artt. 9 e 10; 
- previsione di una commissione conciliativa stragiudiziale facoltativa. 
CONTRATTO TURISTICO 
La disciplina per gli immobili affittati "esclusivamente per finalità turistiche" è esclusa dalla riforma delle locazioni, come specificato nella stessa (Legge n. 431/1998, art. 1, commi 2 e 3). Di conseguenza, bisogna fare riferimento alle norme dettate dal Codice Civile.
Per affittare un appartamento per le vacanze non è necessario rispettare alcuna modalità per la stipula o la rinnovazione del contratto: la forma scritta non è obbligatoria (ma è assolutamente preferibile), la durata minima è libera e la disdetta è automatica al termine del periodo pattuito, senza bisogno di alcuna comunicazione da parte del proprietario o dell'inquilino.
Per contro, a queste locazioni è inapplicabile l'art. 7 della Legge 431/98 sulle condizioni per la messa in esecuzione del provvedimento di rilascio dell'immobile, e restano esclusi anche dalle agevolazioni fiscali proprie del secondo canale basato sulla negoziazione di accordi locali tra le associazioni dei proprietari e quelle degli inquilini. 
I CONTRATTI DI COMODATO E FORESTERIA 
Il comodato di un appartamento è un contratto con il quale il proprietario consegna un immobile gratuitamente (anche se possono essere fissati modesti oneri) a un soggetto affinché se ne serva per un tempo o per un uso determinato. Tale disposizione è regolata direttamente dal Codice Civile (art. 1803 e seguenti) e si fonda su un rapporto di fiducia tra proprietario e inquilino.
Per dar vita al comodato è sufficiente la disponibilità della casa. Non è indispensabile la proprietà del bene, pertanto anche l'usufruttuario può concedere in comodato l'appartamento oggetto di usufrutto e non occorre un contratto scritto: è sufficiente un accordo verbale. Nel caso in cui l'inquilino sostenga delle spese per l'uso dell'abitazione, non ha diritto al rimborso. Egli ha però diritto a essere rimborsato delle spese straordinarie, se necessarie e urgenti.
Nel contratto di comodato può essere convenuta una scadenza per la restituzione, ma questo termine può anche essere anticipato, se da parte del proprietario sopravviene il bisogno dell'immobile. Qualora non sia stato fissato un termine, il comodatario è tenuto a restituire l'alloggio non appena il proprietario lo richiede.
Il comodato è un ottimo sistema per affidare un alloggio a un parente o amico stretto a condizione di assoluto vantaggio e con la certezza di poterlo riavere indietro in qualunque momento. Spesso però nasconde un contratto d'affitto remunerativo, non stipulabile apertamente. Se il finto comodato viene scoperto verranno messi a confronto i sacrifici e i vantaggi che hanno le parti.
Se gli oneri gravanti sull'inquilino sono tali da corrispondere a un vero e proprio canone per il godimento dell'immobile, si tratta di locazione e non più di comodato, con le relative conseguenze giuridiche a carico di entrambe le parti.
L'uso foresteria si verifica quando un'azienda, un ente o una società prende in locazione un'abitazione per destinarla ad un proprio dipendente. Fino al dicembre 1998 questa eventualità veniva regolata con contratti specifici esclusi dalla disciplina dell'equo canone. Attualmente è dubbio se i contratti a uso foresteria possano essere stipulati in base al Codice Civile o, come sembra più probabile, debbano rientrare nella nuova legge sulla locazione, scegliendo dunque all'interno degli schemi del contratto libero (quattro anni più quattro) o regolato (tre anni più due). 
IL SUBAFFITTO TOTALE E PARZIALE 
In base alle norme del Codice civile il subaffitto di parte della casa (parziale) è sempre possibile a meno che non sia indicato diversamente sul contratto.
Il subaffitto totale, invece, necessita di un'autorizzazione del proprietario, da richiedersi preferibilmente con una raccomandata che indichi il nome dell'inquilino e la durata del contratto.

 

9 - I CONTRATTI PREVISTI DALLA LEGGE SULLE LOCAZIONI

PRIMO CANALE: CANONE LIBERO 
Durata: minimo 8 anni (4 + 4 di rinnovo automatico)
Canone: liberamente concordato tra inquilino e proprietario
Aggiornamenti canone: liberamente concordati nell'entità, frequenza e procedura
Caparra: massimo 1 mese anticipato e 2 mesi di caparra*
Divisione oneri: secondo il Codice civile e l'art. 9 della legge sull'equo canone
Disdetta inquilino: con lettera raccomandata almeno 6 mesi prima della data da lui scelta; proprietario: con lettera raccomandata almeno sei mesi prima della scadenza (8 anni o dopo i primi 4)
Rinnovo automatico per altri 4 anni (se non c'è disdetta)
Sconti fiscali proprietario: 15% sul canone da denunciare sulla dichiarazione dei redditi; inquilino: stanziati fondi nella Finanziaria 
SECONDO CANALE: CANONE REGOLATO 
Durata: minimo 5 anni (3 + 2 di rinnovo automatico)
Canone: canone massimo da concordare tra le organizzazioni della proprietà edilizia e dei conduttori maggiormente rappresentative
Aggiornamenti canone: da concordare tra le organizzazioni della proprietà edilizia e dei conduttori maggiormente rappresentative
Caparra: massimo 1 mese anticipato e 2 mesi di caparra*
Divisione oneri: secondo il Codice civile e l'art. 9 della legge sull'equo canone
Disdetta: inquilino: con lettera raccomandata almeno 6 mesi prima della data da lui scelta; proprietario: con lettera raccomandata almeno sei mesi prima della scadenza (5 anni o dopo i primi 3)
Rinnovo: automatico per altri 2 (se non c'è disdetta dopo i primi 3)
Sconti fiscali: proprietario: 40,5% sul canone da denunciare sulla dichiarazione dei redditi, più riduzione del 30% dell'imposta di registrazione (sconti Ici possono essere stabiliti dai Comuni); inquilino: stanziati fondi nella Finanziaria 
TERZO CANALE: COMPLETAMENTE LIBERO 
Tipi di immobile: casa vacanza, box auto, casa categoria A/1 e A/8, casa vincolata**
Durata: massimo 30 anni, minimo libero***
Canone: liberamente concordato tra inquilino e proprietario
Aggiornamenti canone: liberamente concordati nell'entità, frequenza e procedura
Caparra: libera
Divisione oneri: secondo il Codice civile (proprietario: manutenzione straordinaria; inquilino: manutenzione ordinaria)
Disdetta: automatica, senza bisogno di comunicazione preventiva
Rinnovo: non automatico: può essere concordato liberamente tra le parti
Sconti fiscali: proprietario: 15% sul canone da denunciare sulla dichiarazione dei redditi; inquilino: stanziati fondi nella Finanziaria 
NOTE
* Sulla caparra il proprietario versa ogni anno gli interessi legali (attualmente il 2,5%)
**Gli immobili vincolati o di categoria A/1, A/8, A/9 possono essere locati anche con il secondo canale
***Se la durata non viene specificata si considera un anno per gli immobili non arredati; per quelli arredati la durata è quella relativa al canone versato.

L'Equo Canone

Al di là dei due nuovi canali per affittare un alloggio previsti dalla nuova legge (n. 431/1998), i vecchi contratti a equo canone, se stipulati prima dell'entrata in vigore della legge di riforma, continuano a valere fino alla loro scadenza naturale (quattro anni). 
Sono più di tre milioni le famiglie in affitto in Italia. Per loro non cambierà nulla almeno fino alla conclusione dell'attuale contratto. Infatti, i rapporti di locazione stipulati prima dell'entrata in vigore della legge continuano ad essere validi per tutta la durata prevista (Legge n. 431/1998, art. 14, comma 5). Per questi inquilini varranno, dunque, le vecchie regole, a meno che le parti non concordino di passare alla nuova normativa. I vecchi contratti rinnovati tacitamente continuano ad essere disciplinati dalle vecchie norme. Questo significa che se un proprietario, al termine dei quattro anni di equo canone, non spedisce la 
disdetta nei modi e tempi previsti, il contratto viene incanalato, allo stesso canone, nella Legge n. 431/1998, la quale prevede un affitto di altri quattro anni più quattro.
La maggior parte della legge sull'equo canone (n. 392/1978) è stata abrogata e dunque vale solo per i vecchi contratti. Ma la disciplina dell'equo canone è importante anche per i nuovi contratti in quanto ne regola alcuni aspetti. Alcuni articoli infatti sono rimasti in vigore e disciplinano in parte i nuovi contratti (artt. 2, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 55, 56, 57, 74, 80 e 81). In pratica, si tratta di norme che regolano il subaffitto, le spese di registrazione, gli oneri accessori, l'intervento dell'inquilino all'assemblea condominiale, le modalità per il rilascio dell'alloggio, l'esenzione dal bollo per gli atti inferiori alle 600.000 lire, la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale degli indici ISTAT utili per l'aggiornamento del canone. 
Per le locazioni commerciali restano poi in vita gli articoli dal 27 al 42.
In concreto la legge dell'equo canone disciplina anche i nuovi contratti per quanto riguarda i seguenti aspetti:
- il contratto deve sempre stabilire le norme di recesso (art. 4); 
- dopo 20 giorni dalla scadenza prevista per il pagamento del canone e delle spese, il contratto può essere sciolto se l'inquilino non ha pagato (art. 5); 
- in caso di morte dell'inquilino intestatario del contratto, gli succedono il coniuge, gli eredi, i parenti e affini con lui abitualmente conviventi; il coniuge separato succede nel contratto se così è stato deciso dal giudice o consensualmente (art. 6); 
- in caso di vendita della casa, il contratto non può sciogliersi e il nuovo proprietario succede al vecchio nel contratto (art. 7); 
- il deposito cauzionale da versare al proprietario non può essere superiore a tre mensilità (art. 11); 
- la morosità dell'inquilino nel pagamento dei canoni o degli oneri accessori può essere sanata in via giudiziaria non più di tre volte nel corso del quadriennio del contratto, o al massimo quattro, se si riscontrano precarie condizioni economiche o sociali (art. 55); 
- se l'inquilino adibisce l'immobile a un uso diverso da quello pattuito, il proprietario può chiedere la 
risoluzione del contratto entro tre mesi dal momento in cui ne ha avuto conoscenza; decorso tale termine senza che la risoluzione del contratto sia stata chiesta si applica il regime giuridico corrispondente all'uso effettivo dell'immobile (art. 80). 
La vecchia normativa con i contratti a patto in deroga ed equo canone rimane in vita solo nei limiti indicati dalla Legge n. 431/1998, art. 14, ovvero, per i giudizi pendenti e per i contratti in corso. Al di là di ciò, la vecchia disciplina è superata e quindi è sicuramente nullo un contratto di locazione per uso abitativo stipulato oggi in base alle norme dell'equo canone o dei patti in deroga.
Chi si trovasse in situazioni dubbie riguardo a qualsiasi aspetto relativo ai contratti d'affitto può rivolgersi al proprio legale di fiducia, ai sindacati degli inquilini o alle associazioni della proprietà. Allo stesso tempo bisogna ricordare che
la Corte Costituzionale (sentenza n. 309/1996) ha stabilito la non obbligatorietà dell'assistenza sindacale (per inquilini o proprietari) al momento della stipula dei contratti.

L'aggiornamento del Canone

Ogni anno l'importo del canone di locazione deve essere adeguato al costo della vita. Si tratta di un calcolo che utilizza un coefficiente di moltiplicazione, calcolato partendo dalla variazione assoluta dell'indice ISTAT dei prezzi al consumo rispetto alla data di inizio del rapporto d'affitto, ridotto al 75%. Esiste una data fissa in cui va fatto l'aggiornamento; questa dipende dall'anno di costruzione dell'immobile.
Per le case costruite prima del 31 dicembre
1977, l'aggiornamento (che va calcolato dal giugno 1979), conteggiato sul periodo annuale da giugno a giugno, va comunicato il mese successivo ed è valido dal primo agosto. Per calcolarlo si può aggiungere al canone originale il coefficiente di variazione assoluta. Per esempio, un equo canone che nel 1976 era di 150.000 lire, dall'agosto scorso costa all'inquilino 150.000 lire + 291,900% = 587.850 lire. 
Per le case ultimate dal
1978, l'aggiornamento è calcolato sul periodo annuale da gennaio a gennaio. Per esempio, un equo canone che nel 1998 costava 400.000 lire, nel '99 aumenta a 400.000 lire + 0,975% = 403.900 lire. 
Ai fini dell'aggiornamento ISTAT del canone di locazione per gli immobili ultimati negli anni 1976, 1977 e 1978 la situazione è controversa. La legge aveva agganciato anche questi anni alle fluttuazioni del costo della vita, ma successivamente, sorti contenziosi, la magistratura spesso si è espressa collocando il 1976 e il 1977 nella prima fascia di immobili e il 1978 nella seconda fascia.

I Patti in deroga

Anche per i contratti stipulati a suo tempo con patto in deroga (ovvero con le norme contenute nella ormai superata Legge n. 359/1992) continuano a valere le vecchie regole fino alla scadenza del contratto. Il canone d'affitto rimane quello stabilito all'inizio nella libera trattativa tra le parti. L'eventuale disdetta deve essere comunicata (con raccomandata a/r) almeno un anno prima della prima scadenza (se ricorrono i motivi della Legge n. 392/1978, art. 29) e almeno sei mesi prima del termine dell'ottavo anno di contratto. Sono da ritenersi nulli i contratti ai quali si aggiungono pagamenti in nero.
In mancanza di disdetta, il contratto, con lo stesso canone, viene ricondotto alla durata di quattro anni più quattro previsti dalla nuova legge (n. 431/1998, art. 2, comma 1).
Il canone corrisposto per un contratto stipulato con patto in deroga deve essere aggiornato ogni anno rispetto alla variazione del costo della vita accertata dall'ISTAT.
L'aggiornamento decorre dal mese successivo a quello in cui viene fatta richiesta, con lettera raccomandata a/r, dal proprietario e deve essere riferito alla data di stipulazione del nuovo contratto, a partire dalla quale si calcoleranno poi le variazioni annuali. 
Come accade per l'equo canone, l'aggiornamento corrisponde al 75% dell'indice ISTAT a meno che non si tratti di nuove costruzioni. In questo caso l'adeguamento può raggiungere il 100% dell'indice ISTAT. Rientrano nella categoria delle nuove costruzioni gli immobili per i quali il proprietario riesce a dimostrare che all'11 luglio 1992 (data di entrata in vigore dei patti in deroga) non era stata ancora presentata la dichiarazione di ultimazione dei lavori. Allo stesso tempo occorre dimostrare che alla data di stipulazione del contratto è stata richiesta la certificazione di abitabilità e presentata la domanda per l'accatastamento.
Per calcolare l'aggiornamento del canone dei patti in deroga è sufficiente aggiungere al canone dell'anno precedente il 75% o il 100% dell'indice ISTAT. Per esempio, nel caso di una vecchia costruzione con un contratto stipulato nel mese di marzo 1997 pari a 1.000.000 di lire, a partire dall'aprile
1998 l'inquilino (se riceve la raccomandata con la richiesta dell'aumento) deve pagare 1.000.000 di lire + 1,275% = 1.012.750 lire.

 

10 - RISOLUZIONE DEL CONTRATTO PER MOROSITÀ

A molti proprietari che cedono in locazione il loro bene capita prima o poi di fare i conti con inquilini morosi che per svariati motivi non vogliono o non possono più pagare l'affitto e le spese accessorie.
Il proprietario è generalmente costretto a farsi carico dell'inquilino moroso. Mentre infatti l'inquilino è tutelato e garantito dalla legge, lo stesso non si può dire per il proprietario che per legge, a garanzia del contratto, non può chiedere all'inquilino più di tre mensilità di cauzione.
La cauzione non è sufficiente a coprire le spese che un proprietario è costretto a sostenere per fare fronte alla morosità di un inquilino. Infatti, oltre a non percepire più la pigione, il proprietario deve avviare lo sfratto legale, procedura burocratica molto onerosa economicamente.
Il proprietario deve anticipare le spese condominiali e di riscaldamento all'amministratore, con scarse probabilità di rientrare delle spese anticipate.
Sull' immobile pesa inoltre l'onere delle tasse che il proprietario deve pagare comunque, indipendentemente dal fatto che l'immobile abbia prodotto o meno del reddito.
La proprietà deve tenere in piedi l'immobile con i relativi costi per lavori straordinari, manutenzioni alle strutture al fine di mantenere in efficienza e a norma di legge gli impianti (elettrico, idraulico, ascensore, autoclave, caldaia ecc.).
La terza sentenza della Corte costituzionale del
1999 ha stabilito che l'inquilino moroso che paga salva il contratto anche se è in causa; può cioè saldare il suo debito ed evitare la risoluzione del contratto non solo durante il procedimento sommario per convalida dello sfratto ma anche nel giudizio sommario ordinario di risoluzione del contratto per morosità. 
Al contrario, l'inquilino moroso di un immobile commerciale non ha diritto a sanare in tribunale i suoi debiti, a differenza di chi ha preso in locazione un'abitazione. Ciò è stato stabilito definitivamente dalle sezioni unite della Cassazione, con la sentenza n. 272 del 28 aprile 1999. Non si tratta di una decisione da poco, se si pensa che in 21 anni, e cioè dal varo della legge sull'equo canone che regola ancora oggi gli affitti non abitativi, si sono succedute numerosissime sentenze della Suprema corte su questo argomento, quasi tutte in contraddizione con quest'ultima decisione. La materia del contendere è l'articolo 55 della Legge sull'equo canone, dove si stabilisce che l'inquilino, alla prima udienza, può sanare "per non più di 3 volte nel corso di un quadriennio", l'importo dovuto per tutti i canoni scaduti e per le spese condominiali, maggiorato degli interessi legali e delle spese processuali. In questa sentenza
la Corte si è richiamata al fatto che l'art. 55, nel testo letterale, si riferisce alla "morosità del conduttore nel pagamento dei canoni o degli oneri di cui all'art. 5". Ebbene, è ormai pacifico che l'art. 5 riguarda solo ed esclusivamente gli affitti ad abitazione e non gli altri (tanto più che lo stesso art. 5 si richiama esplicitamente al 55). Viceversa nessun articolo che riguardi le locazioni non abitative vi fa riferimento. 

Le modalità dello sfratto per morosità 

Il primo atto da effettuare per ottenere lo sfratto di un inquilino moroso è costituito dalla compilazione di una lettera raccomandata con ricevuta di ritorno nella quale occorre sollecitare il pagamento degli affitti arretrati entro una data stabilita (15 giorni). 
È necessario quindi rivolgersi ad un avvocato per l'avvio della pratica legale di sfratto, se la morosità persiste. La suddetta pratica consiste nelle seguenti azioni: 
1) Intimazione di sfratto per morosità e contestuale citazione per la convalida presso il tribunale competente. Si tratta di un atto in cui si cita l'inquilino moroso a comparire davanti al Giudice e in cui viene fissata la data dell'udienza (da uno a due o tre mesi a seconda dei tribunali).
2) Il termine di grazia. Se l'inquilino si presenta all'udienza può chiedere il "termine di grazia", cioè un periodo di tempo entro cui poter pagare e saldare la morosità; il Giudice può concedergli fino a tre o quattro mesi per pagare.
3) Convalida. Se l'inquilino non si presenta o non si oppone, allora lo sfratto è convalidato e il Giudice fissa la data di esecuzione per il rilascio dell'immobile circa un mese dopo la data dell'udienza e manda l'atto alla Cancelleria per l'apposizione della formula esecutiva in cui si comanda a tutti gli Ufficiali Giudiziari di mettere in esecuzione l'atto di sfratto se richiesto, dando l'assistenza della forza pubblica.
4) L'atto di precetto. Se l'inquilino moroso non lascia l'appartamento entro la data fissata dal Giudice, occorre che il proprietario a mezzo del suo avvocato gli notifichi l'atto di precetto in cui gli si intima di rilasciare l'unità immobiliare entro circa 10 giorni dalla notifica e che in difetto si procederà con l'esecuzione forzata (la notifica di solito avviene a mezzo posta o a mezzo assistenti del tribunale, per cui se l'inquilino non si trova a casa, la notifica ritorna all'ufficio postale o nella Casa Comunale e, se non viene ritirata, rimane lì fino al termine della compiuta giacenza - uno o due mesi circa - e i tempi si prolungano ulteriormente).
5) Monitoria di sgombero. Se l'inquilino continua ad occupare l'immobile, occorre procedere con la "monitoria di sgombero": si tratta di un altro atto da notificare al conduttore nel quale l'Ufficiale Giudiziario del Tribunale comunica al moroso che in una determinata data, ad una determinata ora si recherà presso l'immobile che occupa per sfrattarlo nelle forme e nei modi di legge ed eventualmente usufruendo dell'assistenza della forza pubblica. 
In questa fase il proprietario deve dimostrare di essere in regola con le tasse (ICI, IRPEF, imposta di registro) fornendo all'avvocato copia delle ricevute di pagamento dei tributi che verranno allegate agli atti.
6) Ufficiale giudiziario. L'ultimo atto della procedura di sfratto per morosità è rappresentato dall'intervento dell'Ufficiale Giudiziario che eseguirà materialmente lo sfratto avvalendosi se necessario della forza pubblica e farà cambiare la serratura della porta dell'appartamento al fabbro, il quale deve essere stato preventivamente chiamato dal proprietario (che dovrà farsi carico della spesa relativa alla prestazione professionale dell'artigiano).
7) Verbale di rilascio. A conclusione dell'intero iter viene redatto il "verbale di rilascio immobile", atto in cui l'Ufficiale Giudiziario verbalizza l'avvenuto sfratto.
8) Inventario. Se nell'immobile sono rimasti i mobili dell'inquilino moroso, l'Ufficiale Giudiziario stilerà un dettagliato inventario degli stessi e nominerà il proprietario custode e responsabile degli averi che l'inquilino non è riuscito a portare via. Se l'inquilino non recupera i suoi averi, deve provvedere il proprietario a effettuare lo sgombero, a proprie spese, salvo poi rifarsi sull'inquilino.

 

11 - OBBLIGHI DEL LOCATORE E DEL CONDUTTORE

Le principali obbligazioni per le parti sono: 
1) per il locatore: 
- la consegna al conduttore della cosa locata in buono stato di manutenzione, esente da vizi o difetti (salvo quelli già conosciuti dal conduttore o di facile riconoscibilità) e munita degli accessori che normalmente l’accompagnano; 
- il mantenimento della cosa locata in modo che possa servire all’uso convenuto, eseguendo cioè le riparazioni necessarie, escluse quelle di piccola manutenzione o conseguenti a guasti prodotti dal conduttore, dai suoi familiari o dipendenti (qualora si tratti di riparazioni urgenti e indifferibili il conduttore può eseguirle direttamente, a spese del locatore, purché dia a questi immediato avviso); 
- far godere pacificamente la cosa data in locazione al conduttore, evitandogli molestie, sia proprie sia di terzi, e astenendosi dal compiere innovazioni che possano diminuire da parte del conduttore il godimento. 
2) per il conduttore: 
- la presa in consegna del bene locato e il custodirlo con diligenza; 
- il pagamento regolare alle date pattuite del corrispettivo della locazione; 
- il godimento della cosa, senza oltrepassare i limiti contrattuali (per esempio, adibendola ad un uso diverso da quello pattuito o sublocandola contro la volontà del locatore); 
- la restituzione, infine, al locatore della cosa al termine del contratto, nello stesso stato, salvo il normale deperimento d’uso, in cui la ricevette.

I diritti dell'inquilino

Gli inquilini sono assistiti da alcune associazioni di categoria (le principali sono: SUNIA, ANAC, ANIACO, ASIA, ASSOCASA, FEDERCASA, SAI-CISAL). Queste, molto attive, sono sorte al fine di tutelare da possibili rischi chi decide di prendere in affitto un appartamento, fornendo informazioni dettagliate circa la normativa vigente e prestando tutta una serie di servizi di natura pratica. Una di queste associazioni, il SUNIA, prendendo direttamente in considerazione i diritti dei conduttori, ha stilato un utile elenco di consigli per gli inquilini alle prese con la nuova legge sulle locazioni (Legge n. 431/1998) e un compendio delle più frequenti situazioni nelle quali si può trovare un inquilino alle prese con contratti proposti al fine di eludere la legge. Forniamo anche la lista, sempre preparata dal SUNIA, dei documenti necessari per la presentazione di un'istanza di proroga della locazione oltre al facsimile di una lettera predisposta dall'associazione per la rinegoziazione del contratto d'affitto. Riportiamo infine un elenco di accorgimenti di natura pratica utili al conduttore per garantirsi nell'ambito della locazione. 
Con la nuova legge sulle locazioni (Legge n. 431/1998) cambiano profondamente le norme che regolano il contratto di affitto per proprietari e inquilini. 
I nuovi diritti del conduttore sono i seguenti: 
1) l'inquilino può e deve pretendere il contratto scritto, reso obbligatorio dalla legge; 
2) il locatario deve registrare sempre il contratto; in primo luogo perché solo con la registrazione si possono ottenere le agevolazioni fiscali, e inoltre perché il canone di affitto denunciato nella registrazione è quello legale e non possono essere chiesti aumenti, maggiorazioni o integrazioni di vario tipo e richieste sottobanco; 
3) lo sfratto non può essere eseguito se il contratto non è stato registrato o se il proprietario non è in regola con il fisco; 
4) l'inquilino sotto sfratto per finita locazione può rinegoziare il contratto di affitto; 
5) in caso di vendita dell'appartamento l'inquilino ha il diritto di prelazione;
6) nel periodo di proroga dello sfratto non è dovuto alcun risarcimento per danno; l'inquilino deve pagare esclusivamente il canone di affitto maggiorato del 20%; 
7) il conduttore può impugnare il contratto di affitto qualora il canone corrisposto è superiore a quello denunciato presso l'ufficio unico delle entrate al momento della registrazione; 
8) per gravi motivi il locatario può interrompere il contratto in qualsiasi momento ; 
9) l'inquilino meno abbiente avrà diritto ad un contributo diretto attraverso il fondo sociale, oppure a portare in detrazione dalla dichiarazione dei redditi una parte dell'affitto.
Il conduttore può inoltre partecipare alle assemblee condominiali. L'inquilino ha diritto di voto, al posto del proprietario dell'appartamento, nelle delibere dell'assemblea condominiale relative alle spese e alle modalità di gestione dei servizi di riscaldamento e di condizionamento d'aria.
Può inoltre intervenire, ma senza diritto di voto, sulle delibere relative alla modificazione degli altri servizi comuni del condominio.

Il Fisco

I proprietari e gli inquilini degli appartamenti in affitto sono chiamati entrambi a pagare le tasse; le imposte che gravano sulle abitazioni vengono infatti attribuite in parte al possessore dell'immobile e in parte al 
conduttore. Con l'introduzione dei nuovi contratti di affitto regolato si sono aggiunte anche alcune agevolazioni di natura fiscale: detrazioni IRPEF, riduzione dell'imposta di registro e possibilità di riduzioni sull'ICI. Uno degli aspetti della tassazione sugli immobili è quello relativo alle tasse sui contratti di locazione, cioè all'imposta di registro (oppure all'IVA) e alla tassa di bollo.
La legge dispone tuttavia che i contratti già avviati secondo le precedenti normative (equo canone, patti in deroga) continuino ad essere regolati, anche da un punto di vista fiscale, dalle rispettive norme fino alla scadenza naturale. Sono a tutt'oggi in vigore le norme relative alla tassazione ordinaria valida per i vecchi contratti e per i nuovi contratti liberi oltre a quelle riguardanti la tassazione agevolata per i contratti regolati. 

 

12 - IL NUOVO PROCESSO LOCATIZIO

Uno dei motivi che hanno portato alla crisi dell’istituto della locazione immobiliare è riconducibile alla convinzione dei locatori, oramai radicata dopo decenni di esperienza diretta, di non riuscire a rientrare in possesso dell’immobile alla naturale scadenza del contratto. Questa difficoltà è riconducibile ad un doppio ordine di cause: da una parte l’inquilino incontra sempre maggiori difficoltà nel trovare un nuovo 
appartamento dove trasferirsi e, magari anche per risparmiare, visto che andrebbe il più delle volte a pagare un canone più alto, rinvia il momento del rilascio dell’immobile. Dall’altra parte lo Stato, pur con l’approvazione di nuove norme in sede parlamentare, non riesce a restituire ai proprietari la certezza di ritornare in possesso del bene alla scadenza del contratto di locazione; questo è dovuto agli inevitabili conflitti tra le forze politiche che conducono inevitabilmente all’approvazione di leggi che, nel cercare di mediare gli opposti interessi, finiscono per non accontentare nessuno; e se pur vi fosse una norma ben congegnata, da sempre esiste la possibilità di derogarvi o di prorogarne l’efficacia (vedi le innumerevoli proroghe per l’esecuzione dei provvedimenti di sfratto). Dopo aver delineato il quadro della situazione è ora opportuno passare all’esame delle norme del Codice di Procedura Civile sul procedimento per la convalida dello sfratto, passaggio necessario per il proprietario al fine di rientrare in possesso del bene locato. Tali norme sono quelle contenute negli articoli da
657 a 669 del citato codice e, disciplinando lo svolgimento del processo, fissano le modalità e la forma dell’intimazione di sfratto per finita locazione e per morosità, il giudice competente, la costituzione delle parti, l’ordinanza di rilascio e di convalida e le opposizioni proponibili avverso di esse. Si tratta di norme che portano il più delle volte il proprietario ad avere in mano il "pezzo di carta" che lo potrebbe far tornare in possesso del bene ma tale possibilità viene poi resa quasi impossibile dalla procedura di esecuzione del provvedimento del giudice. 
La nuova legge sulle locazioni ad uso abitativo (Legge 9 dicembre 1998, n. 431) ha dettato alcune norme sull’esecuzione dei provvedimenti di rilascio degli immobili, stabilendo che condizione necessaria per la messa in esecuzione del provvedimento di rilascio dell'immobile locato è la dimostrazione, da parte del locatore, che il contratto di locazione sia stato registrato, che l'immobile sia stato denunciato ai fini dell'applicazione dell'ICI e che il reddito derivante dall'immobile medesimo sia stato dichiarato ai fini dell'applicazione delle imposte sui redditi. Nel precetto in cui il locatore intima al conduttore di adempiere l’obbligo di rilasciare l’immobile devono, perciò, essere indicati gli estremi di registrazione del contratto di locazione, gli estremi dell'ultima denuncia dell'unità immobiliare alla quale il contratto si riferisce ai fini dell'applicazione dell'ICI, gli estremi dell'ultima dichiarazione dei redditi nella quale il reddito derivante dal contratto è stato dichiarato nonché gli estremi delle ricevute di versamento dell'ICI relative all'anno precedente a quello di competenza.
L’articolo 6 della stessa Legge n. 431 del 1998 contiene tutta una serie di casi in cui la messa in 
esecuzione dei provvedimenti di rilascio di immobili adibiti ad uso abitativo per finita locazione può essere sospesa e disciplina lo svolgimento delle trattative tra le parti per la stipula di un nuovo contratto di locazione regolato dalle nuove norme.

Svolgimento del processo

Il processo in materia di locazioni segue le norme dettate dal Codice di Procedura Civile (articoli da 657 a 669) e più precisamente rientra nel novero dei cosiddetti procedimenti speciali ed è collocato nel più ristretto ambito dei procedimenti sommari. Tali procedimenti assicurano (o almeno dovrebbero assicurare) una tutela assai maggiore, rispetto ai procedimenti ordinari, del diritto da essi protetto in quanto l’iter procedimentale risulta, pur con il necessario contraddittorio delle parti, semplificato e quindi destinato ad una più rapida definizione. Fanno da compendio a tali norme quelle contenute nelle leggi che disciplinano la locazione, ora contenute nella Legge 9 dicembre 1998, n. 431 (articoli 6 e 7). 
Quando il locatore - alla scadenza naturale del contratto o prima, nel caso di morosità del
conduttore nel pagamento dei canoni - vuole rientrare in possesso dell’immobile e l’inquilino non intende invece rilasciare il bene, deve rivolgersi al giudice per dare inizio al procedimento di convalida dello sfratto.

Il procedimento per convalida di Sfratto

Il procedimento ha generalmente inizio con l’intimazione di licenza e di sfratto per finita locazione. Il locatore o il concedente può infatti intimare al conduttore, all'affittuario coltivatore diretto, al mezzadro o al colono, licenza per finita locazione, prima della scadenza del contratto, con la contestuale citazione davanti al giudice per la convalida, rispettando i termini prescritti dal contratto, dalla legge o dagli usi locali. Nel caso in cui il contratto sia già scaduto gli stessi soggetti possono intimare lo sfratto, con la contestuale citazione per la convalida, se, in virtù del medesimo contratto o anche per effetto di atti o intimazioni precedenti, sia esclusa la tacita riconduzione. 
La notificazione dell’atto 
Per ciò che concerne la forma dell’intimazione, essa deve essere notificata a norma degli articoli 137 e seguenti del Codice di Procedura Civile, a mezzo di ufficiale giudiziario con consegna dell’atto nelle mani del destinatario, fatto salvo il caso della notificazione al domicilio eletto per la quale è sufficiente la consegna della copia dell’atto nelle mani della persona presso la quale si è eletto domicilio. 
Il locatore deve dichiarare nell'atto la propria residenza o eleggere domicilio nel comune dove ha sede il giudice adito. In caso contrario l'opposizione alla convalida e qualsiasi altro atto del giudizio possono essergli notificati presso la cancelleria. 
La citazione per la convalida deve contenere l'invito rivolto al destinatario dell’atto a comparire nell'udienza indicata e l'avvertimento che se non comparisce o, comparendo, non si oppone, il giudice convalida la licenza o lo sfratto. 
Tra il giorno della notificazione dell'intimazione e quello dell'udienza debbono intercorrere termini liberi non minori di venti giorni. In alcuni casi particolari (cause che richiedono pronta spedizione) il giudice può, su istanza dell'intimante, con decreto motivato, scritto in calce all'originale e alle copie dell'intimazione, abbreviare fino alla metà i termini di comparizione. 
La costituzione delle parti 
Le parti si possono costituire o depositando in cancelleria l'intimazione con la relazione di notificazione o la comparsa di risposta, oppure presentando tali atti al giudice in udienza. 
Una particolare procedura si segue se l'intimazione non è stata notificata in mani proprie; in tal caso l'ufficiale giudiziario deve spedire avviso all'intimato dell'effettuata notificazione a mezzo di lettera raccomandata e allegare all'originale dell'atto la ricevuta di spedizione. 
Fino all’entrata in vigore della recentissima riforma del processo civile, concretizzatasi con la costituzione del giudice unico di primo grado, la competenza sui procedimenti di convalida dello sfratto era del pretore. Ora, quando si intima la licenza o lo sfratto, la citazione a comparire deve farsi inderogabilmente davanti al tribunale del luogo in cui si trova la cosa locata. 
L’ordinanza di convalida e l’ordinanza di rilascio 
In caso di mancata comparizione del locatore all'udienza fissata nell'atto di citazione, cessano gli effetti dell'intimazione.
Nel caso invece di mancata comparizione o mancata opposizione dell'intimato all'udienza fissata nell'atto di citazione, il giudice convalida la licenza o lo sfratto e dispone, con ordinanza in calce alla citazione, l'apposizione su di essa della formula esecutiva.
Se invece risulta o appare probabile che l'intimato non abbia avuto conoscenza della citazione o non sia potuto comparire per caso fortuito o forza maggiore, il giudice deve ordinare che sia rinnovata la citazione. 
Se lo sfratto è stato intimato per mancato pagamento del canone, la convalida è subordinata all'attestazione in giudizio del locatore o del suo procuratore che la morosità persiste e in tale caso il giudice può ordinare al locatore di prestare una cauzione.
Diverso è invece il caso in cui l'intimato comparisce in giudizio e oppone eccezioni non fondate però su prova scritta. In questo caso il giudice, su istanza del locatore, se non sussistono gravi motivi in contrario, pronuncia ordinanza non impugnabile di rilascio, con riserva delle eccezioni del convenuto. Tale ordinanza è immediatamente esecutiva anche se può essere subordinata alla prestazione di una cauzione per i danni e le spese. 
L’opposizione nei termini e l’opposizione tardiva 
Se l'intimazione di licenza o di sfratto è stata convalidata in assenza dell'intimato, questi può farvi opposizione fornendo però la prova di non avere avuto tempestiva conoscenza dell’intimazione stessa, o per irregolarità della notificazione o per caso fortuito o forza maggiore. Nel caso in cui l’intimato abbia avuto tempestiva conoscenza della citazione ma non sia potuto comparire per forza maggiore o caso fortuito,
la Corte costituzionale, pronunciandosi in merito alla formulazione dell’articolo 668 del Codice di Procedura Civile, ha ammesso la possibilità di proporre l’opposizione tardiva. Sarà, però, onere del soggetto impossibilitato a presentarsi dimostrare la forza maggiore e il caso fortuito. 
Se sono decorsi dieci giorni dall'esecuzione, l'opposizione non è più ammessa. 
L'opposizione si propone davanti al tribunale nelle stesse forme prescritte per l'opposizione al decreto di ingiunzione ma non ha l’effetto di sospendere il processo esecutivo, a meno che il giudice, ritenendo che sussistono gravi motivi, con ordinanza non impugnabile, disponga ugualmente la sospensione. 
Lo sfratto per morosità 
Il locatore, in caso di mancato pagamento del canone di affitto alle scadenze pattuite, può intimare al conduttore lo sfratto con le stesse modalità previste per la finita locazione e può chiedere nello stesso atto l'ingiunzione di pagamento per i canoni scaduti. 
Se il locatore non chiede anche il pagamento dei canoni, la pronuncia sullo sfratto risolve la locazione, ma lascia impregiudicata ogni questione sui canoni stessi. Tale questione andrà quindi riesaminata in un nuovo giudizio.
Se il canone consiste in derrate, il locatore deve dichiarare la somma che è disposto ad accettare in sostituzione. 
Nel caso di intimazione di sfratto per morosità, il giudice adito pronuncia separato decreto di ingiunzione per l'ammontare dei canoni scaduti e di quelli che scadranno fino all'esecuzione dello sfratto, e per le spese relative all'intimazione. 
Il decreto è redatto in calce ad una copia dell'atto di intimazione presentata dall'istante, da conservarsi in cancelleria. 
Tale decreto è immediatamente esecutivo, anche se è suscettibile di opposizione. L'opposizione non toglie però efficacia all'avvenuta risoluzione del contratto. 
Diverso è il caso in cui vi è contestazione sull'ammontare dei canoni. 
Infatti se viene intimato lo sfratto per mancato pagamento del canone, e il convenuto nega la propria morosità contestando l'ammontare della somma pretesa, il giudice può disporre con ordinanza il pagamento della somma non controversa e può concedere al convenuto un termine non superiore a venti giorni.

 

13 - TASSAZIONE ORDINARIA

Per i contratti pluriennali di locazione e sublocazione, inquilino e proprietario devono versare  l'imposta di registro. Tale imposta ammonta al 2% dell'importo dell'affitto annuo (Dpr n. 131/1986, art. 17) e, divisa in parti uguali tra i due i contraenti, può essere corrisposta annualmente oppure liquidata in un'unica soluzione alla registrazione del contratto. Quest'ultima soluzione prevede uno sconto pari alla metà del tasso di interesse legale moltiplicato il numero delle annualità. In caso di scioglimento anticipato del contratto, si avrà diritto a un rimborso. Le quote devono essere versate entro e non oltre venti giorni dall'inizio della locazione (data coincidente con la conclusione del contratto). La cifra sulla quale va effettuato il calcolo della tassa deve tenere in considerazione gli aggiustamenti ISTAT e gli adeguamenti del canone (per esempio, gli aumenti per interventi di manutenzione effettuati dal proprietario), a meno che non si opti per un'unica soluzione (in questo caso non andranno considerati).
L'imposta di registrazione va arrotondata alle pari
Indipendentemente dal valore del canone complessivo, esiste un importo minimo da versare fissato a 50 euro. 
Gli oneri a carico del proprietario 
La tassazione dei canoni d'affitto avviene sulla base degli importi fissati contrattualmente e delle rivalutazioni applicate ai sensi di legge. Pertanto, il mancato pagamento degli importi dovuti da parte dell'inquilino non ha rilevanza sulla dichiarazione dei redditi del proprietario, che deve dichiarare il reddito sul canone annuale fissato, a meno che non abbia stipulato un contratto regolato.
Il vero e proprio imponibile IRPEF è costituito da un importo più basso della somma degli affitti, detto "reddito effettivo" e pari all'85% delle competenze annuali. Il reddito si dichiara effettivo tutte le volte che è più alto della rendita catastale dell'immobile (e cioè quasi sempre). La deduzione del 15% per determinare il reddito effettivo è concessa in maniera forfettaria e comprende tutte le spese di competenza del proprietario.
Il contribuente che possieda solo redditi immobiliari inferiori a 186 Euro annue è esonerato dalla presentazione della dichiarazione dei redditi e dal pagamento delle relative imposte.
La tassazione dei redditi derivanti da immobili affittati è soggetta alle norme dell'imposizione progressiva: i redditi immobiliari si sommano agli altri redditi posseduti dal soggetto e concorrono ai diversi scaglioni d'imposta.
Dunque, il proprietario di una casa in affitto (posto che il reddito derivante dall'immobile non sia per lui prevalente rispetto agli altri) paga le imposte sul reddito immobiliare secondo l'aliquota marginale, praticamente la massima che gli spetta.
A queste tasse si aggiunge la quota annuale dell'imposta di registro (50% dell'importo a carico del proprietario) e l'ICI, che si calcola applicando all'ammontare delle rendite risultanti in Catasto alcuni moltiplicatori predeterminati, le aliquote, che i Comuni possono ridurre, fino ad azzerare, su tutte le abitazioni principali. Senza interventi del Comune, rimane lo sconto di 100 euro previsto dallo Stato.
Una certa cautela va osservata per gli immobili storici. La norma che riduce l'imponibile alla sola rendita catastale secondo la tariffa più bassa in vigore nella zona non viene normalmente riconosciuta dal fisco in caso di affitto.
Molti proprietari hanno perciò preferito dichiarare comunque il reddito effettivo e chiedere le relative imposte a rimborso basandosi sulla norma più favorevole.
Dal 1999 (e quindi per la prima volta nella dichiarazione presentata nel maggio del 2000) l'imponibile fiscale dei proprietari viene calcolato su quanto effettivamente percepito e non più sugli affitti di competenza come da contratto. In questo modo non si pagano le tasse su canoni ipotetici ma su quelli reali. Nel Dpr n. 917/1986, l'articolo 23 è stato modificato: "I redditi derivanti da locazione di immobili ad uso abitativo, se non percepiti, non concorrono alla formazione del reddito dal momento della conclusione del procedimento giurisdizionale di convalida di sfratto per morosità del conduttore".
Inoltre, per le imposte versate sui canoni venuti a scadere e non percepiti come da accertamento nell'ambito dello stesso procedimento, è riconosciuto un credito d'imposta di pari ammontare. 
Gli oneri a carico dell'inquilino 
L'inquilino, a differenza del proprietario, non paga IRPEF sulla casa e ICI, ma se svolge un'attività imprenditoriale in un locale in affitto è tenuto a versare l'imposta regionale sulle attività produttive (IRAP). Tale imposta grava sulle persone fisiche, le società, gli enti pubblici e privati, le associazioni non riconosciute e sui consorzi.
A seconda del contratto, le locazioni possono essere passive di IVA o di imposta di registro. Non possono, per esempio, essere gravate da IVA quelle locazioni non finanziarie e gli affitti di aree la cui destinazione sia diversa dal parcheggio di veicoli e quei fabbricati con annesse pertinenze, destinati al servizio degli immobili locati e quelli destinati a uso di civile abitazione. 
Per le locazioni passive di IVA, la tassa varia a seconda del tipo di fabbricato. Per gli immobili dati in affitto da soggetti passivi di imposta, l'IVA è del 20% se si tratta di edifici strumentali, mentre è del 10% se il loro uso è per abitazione civile, locazione da parte di imprese costruttrici o acquisto per scopo di rivendita. Una nota della direzione generale del Catasto stabilisce quando i fabbricati sono definiti strumentali. 

Tassazione agevolata

La riforma della locazione (Legge n. 431/1998) concede alcuni sconti fiscali a chi opta per il contratto regolato e risiede in un Comune ad alta tensione abitativa. Le agevolazioni consistono in una detrazione IRPEF e in una riduzione dell'imposta di registro e saranno ottenute dietro presentazione degli estremi del contratto, della denuncia fiscale e del pagamento dell'ICI (vedi anche circolare n. 150/E del 1999).
È prevista inoltre per tutti i Comuni la possibilità di stabilire aliquote ICI più basse per gli immobili affittati con contratto regolato.
Le agevolazioni non riguardano la sola casa d'abitazione tradizionale: anche le case per gli studenti universitari possono rientrare nei contratti controllati, dunque usufruire delle agevolazioni fiscali. Restano invece esclusi gli alloggi ad uso esclusivamente turistico e quelli di edilizia residenziale pubblica (lo Stato non è soggetto IRPEF). Gli immobili storici e quelli di lusso o in ville accedono, invece, per la prima volta ad agevolazioni se saranno affittati con i nuovi contratti regolati.
Sono soggetti ad agevolazione fiscale per l'IRPEF i contratti che rientrano nel secondo canale di locazione stipulati nei Comuni ad alta tensione abitativa. Nelle altre località si possono comunque sfruttare le agevolazioni ICI se i Comuni deliberano in tal senso. Le maggiorazioni ICI per le case sfitte sono, invece, possibili solo nei Comuni ad alta tensione abitativa. Ai soggetti titolari di contratti di locazione di unità immobiliari adibite ad abitazione principale ai sensi dell'art. 13-ter del Tuir spetta una detrazione di 330 euro circa se il reddito complessivo non supera i 15.500 euro l’anno e di euro 165 se il reddito complessivo supera i 15.500 euro l’anno,  ma non 31.000.
Le agevolazioni ai fini IRPEF 
I proprietari che aderiscono al contratto regolato hanno diritto ad un'ulteriore detrazione IRPEF del 30% e non devono più pagare le tasse sui canoni richiesti ma non percepiti, come succedeva in precedenza. Con un provvedimento del giudice, che, convalidando lo sfratto, accerti la morosità, è possibile anche ottenere rimborsi per le tasse sugli affitti non riscossi.
In pratica, l'immobile affittato viene tassato sulla base del reddito effettivo (quello incassato) ricavato dall'affitto, ma a condizione che sia maggiore della rendita catastale, che dunque costituisce il limite minimo tassabile. Il modulo per la dichiarazione per i redditi riporterà un riquadro per l'indicazione degli estremi di registrazione del contratto e della dichiarazione iniziale ICI. Questi dati apriranno la strada a una riduzione dell'imponibile del 30% per i canoni di locazione di immobili abitativi situati nelle città ad alta tensione abitativa e affittati secondo i contratti controllati, sia nuovi sia rinnovati con la legge n. 431/1998.
Per esempio, un affitto di 4132,00 euro l'anno oggi è tassato (secondo la riduzione concessa dal Dpr n. 917/1986, art. 34, pari al 15% per tutti) su Euro 3.512 (ovvero 4132 euro di lordo contrattuale meno il 15%: 620 euro). Con i contratti regolati verrà tassato su Euro 2.458,33, ovvero dai 3.512 Euro  precedenti va detratto un ulteriore 30% pari a 1.053,57 euro. La riduzione (15% + 30% sull'85%) sale così al 40,5% del totale. Quindi, la nuova agevolazione si cumula con la riduzione del 15% già prevista su spese e oneri della proprietà.
Secondo questo esempio, un contribuente potrà ridurre l'IRPEF sull'affitto percepito di un importo compreso tra i 310 euro e 516 euro.
Anche gli inquilini che non oltrepassano un determinato reddito possono beneficiare di sgravi fiscali sotto forma di detrazione d'imposta.
Questa detrazione viene concessa agli inquilini non proprietari di altre case dal 1999 (nelle dichiarazioni presentate nel 2000) ed è pari alla detrazione per i proprietari della prima casa. 
Gli sconti sull'imposta di registro 
L'imponibile, attualmente pari all'affitto intero dell'anno, si riduce del 30%. Per esempio, se un affitto di 4.132 euro annui oggi è assoggettato a un'imposta di registro di circa 83 euro , con i contratti regolati, nelle città ad alta tensione abitativa, l'imponibile si ridurrà al 70% in base al seguente calcolo: importo contrattuale (4132 Euro) meno il 30% di detrazione (1.240 Euro) arriva a dare un imponibile di 2.892 Euro. L'imposta di registro si calcola come il 2% di tale cifra, cioè 57,84 Euro annue (vedi anche circolare n. 15/E del 1999).
Ricordiamo che qualora l'imposta di registro (ridotta) scendesse al di sotto dei 50 Euro sarà comunque necessario versare tale importo, considerato il minimo fissato dalla legge. 
Le possibilità relative all'ICI 
Sul fronte dell'ICI i Comuni, a partire dal '99, possono ridurre l'aliquota (anche al di sotto del 4 per mille) per gli immobili affittati con contratti regolati. Allo stesso modo, le amministrazioni locali di zone ad alta tensione abitativa hanno la possibilità di aumentare l'ICI fino al 9 per mille sulle case per le quali non risultino registrati contratti d'affitto da oltre due anni.

 

 

LA COMPRAVENDITA

 

1. NOZIONE E NATURA GIURIDICA

La nozione di compravendita è data dall'art. 1470 c.c.: ala vendita è il contratto che ha per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa o il trasferimento di altro diritto verso il corrispettivo di un prezzo».

La compravendita è quindi un contratto traslativo, nel senso che produce il trasferimento di un diritto, ai sensi del principio del consenso traslativo che vige nel nostro ordinamento (art. 1376 c.c.).

È possibile distinguere due tipi di vendita:

‑ la vendita reale, quando il trasferimento del diritto, in perfetta aderenza al principio consensualistico, non necessita di nessun altro elemento oltre il consenso delle parti; gli obblighi che nascono dal contratto a carico del compratore e del venditore si situano, infatti, sul piano meramente esecutivo;

‑ la vendita obbligatoria, quando il trasferimento del diritto necessita, invece, di ulteriori fatti oltre al consenso delle parti.

La compravendita è un contratto:

‑ consensuale. È infatti sufficiente l'accordo delle parti (consenso) per il perfezionamento del contratto;

‑ ad effetti reali. La compravendita produce gli effetti di cui all'art. 1376 c.c., ossia il trasferimento di un diritto, reale o di credito; anche la vendita obbligatoria ha tale qualità, essendo l'effetto reale comunque conseguenza diretta del contratto e ponendosi gli ulteriori fatti, richiesti per il trasferimento, all'esterno della fattispecie contrattuale;

‑ ad attribuzioni corrispettive. Le prestazioni alle quali sono tenute le parli sono in rapporto di interdipendenza, nel senso che ciascuna è causa dell'altra.

È più corretto parlare di attribuzioni reciproche e non di prestazioni, non essendoci, normalmente, spazio per un'obbligazione in senso tecnico del venditore, dato che il trasferimento del diritto è effetto del semplice perfezionarsi del contratto;

‑ commutativo. È possibile conoscere sin dal momento della conclusione del contratto l'entità del sacrificio che ciascuna parte dovrà sopportare;

‑ non di durata. Nei contratti di durata la prestazione è durevole nel tempo e presenta un'utilità, per le parti, proprio per questo suo durare; nella compravendita, invece, la prestazione è istantanea ed anche nel caso di vendita a consegna ripartita il frazionamento della prestazione è una semplice modalità di esecuzione della stessa;

‑ a partecipazione bilaterale. Nella vendita, infatti, necessariamente devono esistere una parte venditrice ed una parte compratrice. Nel caso in cui vi siano più compratori o più venditori si sarà in presenza di una parte complessa (cioè formata da più di un soggetto).

 

ELEMENTI

 

Gli elementi del contratto di compravendita sono: l'accordo delle parti; la causa; l'oggetto; la forma.

L'accordo delle parti è disciplinato dalla normativa prevista in tema di contratto in generale (artt. 1326‑1342 c.c.).

Per la forma è valido il principio generale della libertà della forma mentre il formalismo costituisce l'eccezione: vale, ad esempio, per la vendita dei beni immobili e dei mobili registrati che deve essere fatta, a pena di nullità, per scrittura privata o per atto pubblico (art. 1350 c.c.).

L'oggetto deve essere, ai sensi dell'ari. 1346 c.c., possibile, lecito, determinato o determinabile.

È espressamente prevista l'applicazione della determinabilità dell'oggetto ad opera di un terzo (arbitratore), ex ari. 1473 c.c..

Oggetto del contratto di compravendita può anche essere un bene futuro, anzi la vendita di cosa futura è espressamente prevista e disciplinata dal codice civile dall'art. 1472.

 

2. IL PREZZO

 

La causa della vendita è caratterizzata dal prezzo, cioè dalla somma di denaro pagata dall'acquirente al venditore come corrispettivo del bene trasferito.

Il prezzo distingue il contratto di vendita da quello di permuta, che si caratterizza per lo scambio di bene con bene, e da altri contratti atipici che realizzano uno scambio di una cosa con un fare.

Il prezzo è, di norma, contrattualmente determinato dalle parti, ma, ex art. 1473 c.c., quale applicazione della più generale figura dell'arbitraggio prevista dall'art. 1349 c.c., le parti possono affidare ad un terzo la sua determinazione. Questi dovrà procedere secondo equo apprezzamento, trovando applicazione, in mancanza di una norma contraria, il 1 ° comma dell'art. 1349 c.c.: occorrerà, dunque, una apposita convenzione derogatrice per la determinazione secondo mero arbitrio del terzo.

In mancanza di determinazione del prezzo compiuta dalle parti, o di ricorso ad un terzo arbitratore, la legge interviene, in omaggio al principio della conservazione del contratto, stabilendo una serie di criteri (art. 1474 c.c.):

‑ se il contratto ha per oggetto cose che il venditore vende abitualmente, si presume che le parti abbiano voluto riferirsi al prezzo normalmente praticato dal venditore (criterio del prezzo del venditore);

‑ se si tratta di cose aventi un prezzo di borsa o di mercato, il prezzo si desume dai listini o dalle

mercuriali del luogo in cui deve essere eseguita la consegna, o da quelli della piazza più vicina

(criterio del prezzo corrente);

‑ qualora le parti abbiano inteso riferirsi al giusto prezzo, si applicano le disposizioni dei commi precedenti; e, quando non ricorrano i casi da essi previsti, il prezzo, in mancanza di accordo, è determinato da un terzo, nominato a norma del 2° comma dell'art. 1473 c.c. (criterio del giusto prezzo).

 

 

3. LE OBBLIGAZIONI DEL VENDITORE

 

Ex art. 1476 c.c. le obbligazioni del venditore sono:

‑ quella di consegnare la cosa al compratore;

‑ quella di fargli acquistare la proprietà della cosa o il diritto, se l'acquisto non è effetto immediato del contratto (vendita obbligatoria);

‑ quella di garantire il compratore dall'evizione e dai vizi della cosa.

Il bene deve essere consegnato nello stato in cui si trova al momento della vendita e, salva diversa volontà delle parti, devono essere consegnati anche gli accessori, le pertinenze ed i frutti dal giorno della vendita stessa.

 

 

L'OBBLIGAZIONE DI GARANTIRE IL COMPRATORE DALL'EVIZIONE E DAI

    VIZI

 

Tre sono i rimedi previsti dal legislatore a favore del compratore:

‑ la garanzia per evizione;

‑ la garanzia per vizi;

‑ la garanzia per mancanza di qualità della cosa.

L'evizione si verifica allorché il compratore sia privato del bene, oggetto del contratto di compravendita, a causa dell'esistenza di un diritto, vantato da un terzo, sul bene stesso.

L'evizione può essere:

‑ totale, quando il compratore è privato dell'intero bene;

‑ parziale, quando il compratore è privato solo parzialmente del bene acquistato;

‑ limitativa, quando un tetto vanta un diritto limitato, reale o personale sul bene.

Le azioni a favore del compratore evitto sono previste dall'art. 1483 c.c., il quale rinvia all'art. 1479 c.c.:

‑ l'interesse negativo è tutelato, senza che abbia rilievo la colpa del venditore, dalle azioni di risoluzione e di riduzione del prezzo;

‑ (interesse positivo dell'acquirente è, invece, tutelato dall'azione di risarcimento del danno, esperibile solamente qualora vi sia stata la colpa del venditore.

Il venditore è tenuto poi:

‑ alla restituzione del prezzo, al rimborso del valore dei frutti che l'acquirente è obbligato a restituire al terzo che vanta diritti;

‑ al rimborso delle spese giudiziali ed in particolare delle spese necessarie per la denunzia della lite al venditore (denunzia obbligatoria per l'acquirente ai sensi dell'art. 1485 c.c.) e quelle che debbono essere rimborsate all'evincente vittorioso;

I termini brevi, previsti dal legislatore in materia, trovano la loro ratio nell'esigenza di tutelare la parte venditrice permettendogli di rivalersi, eventualmente, nei confronti di chi gli ha fornito il bene.

Infine il 1° comma dell'art. 1494 c.c. obbliga il venditore al risarcimento del danno (danno diretto), se non prova di aver ignorato senza colpa i vizi della cosa; il secondo comma dello stesso articolo prevede anche il risarcimento dei danni derivati dai vizi della cosa (danno indiretto).

Circa la garanzia per mancanza delle qualità promesse, l'art. 1497, 1 ° comma, c.c. stabilisce che quando la cosa venduta non ha le qualità promesse ovvero quelle essenziali per l' uso cui è destinata, il compratore ha diritto di ottenere la risoluzione del contratto, secondo le disposizioni generali sulla risoluzione per inadempimento, purché il difetto di qualità ecceda i limiti di tolleranza stabiliti dagli usi; egli ha, inoltre, diritto al risarcimento del danno eventualmente subito.

L'azione per assenza di qualità promesse rientra, quindi, nell'azione di risoluzione del contratto per inadempimento, il compratore però dovrà rispettare i termini di decadenza e di prescrizione previsti dall'art. 1495 c.c.

 

 

LE OBBLIGAZIONI DEL COMPRATORE

 

L’ obbligazione principale del compratore è quella di pagare il prezzo.

L’art. 1498 c.c. stabilisce che il prezzo deve essere pagato nel termine e nel luogo fissati dal contratto.

In mancanza di pattuizione e salvi gli usi diversi, il pagamento deve avvenire al momento della consegna e nel luogo dove questa si esegue.

Se il prezzo non si deve pagare al momento della consegna, il pagamento si fa al domicilio del venditore.

A norma dell'art. 1499 c.c., qualora la cosa venduta e consegnata al compratore produca frutti o altri proventi, decorrono gli interessi sul prezzo, anche se questo non è ancora esigibile.

Ex art. 1475 c.c., le spese del contratto di vendita sono a carico del compratore.

 

 

4. LA VENDITA OBBLIGATORIA

 

La vendita obbligatoria è un contratto già perfetto che però produce effetti traslativi solo in un momento successivo. Nella vendita obbligatoria è possibile distinguere:

‑ gli effetti obbligatori (irrevocabilità del consenso; impegno del venditore di far acquistare la proprietà della cosa o il diritto al compratore; obbligo del compratore di pagare il prezzo) che si verificano immediatamente sin dalla conclusione del contratto;

‑ gli effetti reali (trasferimento della cosa o del diritto) che si realizzano in un momento successivo.

 

Costituiscono ipotesi di vendita obbligatoria:

 

- la vendita di cosa futura. Si ha allorché il contratto di compravendita ha ad oggetto una cosa che non esiste al momento della conclusione dello stesso. L’art. 1472 c.c. stabilisce che l'acquirente acquista la proprietà del bene venduto allorché la cosa viene ad esistenza.

 

La vendita di cosa futura, rientrando nel più ampio schema della vendita obbligatoria, si perfeziona con il semplice consenso delle parti, e sin dal momento perfezionativo sorgono in testa alle parti gli effetti obbligatori; gli effetti finali, invece, sono differiti al momento in cui viene ad esistenza la cosa venduta.

Il 2° comma dell'art. 1472 c.c. stabilisce che, qualora le parti non abbiano voluto concludere un contratto aleatorio, la vendita è nulla, se la cosa non viene ad esistenza;

 

- la vendita di cosa altrui. È prevista dal codice civile all'art. 1478 il quale stabilisce che «se al momento del contratto la cosa venduta non era di proprietà del venditore, questi è obbligato a procurare 1 acquisto al compratore. Il compratore diventa proprietario nel momento in cui il venditore acquista la proprietà dal titolare di essa».

 

La vendita di cosa altrui rappresenta, quindi, un'ipotesi per così dire, fisiologica, nel senso che la fattispecie si realizza soltanto nel caso in cui il contratto ha espressamente per oggetto una cosa altrui o nel caso in cui il compratore sapeva dell' alienità della cosa. Se, al contrario, il venditore ha venduto per propria una cosa di proprietà aliena, al compratore sarà consentito l'esperimento dei normali mezzi a sua difesa quali la risoluzione del contratto e la richiesta di risarcimento dei danni.

 

Anche la vendita di cosa altrui, così come la vendita di cosa futura, rientra nella più ampia categoria della vendita obbligatoria: sin dalla conclusione del contratto, che avviene con la prestazione del semplice consenso delle parti, sorgono, infatti, immediatamente effetti obbligatori sia per il venditore (l'obbligo di procurarsi il bene) sia per l'acquirente (l'obbligo di pagare il prezzo). Gli effetti reali del negozio si realizzano, invece, in un momento successivo e precisamente nel momento in cui il bene entra nel patrimonio giuridico del venditore: solo allora, infatti, il compratore diverrà automaticamente proprietario del bene oggetto del contratto.

 

II venditore può adempiere il suo obbligo facendo acquistare il bene venduto all'acquirente o in via diretta o in via indiretta e cioè:

           la prima ipotesi si realizza allorché egli acquisti, in qualsiasi modo, il bene oggetto del contratto;

           la seconda ipotesi si realizza, invece, allorché il venditore stipuli con l'attuale proprietario del bene un contratto a favore di terzi, stabilendo l'alienazione del bene a favore dell'acquirente del contratto di compravendita;

 

- la vendita con riserva di proprietà. Regolata dagli artt. 1523‑1526 c.c., è caratterizzata dal fatto che il venditore, pur trasferendo sin dal momento della conclusione del contratto il godimento del bene venduto ali acquirente, rimane proprietario dello stesso sino all'integrale pagamento del prezzo, che è invece differito nel tempo.

 

Tale tipo di vendita ha trovato larga utilizzazione soprattutto nella vendita a rate, costituendo un'ottima garanzia per il credito del venditore al pagamento del prezzo. Per quanto riguarda la natura giuridica di tale contratto, è discusso se si tratta di vendita sottoposta alla condizione del pagamento dell' ultima rata, oppure di vendita obbligatoria, oppure, infine, di vendita a scopo di garanzia, con la costituzione di un diritto reale di garanzia a favore del venditore;

 

Il compratore, ai sensi dell'art. 1523 c.c., assume i rischi del bene venduto sin dalla consegna, pur non essendo ancora proprietario, e ciò è spiegabile avendo l'acquirente immediatamente il diritto di godimento e quindi il contatto diretto col bene.

Il codice poi prevede che il mancato pagamento di una sola rata che non ecceda l'ottava parte del prezzo, non dà luogo alla risoluzione del contratto ed il venditore potrà agire giudizialmente solo per il pagamento della rata scaduta (art. 1525 c.c.). In caso di risoluzione del contratto (se la singola rata supera l'ottavo del prezzo o se l'inadempimento si protrae per più rate), inoltre, il venditore ha diritto di riottenere il bene, dovendo però restituire al compratore le rate riscosse, salvo il suo diritto ad un equo compenso, oltre al risarcimento per eventuali danni (art. 1526 c.c.).

 

‑ la vendita di cose generiche. Il bene oggetto del contratto, è individuato solamente per la sua appartenenza ad un genere e non nella sua individualità fisica.

Nella vendita di cose generiche la proprietà è trasferita all'acquirente al momento dell'individuazione del bene.

Si è, quindi, nell'ambito della vendita obbligatoria dove il momento ulteriore, che segna il trasferimento della proprietà, è costituito dall'individuazione del bene venduto: con ciò, infatti, la cosa, indicata solamente per la sua appartenenza ad un genere, si concretizza in un bene specifico;

 

‑ la vendita alternativa. Si ha quando un soggetto si obbliga a trasferire uno di due o più beni specifici dedotti in contratto.

Il trasferimento del diritto si realizzerà al momento della concentrazione cioè quando viene esercitata la facoltà di scelta (che di regola, spetta al venditore). Il legislatore disciplina, inoltre, le modalità e i termini di esercizio di tale facoltà (art. 1287 c.c.) nonché l'eventuale impossibilità della prestazione (artt. 1288, 1289 c.c.).

 

 

 

 

 

5. LA VENDITA CON PATTO DI RISCATTO

 

L’art. 1500 c.c., nel disciplinare il patto di riscatto, stabilisce che il venditore può riservarsi il diritto di riavere la proprietà della cosa venduta mediante la restituzione del prezzo ed i rimborsi indicati dalle norme successive.

La vendita con patto di riscatto è caratterizzata, quindi, dalla facoltà che il venditore ha di riottenere il bene venduto mediante la restituzione, entro un termine stabilito, del prezzo e dei previsti rimborsi.

La funzione di tale tipo di vendita consiste nel concedere al venditore, necessitante temporaneamente di denaro liquido, di riacquistare il bene alienato una volta che è ritornato in una buona situazione di liquidità.

Per impedire che vi sia un approfittamento della situazione da parte del venditore, il secondo comma del medesimo articolo stabilisce che «il patto di restituire un prezzo superiore a quello stipulato per la vendita è nullo per l’ eccedenza».

Il patto di riscatto, in quanto patto accessorio alla vendita, necessita degli stessi requisiti formali; esso, inoltre, deve necessariamente essere contestuale al contratto di compravendita, poiché un patto successivo sarebbe un negozio autonomo che rientrerebbe in altre figure giuridiche.

A norma dell'art. 1501 c.c. il termine per il riscatto non può essere maggiore di due anni nella vendita di beni mobili e di cinque in quella di beni immobili. Se le parti stabiliscono un termine maggiore esso si riduce a quello legale (perentorio e inderogabile).

L’ art. 1502 c.c., invece, stabilisce gli obblighi del riscattante, e cioè:

‑ rimborsare il prezzo al compratore;

‑ rimborsare le spese ed ogni altro pagamento legittimamente fatto per la vendita;

‑ rimborsare le spese per le riparazioni necessarie e, nei limiti dell'aumento, quelle che hanno aumentato il valore della cosa.

In caso di successiva alienazione da parte del compratore ancora sottoposto alla facoltà di riscatto del venditore originario, la legge riconosce la prevalenza del diritto di quest'ultimo rispetto al diritto di proprietà del terzo acquirente: di conseguenza il venditore può ottenere il bene dai successivi acquirenti, purché il patto di riscatto sia ad essi opponibile (art. 1504 c.c.).

 

 

6. VENDITE CON CLAUSOLE SULLA QUALITÀ DEL BENE

 

A) Vendita con riserva di gradimento

La vendita con riserva di gradimento è prevista dall'ari. 1520 c.c. il quale stabilisce che quando si vendono cose con riserva di gradimento da parte del compratore, la vendita non si perfeziona fino a che il gradimento non sia stato comunicato al venditore.

Invero, si è in presenza di una proposta irrevocabile del venditore che il compratore è libero o meno di accettare, dopo un esame del bene; l'esame dovrà essere eseguito nel termine convenuto decorso il quale, nell'inerzia del compratore, il venditore è liberato dalla proposta ovvero la vendita si perfeziona se la merce è presso l'acquirente. .

 

B) Vendita a prova

L'art. 1521 c.c. prevede la vendita a prova e stabilisce che essa si realizza quando le parti hanno convenuto di sottoporre l'efficacia della vendita all'accertamento di determinate qualità.

La vendita a prova è, quindi, una vendita condizionata sospensivamente all'accertamento delle qualità stabilite dalle parti.

La vendita in esame si distingue dalla vendita con riserva di gradimento essendo un contratto già perfetto, anche se condizionato.

 

C) Vendita su campione

La vendita su campione si ha allorché le parti abbiano determinato il bene oggetto del contratto facendo riferimento ad un bene esemplare (campione): nel caso di difformità tra bene effettivamente dedotto in contratto ed il campione, il compratore può risolvere il contratto.

Dalla vendita su campione va distinta la vendita su un tipo di campione che si realizza allorché il campione ha la sola funzione di indicare in modo approssimativo l'oggetto del contratto: in tal caso la risoluzione del contratto può essere chiesta solo in presenza di difformità notevoli rispetto al campione.

 

 

7. LA TUTELA DEL CONSUMATORE: VENDITE CONCLUSE FUORI DALLE SEDI COMMERCIALI, VENDITE A DISTANZA E CLAUSOLE VESSATORIE

 

Il codice civile, a lungo, non ha previsto alcuna normativa a tutela del consumatore, i cui interessi erano protetti solo in via mediata e riflessa (ad es. dalle norme in materia di concorrenza sleale e antitrust).

Tuttavia, gli obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alla Unione Europea hanno indotto il legislatore a intervenire con l'introduzione di una normativa specifica in tema di vendite stipulate fuori dalle sedi commerciali, a distanza e, più in generale, di contratti conclusi dal consumatore.

 

Il D.Lgs. 15 gennaio 1992, n. 50 ha dato attuazione alla Direttiva CEE n. 85/577 in materia di «contratti negoziati fuori dei locali commerciali», apprestando al consumatore un'efficace tutela con il riconoscimento della possibilità di disdire il contratto.

Le nuove norme si applicano ai contratti tra un operatore commerciale ed un consumatore, per la fornitura di beni o la prestazione di servizi, stipulati:

‑ durante una visita dell'operatore commerciale nel domicilio del consumatore o nei luoghi dove lavora (vendita a domicilio);

‑ in area pubblica o aperta al pubblico mediante la sottoscrizione di nota d'ordine, comunque denominata.

In relazione a tali contratti la legge riconosce al consumatore un diritto di recesso, svincolato dalla sussistenza di particolari motivi, da esercitarsi attraverso l'invio all'operatore commerciale di apposita comunicazione nel termine di sette giorni decorrenti dalla data di sottoscrizione della nota d'ordine o dalla data di informazione dell'esistenza del diritto di recesso, oppure dalla data di ricevimento della merce. Il diritto di recesso è irrinunciabile ed è nulla ogni pattuizione in contrasto con la disciplina normativa di esso.

La tutela del consumatore si fa ancora più netta per i «contratti di vendita a distanza», cioè quelli conclusi tra un fornitore ed un consumatore attraverso tecniche di comunicazione che non presuppongono la vicinanza fisica fra le parti (vendita su catalogo, tramite Internet, via fax, televendita etc.). Ai sensi del D.Lgs. 22 maggio 1999, n. 185, l'operatore commerciale deve fornire adeguate informazioni circa le modalità, i tempi e i soggetti nei cui confronti va indirizzata la comunicazione di avvalersi della facoltà di recesso e di tali informazioni deve dare conferma scritta.

La Legge 6 febbraio 1996, n. 52, in attuazione della direttiva CE n. 8 del 1994, ha introdotto nel codice civile il Capo XIVbis, intitolato ai «contratti del consumatore». Si tratta di una categoria di contratti varia (vi rientrano ad esempio, i contratti di credito al consumo, i contratti di viaggio, alcuni contratti bancari, i contratti di acquisto di beni e servizi etc.), caratterizzata dal fatto che una delle parti è necessariamente un consumatore.

La nuova normativa trova la sua ratio nell'esigenza di garantire il giusto equilibrio tra le posizioni contrattuali a fronte dei possibili abusi provenienti dalla parte contrattualmente più forte (il professionista). Essa, in sostanza, sanziona le clausole vessatorie (artt. 146 quinquies, 2° comma e 1469 bis, 3° comma, c.c.) ovvero quelle clausole che «malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contralto».

Le clausole vessatorie sono inefficaci.  Si tratta, tuttavia, di una figura speciale di inefficacia, in quanto:

-           è relativa, opera infatti solo a vantaggio del consumatore;

-           è rilevabile d'ufficio dal giudice;

-           è parziale, in quanto «il contratto rimane efficace per il resto».

L’ art. 1469 quater c.c. dispone, inoltre, che le clausole devono essere inserite nel contratto per iscritto e devono essere redatte in modo chiaro e comprensibile; nel dubbio prevale l'interpretazione più favorevole al consumatore.

 

 

8. LA VENDITA DEI BENI DI CONSUMO

 

Il D.Lgs. 2‑2‑2002, n. 24 ‑ di attuazione della direttiva 1999/44/CE su taluni aspetti della vendita e delle garanzie dei beni di consumo ‑ ha introdotto nel Libro IV del codice civile gli articoli da 1519 bis a 1519 nonies al fine di disciplinare taluni aspetti dei contratti di vendita (al contratto di vendita sono equiparate permuta e somministrazione) e delle garanzie concernenti i beni di consumo.

In particolare, sulla base delle citate disposizioni, il venditore ha l'obbligo di consegnare al consumatore beni conformi al contratto di vendita ed è responsabile nei confronti del consumatore stesso per qualsiasi difetto di conformità esistente al momento della consegna del bene.

In caso di difetto di conformità, il consumatore ha diritto al ripristino, senza spese, della conformità del bene ovvero ad una riduzione adeguata del prezzo o alla risoluzione del contratto secondo le regole di cui all'art. 1519 quater c.c. Il consumatore decade dai diritti previsti dalle norme in esame se non denuncia al venditore il difetto di conformità entro due mesi dalla scoperta (ma la denuncia non è necessaria se il venditore ha riconosciuto l'esistenza del difetto o l'ha occultato).

Il venditore finale (responsabile verso il consumatore) ha diritto di regresso nei confronti del produttore o di un precedente venditore o intermediario cui sia imputabile il difetto di conformità.

 

9. VENDITA «A MISURA» E «VENDITA A CORPO»

 

Le due forme contrattuali citate le troviamo, ovviamente, nella vendita immobiliare, con effetti diversi per entrambe le parti, a seconda che optino per l'una o per l'altra forma:

 

a)     nella vendita a misura, l'immobile viene venduto con l'indicazione della misura e del prezzo stabilito per ogni unità di misura (il prezzo complessivo è ovviamente il risultato della misura per il prezzo per unità di misura). Quindi, nel caso in cui la misura dovesse risultare inferiore a quella indicata nel contratto, al compratore spetta una riduzione dell'importo da pagare; di contro, però, il compratore dovrà corrispondere un supplemento sul prezzo al venditore, qualora la misura effettiva risulti maggiore di quella indicata. II compratore ha facoltà di recedere dal contratto se la misura effettiva eccede oltre la ventesima parte (5%) di quella dichiarata;

b)     nella vendita a corpo, invece, il prezzo dell'immobile viene valutato non in base alla misura, ma nel suo insieme. Qualora però, le parti indicassero comunque la misura, e questa non corrispondesse a quella effettiva, ciò non comporterebbe nessuna variazione sul prezzo, a meno che la misura effettiva non risultasse inferiore o superiore di oltre la ventesima (5%) parte rispetto a quella indicata. Quindi in tal caso, si aumenterebbe o diminuirebbe il prezzo con la possibilità, per il compratore, nel caso di aumento del prezzo, di recedere dal contratto.

 

 

10. LA PERMUTA: NOZIONE E DIFFERENZE DALLA VENDITA

 

L’ art. 1552 c.c. definisce la permuta come «il contratto che ha per oggetto il reciproco trasferimento della proprietà di cose, o di altri diritti, da un contraente all' altro ». La permuta è un contratto di scambio con una funzione molto simile a quella della vendita. Si distingue, però, dalla vendita in quanto lo scambio non è caratterizzato dalla prestazione di un corrispettivo in denaro, ma ha per oggetto il reciproco trasferimento della proprietà di cose o della titolarità di altri diritti.

Tranne regole particolari in tema di evizione (art. 1553 c.c.) e di spese (art. 1554 c.c.) per la permuta sono richiamate, in quanto compatibili, le norme stabilite per la vendita (art. 1555 c.c.).

Circa la garanzia per evizione il legislatore riconosce al permutante il diritto di chiedere la risoluzione del contratto ed il risarcimento del danno, ex art. 1479 c.c., quando deve ritenersi che egli non avrebbe accettato la cosa in permuta senza quella parte della quale è stato evitto.

Qualora, invece, il permutante evitto preferisca mantenere fermo il contratto, avrà diritto al pagamento del valore della cosa al momento in cui fu pronunziata l'evizione, tenuto conto dei miglioramenti e dei deterioramenti (mentre non è dovuto il rimborso delle spese del contratto), nonché al risarcimento del danno.

La permuta è di regola un contratto consensuale ad effetti reali immediati, ma al pari della vendita, può avere anche un'efficacia obbligatoria immediata ed un'efficacia reale differita

Tale seconda ipotesi si verifica quando l'effetto traslativo non è immediato e conseguente al semplice consenso delle parti legittimamente manifestato, ma è differito e fatto dipendere da ulteriori eventi, come nel caso di permuta di cosa futura e nel caso di permuta di cosa altrui.

 

 

 

 

 

Il mutuo

1. NOZIONE E NATURA GIURIDICA

La definizione di mutuo è data dall'articolo 1813 c.c. secondo il quale esso è il contratto con cui «una parte consegna all’altra una determinata quantità di denaro o di altre cose fungibili e l’altra si obbliga a restituire altrettante cose della stessa specie e qualità». La funzione che il contratto di mutuo intende realizzare consiste nell'attribuzione della piena disponibilità del bene oggetto del contratto a favore della parte mutuataria che ne acquista la piena proprietà.

Per quanto riguarda la natura giuridica, il mutuo è un contratto:

-          reale: si perfeziona cioè con la consegna del denaro o delle cose fungibili;

-          traslativo: ex art. 1814 c.c., esso trasferisce la proprietà della cosa. Il trasferimento della pro­prietà delle cose date in mutuo necessita, tuttavia, non solo della consegna ma anche del consenso delle parti, essendo tutti e due gli elementi necessari per il perfezionarsi della fatti­specie;

-          unilaterale, anche se con attribuzioni corrispettive: secondo parte della dottrina, infatti, dopo la conclusione dello stesso esistono solo obbligazioni a carico del mutuatario, configurandosi la prestazione del mutuante non come un'obbligazione a suo carico, ma come elemento ne­cessario perché il contratto venga ad esistenza;

-          di straordinaria amministrazione: sia per il mutuante che per il mutuatario non è rilevante che il mutuo serva per far fronte alle spese correnti o che si pensi di restituire il denaro ricevuto con l'utilizzo del semplice reddito senza utilizzare beni capitali;

-          a causa variabile, poiché può essere a titolo oneroso o a titolo gratuito.

 

2. GLI ELEMENTI DEL CONTRATTO

Elementi del contratto di mutuo sono:

  • l'accordo delle parti; esso da solo non è elemento sufficiente al perfeziona­mento del contratto essendo il mutuo un contratto reale. Nel caso in cui all'accordo raggiunto non faccia seguito il trasferimento del denaro o delle altre cose fungibili, ricorreranno comunque i presupposti per l'esercizio dell'azione di risarcimento nei limiti dell'interesse negativo ai sensi degli artt. 1337 e 1338 c.c.
    Accordo vi deve essere sul termine di scadenza che è essenziale; tuttavia, in caso di mancata indicazione, il termine sarà determinato ex art. 1817 c.c., dal giudice;
  • la causa, diversa a seconda che si tratti di mutuo oneroso o di mutuo gra­tuito. Nel primo caso la causa consiste nello scambio tra la possibilità di uso di un bene fungibile e il pagamento degli interessi; nel secondo, invece, la causa consiste nel beneficio arrecato nel lasciar godere del bene fungibile al mutuatario;
  • l'oggetto, che deve essere una quantità di denaro o altro bene fungibile. l beni fungibili sono quelli che non hanno una propria individualità e che quindi possono essere sostituiti con altri dello stesso genere. La fungibilità va intesa, inoltre, in senso oggetti­vo e non .soggettivo, non avendo importanza come il bene è considerato dalle parti;
  • la forma che è libera;
  • la consegna del bene: elemento perfezionativo della fattispecie, per la teoria del contratto reale.

 

3. LE OBBLIGAZIONI DELLE PARTI

Essendo il mutuo un contratto unilaterale, anche se con attribuzioni reci­proche, dopo la conclusione del contratto vi sono obbligazioni solo a carico del mutuatario. Occorre, però, distinguere il mutuo oneroso da quello gratuito.

Nel primo il mutuatario è obbligato a restituire altrettante cose della stessa specie e qualità, (art. l8l3 c.c.) ed a pagare gli interessi convenuti (art. l8l5 c.c.). Nel secondo, invece, sorge solo l'obbligo di restituzione.

Per quanto riguarda l'ammontare degli interessi, trova applicazione l'art. 1284 c.c., pertanto il saggio degli interessi legali, attualmente è del 3%, è ag­giornato annualmente con proprio decreto dal Ministro dell'economia e delle finanze; a tale saggio si computano gli interessi convenzionali, se le parti non ne hanno determinato la misura.

Interessi superiori devono esser determinati per iscritto, altrimenti sono dovuti nella misura legale. L'ultimo comma dell'ari. l8l5 c.c. stabilisce che se sono dovuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi.

Prima della modifica ad opera della L. 108/1996,l'art. 1815 c. c. sanciva la nullità della clauso­la contrattuale con cui si convenivano interessi usurari e l'automatica riduzione degli interessi dovuti al tasso legale.

La nuova disposizione, prevedendo che gli interessi non siano dovuti in nessuna misura, costituisce un più forte deterrente per il mutuante alla fissazione di interessi usurari.

Inoltre, mentre in precedenza l'aleatorietà degli interessi veniva accertata sulla base di ele­menti di fatto (di non facile valutazione), la L. 108/1996 rende estremamente più agevole tale accertamento stabilendo che debba ritenersi usurario l'interesse il cui tasso esorbita di oltre il 50% i tassi medi effettivi praticati dalle banche e dagli intermediari finanziari rilevati trimestralmente dagli organi competenti.

La Corte Costituzionale, infine, con sentenza 17‑10‑2000, n. 425, ha dichiarato l'illegittimità dell'anatocismo bancario (cioè della possibilità per la banca di percepire interessi su altri inte­ressi già scaduti) per i contratti anteriori all'entrata in vigore della L. 108/96.

4. IL PRELIMINARE DI MUTUO. IL MUTUO DI SCOPO

Nonostante l'opinione contraria di qualche Autore, la promessa di mutuo, prevista dall'art. 1822 c.c., disciplina in realtà il contratto preliminare di mutuo: con esso una parte si obbliga a prestare un futuro consenso a conse­gnare la cosa oggetto della promessa.

La portata del contratto è meramente obbligatoria; la promessa (che può essere sia unilaterale che bilaterale) benché vincolante, può non essere man­tenuta dal promittente qualora sia intervenuta una modificazione nelle condi­zioni Patrimoniali del promissario tale da far ritenere difficile la restituzione del mutuo e non vengano offerte adeguate garanzie.

Il mutuo di scopo è quel contratto in fora del quale una parte si obbliga a fornire i capitali necessari al conseguimento di una finalità, legislativamen­te (mutuo di scopo legale) o convenzionalmente (mutuo di scopo volontario) stabilita, realizzata a cura dell'altra parte la quale si obbliga a restituire la somma ricevuta ed a svolgere l'attività necessaria al conseguimento dello sco­po.

Il mutuo di scopo rientra nel più ampio fenomeno del finanziamento con il quale si provvede a fornire i mezzi necessari per il compimento di determina­te attività od opere.

 

5. IL MUTUO GARANTITO

A tutela del mutuante si pone, prima di tutto, la normale garanzia generica prevista dall'ari. 2740 c.c.

Il mutuante, poi, potrà esercitare tutti i mezzi conservativi previsti dalla legge (sequestro conservativo, azione revocatoria, azione surrogatoria).

Inoltre le parti hanno la facoltà di stabilire forme di garanzia specifiche che possono avere natura reale (ipoteca e pegno) o personali (fideiussione) in relazione alle quali si parla di mutuo pignoratizio, mutuo ipotecario e mutuo cambiario.

 
  

Gli altri contratti

1. IL COMODATO

La nozione del contratto di comodato è data dall'art. 1803 c.c.: trattasi di un contratto con cui «una parte (comodante) consegna all'altra (comodatario) una cosa mobile o immobile affinché se ne serva per un tempo o per un uso determinato, con l'obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta».

Dal punto di vista della natura giuridica, il comodato è un contratto:

  • reale. Ex art. 1803 c.c., la consegna del bene costituisce un elemento perfezionativo della fattispecie;
  • gratuito. Tale carattere è elemento qualificante e permette la distinzione tra il contratto in esame ed altre figure quali la locazione e l'affitto;
  • con prestazioni a carico di una sola parte, consistente nell'obbligo, posto a carico del comodatario, di restituire la cosa comodata;
  • non formale. Non si richiede la forma scritta e ciò, anche se è discusso, neanche qualora il contratto abbia ad oggetto immobili e una durata ultranovennale (non essendo applicabile la normativa in tema di locazione);
  • personale. In esso rilevano le qualità personali delle parli contraenti.

 

A) L'oggetto del contratto. Le obbligazioni delle parti

Oggetto del contratto di comodato è, come si è detto, l'attribuzione di un

diritto personale di godimento.

Il godimento attribuito può essere esercitato in maniera diretta o indiretta, anche se è necessaria l'autorizzazione del comodante per il godimento indi­retto concesso a terzi.

II bene concesso in comodato deve essere un bene restituibile nella sua individualità; esso inoltre deve essere non consumabile.

Il bene può anche essere per sua natura consumabile o fungibile allorché le parti l'abbiano dedotto in contratto per un uso anomalo o come cosa specifica.

Relativamente agli obblighi nascenti dal contratto, si distinguono:

A) Obbligazioni del comodante:

-          il comodante è obbligato a non compiere alti di disposizione che possano recare pregiudizio al godimento del comodatario;

-          è responsabile per i vizi della cosa concessa in comodato (art. 1812 c.c.).

B) Obbligazioni del comodatario:

-          ha l'obbligo di usare la cosa per l'uso previsto;

-          non può cedere a terzi, senza il consenso del comodante, il godimento del bene;

-          è tenuto a custodire e conservare con la diligenza del buon padre di famiglia il bene ricevuto in godimento;

-          a restituire il bene alla scadenza del termine convenuto.

Anche se il codice non pone limiti alla durata del contratto, la dottrina prevalente ritiene che un limite temporale debba comunque sussistere. Nel caso di comodato a tempo indetermina­to (comodato precario) il comodatario è, comunque, tenuto alla restituzione del bene non appena il comodante ne faccia richiesta.

 

B) Scioglimento del rapporto contrattuale

Oltre ai normali fatti che comportano in generale lo scioglimento del contratto, in tema di comodato il legislatore ha previsto varie ipotesi di recesso a favore del comodante e precisa­mente:

-          il 3° comma dell'art. 1804 c.c., prevede la possibilità per il concedente di esigere la restituzione della cosa (oltre al risarcimento del danno) nell'ipotesi in cui il concessionario si renda ina­dempiente rispetto agli obblighi riguardanti la custodia e l'uso del bene;

-          l’art. 1809 c.c. stabilisce che il comodante può chiedere la restituzione della cosa, anche pri­ma del tempo stabilito, qualora sopravvenga un urgente e impreveduto bisogno della cosa stessa;

-          la morte del comodatario legittima il comodante a recedere dal contratto;

-          nel comodato a tempo indeterminato il comodante può recedere in qualsiasi momento con un minimo di preavviso.

 

2. IL FRANCHISING

Il franchising è un sistema di collaborazione tra un produttore (franchisor) ed un distributore (franchisee), giuridicamente ed economicamente indipen­denti l'uno dall'altro, ma vincolati da un contratto, in forza del quale il primo concede al secondo la facoltà di entrare a far parte della propria catena di di­stribuzione, con il diritto di sfruttare, a determinate condizioni e dietro il paga­mento di una somma di denaro, propri marchi, brevetti, nome, insegna, know­how, formule o invenzioni commerciali.

Il contratto di franchising è previsto anche dal regolamento n. 4087/88 della Commissione della Comunità europea del 30 novembre 1988, entrato in vigore il 1 ° febbraio 1989.

Vi sono diverse categorie di franchising e più precisamente:

-          franchising di servizi, in forza del quale il franchisee offre un servizio sotto l'insegna, la ditta oppure il marchio del franchisor, conformandosi alle direttive di quest'ultimo;

-          franchising di produzione (industriale), in forza del quale il franchisee fabbrica, lui stesso, seguendo le indicazioni del franchisor, dei prodotti che poi vende sotto il marchio di quest'ul­timo;

-         franchising di distribuzione, in forza del quale il franchisee rivende certi prodotti in un punto vendita che reca l'insegna e l'immagine del franchisor.

Circa la natura giuridica, nonostante il citato regolamento CEE n. 4087/88 che fa del fran­chising un contratto nominato, esso rimane un contratto atipico in quanto tuttora privo di un'or­ganica disciplina di carattere civilistico.

Il franchising è un contratto di impresa, a prestazioni corrispettive, di durata, in cui rilevano le qualità personali dei contraenti.

Il rapporto ha una durata corrispondente ad un periodo sufficiente per consentire al franchi­see di ammortizzare gli investimenti; questo tempo minimo è sempre stabilito nel contratto ed oscilla nella maggioranza dei casi tra i tre ed i nove anni. Frequente è la clausola di rinnovazione tacita del rapporto in mancanza di disdetta.

Il contratto è intrasmissibile o al più trasmissibile solo dietro espressa autorizzazione del

franchisor. Le parti, altresì, sono solite prevedere in caso di cessione o di affitto dell'azienda del franchisee, un diritto di prelazione esercitabile dal franchisor.

Le obbligazioni del franchisor sono:

-          impegno a concedere al franchisee l'uso dei segni distintivi, nonché a tra­smettere il proprio know‑how e tutte le altre formule o conoscenze segrete;

-          impegno a fornire assistenza tecnica e commerciale per avviare l'impresa del franchisee;

-          impegno a fornire consulenza commerciale, promoziale e di markeling durante tutta la durata del rapporto;

-          impegno ad addestrare il personale che sarà impegnato nell'impresa del franchisee;

-          impegno a fornire al franchisee tutti i suddetti servizi senza discriminare tra un'unità di vendita e l'altra.

 

Le obbligazioni del franchisee sono:

-         impegno ad allestire un'unità di vendita (franchising cal. fisso) o comun­que di attrezzarsi per promuovere la vendita dei beni e l'erogazione dei servizi (franchising cal. mobile);

-          l'obbligo di acquistare una certa quantità minima di merce del franchisor op­pure di acquistare dallo stesso beni intermedi, accessorio beni strumentali;

-          obbligo di rispettare determinati standard di qualità nella presentazione e nella vendita del prodotto o del servizio;

-          obbligo di rispettare determinate procedure quanto alle condizioni di ven­dita e ai prezzi;

-          impegno di pagare un diritto di entrata o royalty.

Una clausola di esclusiva appare generalmente in tutti i contratti di franchising, solitamente in via reciproca: da un lato, cioè, il franchisee si impegna a non vendere beni in concorrenza con quelli del franchisor e, dall'altro, il franchisor si obbliga a non servirsi sullo stesso territorio di altri franchisee.

 

3. IL DEPOSITO

L’art. 1766 c.c. definisce il deposito come «il contratto col quale una parte riceve dall'altra una cosa mobile con l’obbligo di custodirla e di restituirla in natura». Il deposito è un contratto reale: si conclude, cioè, mediante accordo seguito dalla consegna della cosa al depositario.

La consegna della cosa, oggetto del deposito, avviene normalmente con il passaggio materiale del bene da custodire: in tal caso il depositario ne acqui­sta la detenzione; la consegna può tuttavia mancare quando la cosa si trovi già nelle mani del depositario. Il deposito si presume gratuito, salvo che dalla qualità professionale del depositario o da altre circostanze si debba desumere una diversa volontà delle parti (art. 1767).

Il deposito è un contratto di durata e non formale. Soggetti del contratto di deposito sono il depositante ed il depositario.

II depositario è obbligato:

-          a custodire e a restituire la cosa. Nella custodia il depositario deve usare la diligenza del buon padre di famiglia (art. 1768, 1° comma, c.c.);

-          non servirsi della cosa, salvo consenso del depositante (art. 1770 c.c.);

-          restituire al depositante i frutti della cosa, da lui eventualmente percetti (art. 1775 c.c.).

Durante il rapporto, sorgono a carico del depositario alcuni obblighi accessori tra cui va ricordato l'obbligo di avviso al depositante, quando siano state modificate le modalità di custodia (art. 1770, 2° comma, C.C.), e quando il depositario perda, per fatto a lui non imputabile, la deten­zione della cosa (art. 1780, 1 ° comma c.c.).

 

Obblighi del depositante sono:

-          di pagare il compenso (art. 1781 c.c.);

-          di rimborsare le spese di conservazione e restituzione (art. 1781 c.c.).

Oltre al depositante ed al depositario può essere interessato al rapporto di deposito anche un terzo (deposito a favore di terzo): ipotesi espressamente pre­vista dall'art. 1773 c.c.

  

L'impresa e l'azienda

 

1. IMPRENDITORE E IMPRESA

A) Nozione e status di imprenditore

È «imprenditore» chi esercita professionalmente un'attività economica orga­nizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi (art. 2082 C.C.).

Da tale definizione si desumono i caratteri della attività imprenditoriale, e cioè:

  • attività economica;
  • organizzata;
  • esercitata professionalmente;
  • avente per fine la produzione o lo scambio di beni o servizi.

L’imprenditore è assoggettato ad uno speciale regime giuridico, differen­ziato in relazione alla natura (commerciale o agricola) dell'impresa esercitata ed alle sue dimensioni, che incide direttamente sui rapporti giuridici che a lui fanno capo.

B) II concetto di impresa

Il codice civile definisce all'art. 2082 c.c. «l'imprenditore»; nulla dice, inve­ce, con riferimento all'«impresa».

Tuttavia, partendo dal presupposto che l'imprenditore è il titolare dell'im­presa, quest'ultima può definirsi come «l'attività economica organizzata dal­l'imprenditore e da lui esercitata professionalmente al fine della produ­zione o dello scambio di beni o servizi».

Da tale definizione si ricava che l'impresa non può considerarsi né come soggetto, né come oggetto di diritto; essa, infatti, consiste in un attività di orga­nizzazione dei /attori produttivi., personali e reali, preordinata alla creazione di nuova ricchezza (beni o servizi) per soddisfare i bisogni del mercato.

 

L'ATTIVITÀ IMPRENDITORIALE

Dalla definizione di «imprenditore» si evinco­no i caratteri peculiari dell'attività imprenditoriale.

A) Attività economica

«L'attività imprenditoriale» consiste in «una serie di atti (affari) coordinati al conseguimento di uno stesso fine» consistente nella creazione di una nuova ricchezza destinata al «mercato», ossia a soddisfare bisogni altrui, o, come dice il legislatore, nella «produzione o scambio di beni o servizi».

È qualificabile economica quell'attività produttiva, che, in quanto eserci­tata «in proprio» (individualmente o collettivamente ‑ società) espone il sog­getto che la esercita al rischio di un ricavo inferiore ai costi sostenuti per la utilizzazione dei fattori impiegati, per la produzione di beni o di servizi o per la loro distribuzione.

Rischio, quindi, di perdere il capitale investito o di aver lavorato senza remu­nerazione (GALGANO).

B) Attività organizzata

Secondo carattere dell'attività imprenditoriale è quello dell'organizzazio­ne. Esso è insito nel concetto stesso di impresa, intesa come «complesso di mezzi (beni) e di persone» che dal legislatore è stato considerato nel suo aspetto dinamico e funzionale, ossia «preordinato alla creazione di una nuova ric­chezza e non statico».

In particolare:

-          le persone che collaborano alle dipendenze dell'imprenditore costituiscono i suoi ausiliari;

-          i mezzi propri o altrui, dei quali si è riservato la disponibilità in forza di un titolo giuridico (es. contratto di locazione dell'immobile in cui esercita l'im­presa), di cui si serve l'imprenditore per esercitare l'impresa costituiscono l'azienda.

E’ «organizzata» quell'attività che si pone come intermediaria tra chi offre lavoro e capitale da un lato, e chi domanda beni e servizi dall'altro. Oltre a svolgere questa funzione di intermediazione, l'imprenditore «tra­sforma» o «combina» e quindi organizza i fattori di produzione creando nuo­va ricchezza. Il potere di organizzazione e indirizzo dell'impresa costituisce insieme al rischio, l'altro elemento fondamentale che caratterizza l'attività dell'imprenditore.

C) Professionalità

Requisito essenziale, per l'esercizio dell'attività di impresa, è altresì quello della professionalità.

Per «professionale» deve intendersi un'attività:

-          abituale (ossia non occasionale) e continua (non necessariamente esclusiva).
Il concetto di continuità, però, non implica necessariamente quello di«non interruzione»: è imprenditore, infatti, anche chi gestisce un'impresa a carattere unicamente stagionale (si pensi al gestore di uno stabilimento balneare o di un albergo aperto per una sola stagione all'anno). Con la professionalità neppure è da confondere il concetto di esclusività: è imprenditore, infatti, chi, oltre all'impresa, abbia anche una propria attività di diversa natura (si pensi ad un medico che, contemporaneamente, gestisca una casa di cura ed eserciti la libera professione);

-          preordinata ad uno scopo di lucro.
Tale ultimo requisito non è espressamente contemplato dall'art. 2082 c.c., ma per la pre­valente dottrina e giurisprudenza è implicito nel concetto di «professionalità». Perché sus­sista la «professionalità», sotto il profilo giuridico, non è richiesta la «massimizzazione del profitto» (c.d. lucro soggettivo) ma è sufficiente che l'attività di impresa sia gestita con criteri tali da essere idonea a ricavare almeno quanto occorra per coprire i costi dei fattori di produzione impiegati nel ciclo produttivo o distributivo (c.d.obiettiva economicità o lucro oggettivo).

D) Produzione e scambio di beni

Requisito indispensabile per l'acquisizione della qualità di imprenditore è l'esercizio di un'attività produttiva e cioè il compimento di una serie di atti coordinati e finalizzati alla produzione o allo scambio di beni o di servizi. Non solo quindi produzione materiale di beni e servizi, ma anche scambio di beni già prodotti: è dunque imprenditoriale l'attività creatrice di nuova ricchezza.

Tale attività, comunque deve essere rivolta al mercato.

E) Attività esercitata in nome proprio (c.d. spendita del nome)

Essenziale, inoltre, è che l'imprenditore eserciti l'impresa in nome pro­prio, sopportandone il relativo rischio economico (c.d.rischio imprendito­riale).

È il requisito della spendita del nome il criterio in base al quale si identifica la figura dell'imprenditore.

 

2. CRITERI DI CLASSIFICAZIONE DELL'IMPRESA

Esistono tre criteri principali di classificazione dell'imprenditore e della sua attività:

-          un criterio qualitativo, che si basa sulla diversa natura dell'attività econo­mica esercitata (ossia dell'impresa) e, pertanto, distingue tra:

-       imprenditore agricolo;

-       imprenditore commerciale;

-        un criterio quantitativo, che tiene conto delle dimensioni dell'attività im­prenditoriale distinguendo tra:

-       piccolo imprenditore;

-       imprenditore;

-        un criterio personale, che tiene conto del numero dei soggetti che esercita­no, assumono il rischio e dirigono l'impresa distinguendo tra:

-       imprenditore individuale (che può, comunque, avvalersi dell'opera di collaboratori);

-       imprenditore collettivo o società (art. 2247 c.c.).

A) L'imprenditore agricolo

Il vigente codice col considerare «imprenditore» chiunque svolga un'attività creatrice di ricchezza, ha configurato tale anche l'agricoltore, ma ha conserva­to ad esso alcune facilitazioni (per l'ulteriore «rischio ambientale» cui è sog­getto) che il precedente sistema già gli garantiva, quali:

-          esclusione dall'obbligo della tenuta delle scritture contabili;

-          non assoggettabilità al fallimento ed alle altre procedure concorsuali in caso di insolvenza;

-          iscrizione in una sezione speciale del registro delle imprese (L. 580/1993).
L’art. 2 del D.Lgs. 228/2001 conferisce espressamente a tale iscrizione, oltre alle funzioni di certificazione anagrafica ed a quelle previste dalle leggi speciali, l'efficacia di opponibilità ai terzi di cui all'art. 2193 c.c.

L'imprenditore agricolo, pertanto, non è assoggettato alla normativa del­l'imprenditore commerciale e la disciplina ad esso relativa è affidata più alla legislazione speciale che alle poche norme contenute nel codice.

Il D.Lgs. 228/2001 ha modificato la nozione codicistica di imprenditore agricolo, riformulando l'art. 2135 c.c. Tale disposizione, nella sua attuale formulazione, definisce, al 1° comma, le attività agricole essenziali, e cioè quelle dirette alla coltivazione del fondo, alla selvicoltura, all'alleva­mento di animali. Il 2° comma specifica che nelle attività suddette vanno ricomprese quelle «dirette alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine».

Con il D.Lgs. 228/2001, è stato superato il rapporto produzione‑terra nella definizione di imprenditore agricolo. Tale qualifica viene oggi riconosciuta non solo a coloro che coltivano materialmente il fondo o allevano il bestiame ma anche a chi esercita allevamenti ittici, alle aziende conserviere e casearie, e a chi presta servizi a favore dell'agricoltura.

Agli imprenditori agricoli è poi consentita la vendita al dettaglio di prodotti provenienti in misura prevalente dalle rispettive aziende agricole (art. 4, D.Lgs. 228/2001) e può avere per ogget­to anche prodotti derivati, ottenuti attraverso attività di manipolazione o trasformazione di pro­dotti agricoli e zootecnici.

La qualifica di imprenditore agricolo è, infine, riconosciuta pure ai soci di società di persone esercenti attività agricole (art. 9, D.Lgs. 228/2001).

L’ultimo inciso del comma 1° dell'art. 2135 c.c. attribuisce la qualifica di imprenditore agricolo a chi esercita attività connesse a quelle di coltivazione del fondo, di selvicoltura e allevamento di animali.

Il 3° comma dello stesso articolo, stabilisce che «si intendono comunque connesse»:

-          le attività dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano oggetto prodotti prevalentemente ottenuti dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall'allevamento di animali;

-          le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l'utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell'azienda normalmente impiegate nell'attività agricola esercitata, ivi com­prese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge (ad esempio, l'agriturismo).

B) L'imprenditore commerciale

Una volta delineato il concetto di imprenditore agricolo, si può definire quello di imprenditore commerciale. In particolare, ai sensi dell'art. 2195 c.c., sono imprenditori commerciali coloro che esercitano:

-          attività industriale diretta alla produzione di beni o servizi: è quella attività produttiva di beni o di servizi che richiede un procedimento di trasforma­zione della materia: es. le industrie che trasformano le materie prime in prodotti finiti destinati alla vendita e le industrie c.d.«estrattive», che pro­ducono nuovi «beni» traendoli dalla natura direttamente;

-          attività intermediaria nella circolazione dei beni: è quella diretta alla distri­buzione dei beni sul mercato;

-          attività di trasporto per terra, per acqua, per aria;

-          attività bancaria o assicurativa;

-          attività ausiliarie delle precedenti, quali ad esempio l'attività dell'agente di commercio; l'attività del mediatore (anche se oggetto ne sono i prodotti agricoli); l'attività dell'agente di pubblicità; l'attività delle agenzie di viaggio, di emigrazione etc.)

 

3. GLI ENTI PUBBLICI ECONOMICI (E.P.E.)

Gli Enti Pubblici Economici sono una particolare categoria di enti pubblici che ha ad oggetto principale o esclusivo (e quindi, non in posizione «accessoria» rispetto ai loro fini istituzionali) l'esercizio di un'attività d'impresa. Essi non operano ponendo in essere atti amministrativi, bensì negozi di diritto privalo, per la realizzazione di un’attività economica di produzione o di scambio di beni o servizi.

In particolare:

-          gli enti pubblici economici sono soggetti all'iscrizione nel registro delle imprese (art. 2201 c.c.) ed alle disposizioni del libro V del codice civile;

-          le controversie con i dipendenti rientrano nella competenza del giudice del lavoro;

-          in caso di insolvenza, non sono assoggettati a fallimento ma soltanto a procedure amministra­tive di liquidazione coatta;

-          godono di posizione economica privilegiata poiché operano spesso in virtù di concessioni amministrative o in regime di monopolio;

-          sono sottoposti, però, a pressanti vincoli e controlli pubblicistici.

Per ridurre l'incidenza sul debito pubblico delle spese per il sovvenzionamento degli enti pubblici economici, il legislatore (L. 29‑1‑1992, n. 35) ha disposto che questi possano essere tra­sformati in S.p.a., conformemente agli indirizzi di politica economica ed industriale. Le società risultanti dalla trasformazione succedono agli enti trasformati nella totalità dei rapporti giuridici e sono sottoposte alla normativa generale vigente per le società per azioni.

 

4. L'IMPRESA FAMILIARE E L'AZIENDA CONIUGALE

A) L'impresa familiare: nozione e aspetti

L’impresa familiare ‑ istituto introdotto dalla L. 19‑5‑1975, n. 151, nel­l'ambito della riforma del diritto di famiglia ‑ è quella impresa agricola o commerciale cui collaborano con l'imprenditore, senza che intercorra un rap­porto societario o di lavoro subordinato, il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli ani entro il secondo grado (art. 230bis c.c.).

Con essa il legislatore ha voluto riconoscere la eguale partecipazione dei familiari in propor­zione alla qualità e quantità del lavoro prestato, equiparando, altresì, espressamente il lavoro della donna a quello dell'uomo (L. 9‑12‑1977, n. 903).

B) Costituzione

L:impresa familiare va costituita, ai soli fini fiscali, con atto notarile con il quale si stabiliscono anche le quote di utili da ripartire fra i singoli familiari. Soltanto al titolare compete il potere di ammettere un familiare nell'impresa, poiché l'imprenditore deve essere libero di scegliere i suoi collaboratori. È prevista anche la partecipazione dei minori (privi della capacità d'agire); costoro, però, nel voto sono rappresentati da chi esercita la potestà su di essi. Dell'impresa familiare possono far parte anche i figli naturali del titolare che li abbia ricono­sciuti: la legge, infatti, non restringe il novero dei partecipanti ai parenti legittimi. Si ricordi, infine, che la legge non richiede l'obbligo della convivenza in un'unica famiglia (quella del titolare) di quanti operano nell'impresa familiare.

C) Diritti patrimoniali dei singoli familiari

Il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nel­l'impresa familiare ha un complesso di diritti definiti di partecipazione e cioè:

a)     ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia;

b)     partecipa agli utili dell'impresa familiare, ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine ali avviamento, in proporzione della quantità e qualità del lavoro prestato.

Ai fini della determinazione degli utili deve affermarsi la necessità della formazione di perio­dici bilanci e conti profitti e perdite. Il titolare anche se non è obbligato alla tenuta delle scritture contabili è, però, tenuto ad una documentazione sufficientemente idonea a consentire ai familiari di esercitare, in sede di rendi­conto, il controllo sulla gestione e sui risultati della stessa.

D) L'attività gestoria dell'impresa familiare

Spettano al titolare (in quanto, secondo l'orientamento prevalente, l'im­presa familiare resta pur sempre un'impresa individuale) le decisioni con­cernenti la gestione ordinaria: egli vi provvede in piena autonomia e non è previsto alcun obbligo di previa consultazione o comunicazione ai familiari che collaborano. Spettano, invece, alla maggioranza dei componenti dell'impresa le decisioni concernenti:

-          l'impiego degli utili e degli incrementi;

-          la gestione straordinaria; ‑ gli indirizzi produttivi;

-          la cessazione dell'impresa.

Spettano, infine, a tutti i partecipanti (all'unanimità) le decisioni inerenti al trasferimento del diritto di partecipazione all'impresa familiare.

E) L'azienda coniugale

La L. 19‑5‑1975, n. 151, con cui è stata attuata la riforma del diritto di famiglia, fra modificato radicalmente la regolamentazione giuridica dei rap­porti patrimoniali tra i coniugi, sostituendo al regime legale della separazione quello della comunione dei beni. Ai sensi dell'art. 177 leu. d) c.c., cadono in comunione immediata le aziende costituite dopo il matrimonio e gestite da entrambi i coniugi; in tal caso si ha impresa coniugale in azienda coniuga­le ed entrambi i coniugi sono considerati imprenditori. Ove si tratti di azienda appartenente ad uno dei coniugi prima del matrimonio ma gestita da entrambi, cadono in comunione solo gli utili e gli incrementi (art. 177, 2° comma, c.c.); si ha, così, impresa coniugale su azienda non coniugale (anche se entrambi i coniugi devono considerarsi imprenditori). Non si ha, invece, né impresa coniugale né azienda coniugale nel caso di aziende appartenen­ti ad uno solo dei coniugi costituite prima o dopo il matrimonio, ed ugualmente gestite da uno solo di essi: imprenditore sarà soltanto il coniuge che è titolare e gestore esclusivo dell'azienda mentre gli incrementi di tale attività imprenditoriale nonché i beni destinati all'esercizio dell'im­presa se costituita dopo il matrimonio, cadono in comunionene costituiscono oggetto solo se sussistono al momento dello scioglimento della comunione stessa (art. 178 c.c.).

 

5. IL PICCOLO IMPRENDITORE

Un'altra importante distinzione tra le imprese è quella che tiene conto del­le dimensioni; a tal fine, infatti, si distinguono: piccola, media e grande impre­sa. Notevoli sono le conseguenze connesse alla distinzione in esame, in quan­to il piccolo imprenditore (al pari dell'imprenditore agricolo):

-          è esonerato dalla tenuta delle scritture contabili;

-          è soggetto all'iscrizione nella sezione speciale del registro delle imprese (L. 580/1993);

-          non può essere sottoposto, in caso di insolvenza, alla procedura fallimentare né alle altre procedure concorsuali.


Il concetto di piccola impresa è dato dal codice in riferimento all'impren­ditore: sono così «piccoli imprenditori», ai sensi dell'art. 2083 c.c., «il coltivato­re diretto del fondo, l'artigiano, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un'attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti la propria famiglia».

Tale norma individua alcune tra le più comuni figure di piccoli imprendi­tori, e cioè:

-          i coltivatori diretti;

-          gli artigiani;

-          i piccoli commercianti.

Con l'ultimo inciso l'art. 2083 c.c. fissa un regola di carattere generale, quel­la della prevalenza del lavoro proprio e dei familiari sul lavoro altrui, ossia dei dipendenti salariati, che serve come criterio di identificazione per even­tuali altre categorie di piccoli imprenditori. Tale «prevalenza» deve, però, sussistere non solo rispetto al lavoro altrui, ossia dei dipendenti salariati, ma anche rispetto al capitale investito nell'at­tività d'impresa.

Ad es. non può considerarsi piccolo imprenditore il gioielliere anche se esercita l'attività senza avvalersi della collaborazione di dipendenti in quanto l'ammontare del capitale investito nell'im­presa è certamente preminente anche rispetto al suo stesso lavoro.

 

LA FIGURA DELL'ARTIGIANO NELLA LEGISLAZIONE SPECIALE

In relazione alla figura di artigiano si sono create notevoli difficoltà inter­pretative e di coordinamento per il proliferare di una articolata legislazione speciale con finalità di ausilio e sostegno, legislazione che di volta in volta ha prodotto una nozione di artigiano non sempre conciliabile con i criteri di definizione della categoria adottati dal codice civile (art. 2083 c.c.). La problematica è stata superata con l'emanazione della legge quadro per l'artigianato (L. 8‑8‑1985, n. 443) che ha fornito una nuova e definitiva nozio­ne di impresa artigiana. Essa è contraddistinta dai seguenti elementi:

-          il ruolo preponderante dell'artigiano che deve prestare in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo;

-         un processo produttivo non del tutto meccanizzato, potendo, peraltro, avere ad oggetto una qualsiasi attività di produzione di beni anche semilavorati o di prestazioni di servizi eccetto le attività di intermediazione nella circo­lazione di beni o ausiliari di essi, di somministrazione al pubblico di be­vande o alimenti, salvo il caso che siano solamente strumentali e accesso­rie all'esercizio dell'impresa, le prestazioni di servizi commerciali e le atti­vità agricole.

In seguito alle modifiche apportate dalla L. 20‑5‑1997, n. 133, la società artigiana può esse­re costituita anche in forma di accomandita semplice e a responsabilità limitata unipersonale. Infine la L. 5‑3‑2001, n. 57 ha ammesso anche la forma della s. r.l. pluripersonale, restando quindi precluse le sole forme della s.p.a. e della s.a.p.a.

 

6. L'ACQUISTO DELLA QUALITA DI IMPRENDITORE E LA CAPACITA DI ESERCITARE L'IMPRESA

La qualità di imprenditore commerciale si acquista per il solo fatto di eserci­tare professionalmente una attività economica tra quelle di cui all'art. 2195 c.c. Nessun altro adempimento è richiesto in quanto l'iscrizione nel registro delle imprese ha solo efficacia dichiarativa. La qualità di imprenditore si perde per cessazione effettiva dell'attività a prescindere dalla cancellazione dal regi­stro delle imprese. Il rischio che implica l'esercizio dell'impresa e l'importanza del ricorso al

credito, con conseguente necessità di tutelare i terzi che lo hanno concesso, giustifica una particolare disciplina in materia di capacità ad esercitare un'im­presa commerciale.

Così: ,

-          l'assolutamente incapace (minore, non emancipato, interdetto) non può in nessun caso inizia­re l'esercizio di un'impresa commerciale;

-          l'assolutamente incapace può, invece, continuare l'esercizio di un'impresa commerciale, che a lui pervenga per successione o donazione, previa autorizzazione del Tribunale su parere del giudice tutelare (artt. 320 e 371 c.c.);

-          anche l'inabilitato può soltanto continuare l'esercizio di un'impresa commerciale, se autoriz­zato dal Tribunale, su parere del giudice tutelare;

-          il minore emancipato può essere autorizzato ad iniziare l'esercizio di una nuova impresa commerciale e, naturalmente, a continuare quello di un'impresa già esistente (in tal caso ha piena capacità anche per gli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione, pure se estranei al­l'esercizio dell'impresa).

 

7. IL REGISTRO DELLE IMPRESE

Il codice del 1942 ha previsto (art. 2188 c.c.) 1'istituzione del registro delle imprese, per sottoporre ad un regime di pubblicità non solo le imprese colletti­ve (una pubblicità delle società commerciali già esisteva nel sistema dell'abro­gato codice di commercio), ma anche le imprese commerciali individuali. La pubblicità legale espressa dalla iscrizione nel registro delle imprese si inquadra nella difesa dell'economia creditizia: invero, attraverso la registrazio­ne dei fatti salienti e significativi dell'impresa, dei suoi caratteri e della sua struttura, i terzi vengono posti in grado di valutare i limiti di sicurezza e di affidabilità per ogni affare che intendano concludere. A tale scopo il registro può essere consultato da chiunque, senza la necessità di dimostrare o evidenziare un interesse qualsiasi.

La disciplina essenziale che il codice detta per il registro delle imprese è la seguente:

a)     obbligo di iscrizione: l'obbligo incombe su tutti gli imprenditori, sugli enti pubblici che esercitino attività commerciale, nonché sulle società;

b)     atti soggetti all'iscrizione: sono soggetti all'iscrizione tutti gli atti e i fatti che concernono i momenti più importanti della vita dell'impresa (dal sorgere, alle modificazioni e trasformazioni, fino all'estinzione);

c)     modalità di iscrizione: l'iscrizione avviene su domanda dell'interessato, ma (essendo obbligatoria) può essere eseguita anche di uscio: in ogni caso è sottoposta al sindacato di legittimità da parte del giudice, diretto ad accer­tare l'esistenza delle condizioni richieste dalla legge (artt. 2189‑2192 c.c.).

 

L’iscrizione ha, ex nunc (art. 2193 c.c.), efficacia:

-          positiva, nel senso che i terzi non possono opporre l'ignoranza dei fatti iscritti, che si presumono ad essi noti;

-          negativa, nel senso che i fatti non iscritti non sono, invece, opponibili ai terzi (a meno che non si provi che i terzi stessi ne erano a conoscenza).

Una volta avvenuta l'iscrizione, la presunzione di conoscenza è assoluta; in caso di mancata iscrizione, invece, vi è solo una presunzione relativa di igno­ranza del terzo (è ammessa, cioè, la prova contraria). L:efficacia dell'iscrizione, di regola, è solo dichiarativa, poiché si esaurisce nel campo della opponibilità. In alcuni casi particolari, tuttavia. l'efficacia è costitutiva: come per le so­cietà di capitali, che solo con l'iscrizione nel registro acquistano personalità giuridica (art. 2331 c.c.).

Prima della L. 29‑12‑1993, n. 580 (con la quale il sistema di pubblicità delineato ha trovato una prima attuazione), vigeva un regime transitorio (art. 100 disp. att.) per effetto del quale le iscrizioni erano raccolte in appositi registri tenuti presso la Cancelleria del Tribunale dove veniva­no espletate le ulteriori formalità previste dalla legge.

L’art. 8 della L. 29‑12‑1993, n. 580 (il cui regolamento di attuazione è contenuto nel D.P.R. 7­-12‑1995, n. 581 successivamente modificato dal D.P R. 16‑9‑1996, n. 559) ha disposto l'istituzione di appositi uffici del registro presso le Camere di commercio di ciascuna provincia ed ha, altre­sì, esteso l'obbligo di iscrizione nel registro agli imprenditori agricoli, alle società semplici, ai pic­coli imprenditori e agli artigiani iscritti al relativo albo, soggetti precedentemente esonerati da tale adempimento. L’ iscrizione per questi soggetti però ha solo funzione di certificazione anagrafi­ca e di pubblicità notizia, eccetto per gli imprenditori agricoli per i quali, come si è già detto, il D.Lgs. 228/2001 ha previsto l'efficacia di opponibilità ai terzi. La predisposizione, tenuta, conser­vazione e gestione del registro avviene mediante l'uso di archivi informatici in modo da assicura­re la completezza, l'organicità e la tempestività dell'informazione. Dopo una fase transitoria, ne­cessaria a garantire il travaso delle società già registrate presso la cancelleria del Tribunale nel nuovo registro, questo è  diventato pienamente operativo a far data dal 26 gennaio 1997, ma ulteriori modifiche sono stare introdotte con il D.P.R. 1 4‑12‑1999, n. 58, che ha previsto !assorbi­mento in un'unica sezione speciale delle quattro precedentemente esistenti (per gli imprenditori agricoli, i piccoli imprenditori, le società semplici e gli artigiani). Ha inoltre stabilito che le im­prese hanno la possibilità di presentare le domande di iscrizione e di deposito presso il registro mediante invio telematico o su supporto informatico.

 

8. GLI AUSILIARI DELL'IMPRENDITORE

All'attività imprenditoriale partecipano diversi soggetti, che collaborano nel­l'esercizio dell'impresa.

Questa collaborazione si attua mediante svolgimento di prestazioni di opera:

  • sia da parte di persone estranee all'organizzazione, che si pongono di fronte all'imprenditore in posizione di indipendenza (ausiliari autonomi);
  • sia da parte di persone che agiscono nell'ambito dell'impresa e che si pongo­no, rispetto all'imprenditore:., in posizione di subordinazione (ausiliari su­bordinati).

Nell'ambito degli ausiliari dell'imprenditore, quindi, si distinguono:

-          ausiliari subordinati, che sono legati all'imprenditore da un rapporto di lavoro subordinato (dirigenti, impiegati, operai: art. 2095 c.c.); l'impresa ‑ in quanto consiste in un'organizzazione economica ‑ è anche un'organizzazio­ne di lavoro che presuppone nel suo ambito una distribuzione di funzioni e competenze rego­late dal principio gerarchico;

-          ausiliari autonomi, che sono legati all'imprenditore da un rapporto di pre­stazione d'opera e stipulano con esso particolari contratti (es.: mandato, contratto di agenzia, contratto di spedizione, commissione, mediazione).

A) L'institore

L'institore è la persona preposta dal titolare all'esercizio di un'impresa commercia­le, o di una sede secondaria o di un ramo particolare dell'impresa (art. 2203 c.c.).

Trattasi di un prestatore di lavoro con funzioni direttive, cui spetta:

o        la funzione direttiva dell'impresa, che egli esercita sovraintendendo a tutti i rami dell'impresa o a quello cui è preposto;

o        la rappresentanza generale dell'imprenditore, in relazione a tutti gli atti per­tinenti all'esercizio dell'impresa.

Proprio in virtù di tale posizione l'institore risponde, insieme all'imprendi­tore, della osservanza delle disposizioni in materia di iscrizione nel registro delle imprese e di tenuta dei libri contabili (art. 2205 c.c.), e sono estese nei suoi riguardi le disposizioni relative alla bancarotta e agli altri reati fallimentari. L’institore gode di ampi poteri di gestione (ossia di poteri decisionali inter­ni) e rappresentativi (ossia verso i terzi) che ineriscono alla sua funzione e non richiedono, pertanto, per la loro attribuzione, una procura. La procura è necessaria soltanto nel caso che l'imprenditore intenda limita­re i poteri che la legge attribuisce all'institore.

Riguardo ai poteri rappresentativi previsti dalla legge, si nota che:

  • l'institore può svolgere tutte le attività rientranti nel normale esercizio dell'impresa; egli non può, però, alienare o ipotecare gli immobili del preponente, salvo che questi abbia espressa­mente amplialo i suoi poteri, in quanto tali atti (ed altri similari) non importano facoltà di gestione, bensì di trasformazione dell'impresa;
  • ha la rappresentanza processuale necessaria, collegata con i poteri sostanziali che per legge o per procura gli sono stati attribuiti: può così stare in giudizio, in nome del prepotente, per le obbligazioni dipendenti da atti compiuti nell'esercizio dell'impresa a cui è preposto;
  • ha l'obbligo, quando agisce (come del resto qualsiasi rappresentante), di dichiarare ai terzi che agisce nel nome e per conto del preponente. Tuttavia, se omette di farlo e si tratta di atti pertinenti all'esercizio dell'impresa, la legge sancisce la doppia responsabilità tanto dell'institore che del­l'imprenditore preponente (art. 2208 c.c.), in quanto il terzo può avere la legittima incertezza sul se l'institore abbia agito in nome proprio o quale rappresentante dell'imprenditore.

Comunque, l'agire dell'institore nel nome e per conto del preponente può anche risultare implicitamente, per fatti concludenti (così, ad esempio, se usa la carta intestata dell'imprenditore o se tratta gli affari nella sede dell'impresa).

I poteri dell'institore vengono meno con il cessare della preposizione: la revoca dei poteri, tuttavia, deve essere pubblicata, anche se non fu resa pubbli­ca, a suo tempo, la preposizione stessa.

B) I procuratori

Sono procuratori coloro i quali, in base ad un rapporto continuativo, pos­sono compiere per l'imprenditore gli atti pertinenti all'esercizio dell'im­presa, pur non essendovi preposti (art. 2209 c.c.).

Ad essi si applicano le stesse norme previste per gli institori relative alla pubblicità ed alla modificazione e revoca delle procure (artt. 2206 e 2207 c.c.). Anche il procuratore è un lavoratore subordinato (impiegato) ed è larga­mente presente nell'organizzazione delle aziende di credito. Anche la rappresentanza dei procuratori, in mancanza di espresse limita­zioni, deve ritenersi generale, ovviamente, in relazione agli atti per i quali egli dispone di un'autonomia decisionale.

Nell'ambito della disciplina della rappresentanza di imprese commerciali la legge tende a far corrispondere l'esterno potere di rappresentanza all'inter­no potere di gestione. La differenza tra le figure dell'«institore» e del «procuratore» si basa sostanzialmente sul fatto che, malgrado ad entrambi sia riconosciuta una sfera decisionale di poteri direttivi inerenti alle mansioni ad essi affidate:

-          L'institore è sempre: titolare di un'attività generale e complessa di gestione, che riguarda tutta l'impresa (o un particolare ramo di essa) e può oggettivarsi in multiformi atti;

-          il procuratore, invece, è incaricato di specifiche mansioni che si possono concretare solo in una serie di atti particolari relativi all'esercizio dell'impresa.

C) I commessi (artt. 2210‑2213 c.c.)

I commessi sono quegli ausiliari che esercitano attività subordinata di concetto o di ordine, estranea però a funzioni direttive. Tale nozione, in particolare, si ricava dalla consuetudine del commercio, in quanto il codice tace in proposito.

Essi possono essere:

  • preposti alla vendita nei locali dell'impresa (commessi di negozio);
  • incaricati della vendita da piazza a piazza (commessi viaggiatori).

I loro poteri rappresentativi sono strettamente collegati alle mansioni svol­te: essi, perciò, possono compiere gli atti che ordinariamente comporta la spe­cie delle operazioni di cui sono incaricati.

La pubblicità dei poteri dei commessi è soltanto di fatto.

D) Altri lavoratori subordinati

Oltre all'institore, ai procuratori e ai commessi, generalmente operano nell'impresa altri sog­getti in posizione di subordinazione rispetto all'imprenditore. Si tratta degli impiegati ed operai, non dotati di potere di rappresentanza, e che svolgono pertanto la loro attività soltanto all'interno dell'impresa, senza entrare in contatto con i terzi.

 

9. AZIENDA

A) Nozione e titolarità

L'azienda è «il complesso dei beni organizzali dall'imprenditore per l’eserci­zio dell'impresa» (art. 2555 c.c.).

Tali «beni» sono coordinati strumentalmente dall'imprenditore cui spetta la «titolarità dell'azienda » per consentirgli la utilizzazione funzionale nonché la piena disponibilità dei singoli beni per l'esercizio dell'impresa.

All'azienda, in particolare, fanno capo:

-          beni materiali (merci, macchinari, locali etc.);

-          beni immateriali (brevetti, marchi etc.).

Non fanno parte dell'azienda i contratti, i crediti ed i debiti che, invece, fanno capo direttamen­te all'imprenditore; essi sono suscettibili di essere ricollegati all'azienda, ma si tratta sempre di elementi distinti ed estrinseci ad essa. Né può ritenersi l'azienda comprensiva anche dei collaboratori dell'imprenditore, in quanto non è possibile equiparare le persone fisiche ai «beni» materialmente intesi. I termini impresa ed azienda vengono, talvolta, utilizzati nel linguaggio co­mune come sinonimi, è da dire però che da un punto di vista giuridico essi indicano due realtà molto diverse anche se strettamente connesse.

Possiamo definire:

-          l'azienda come il complesso dei beni che vengono predisposti per l'esercizio di un'attività produttiva;

-          l'impresa come quell'attività professionalmente organizzata allo scopo di produrre o scambiare beni e/o servizi.

Tra azienda ed impresa esiste, quindi, un rapporto strumentale in quanto la prima è il mezzo per il raggiungimento di uno scopo costituito dall'esercizio di un'attività di impresa.

B) L'avviamento

II fatto che l'azienda sia caratterizzata da un complesso di beni organizzati in funzione di uno scopo produttivo ci induce a considerare:

-          che, come tali, i singoli beni che compongono l'azienda hanno un determi­nato valore;

-          che, invece, se sono coordinati ed organizzati per l'esercizio aziendale ed in grado di produrre profitti, gli stessi beni hanno un valore generalmente superiore rispetto a quello individuale.

Il maggior valore che tali beni acquistano quando sono organizzati prende il nome di avviamento dell'azienda e trova espresso riconoscimento nella leg­ge (artt. 2424 e 2426 c.c.). Se un soggetto acquista un'azienda già avviata, acquista anche l’avviamento, cioè l'aspettativa di guadagni futuri ed infatti egli per la cessione dell'azienda dovrà pagare un prezzo più alto rispetto al reale valore dei singoli beni. L’avviamento, in pratica, è il plusvalore che deriva all'azienda dal fatto che i beni che la compongono sono organizzati e coordinati per conseguire lo stesso fine; esso può essere dunque:

-          soggettivo: in quanto inerente alle capacità e qualità personali dell'impren­ditore (es. cuoco, artigiano) e come tale non trasferibile perché connesso all'iniziativa, all'abilità, alle capacità di organizzazione di colui che gesti­sce l'attività;

-          oggettivo: in quanto inerente agli elementi dell'azienda ed al luogo in cui l'attività si esplica, per cui si trasferisce integralmente ed automaticamen­te con l'azienda stessa.

Uno degli indici per misurare il valore dell'avviamento è la clientela, cioè il flusso costante della domanda di beni o servizi che fanno capo all'azienda. La clientela non deve quindi confon­dersi con l'avviamento, rappresentando soltanto un aspetto di questo.

 

10. IL TRASFERIMENTO DELL'AZIENDA

A) Generalità

L'imprenditore nella veste di titolare dell'azienda può trasferire a terzi:

-          sia i singoli elementi dell'azienda;

-          sia l'azienda nel suo complesso.

Ouest'ultimo tipo di trasferimento può aversi per atto tra vivi in forme diverse (es. vendita, art. 2558 c.c.; usufrutto, art. 2561 c.c.; affitto, art. 2562 c.c.) secondo regole particolari, mentre può trasferirsi secondo le regole gene­rali per donazione, permuta, conferimento in società. Non sono previste disposizioni particolari, invece, per le ipotesi di trasferimento mortis causa dell'azienda; in tal caso si applicano le regole generali sulle successioni:

-          se l'erede continua l'esercizio dell'impresa sulla base dell'azienda acquistata per eredità, tutti i preesistenti rapporti passano in capo ad esso erede;

-          se l'erede, al contrario, non vuole continuare l'impresa e la aliena a terzi, si applicano le norme relative ai trasferimenti per atto inter vivos.

B) Disciplina

Norma fondamentale in materia è quella dell'art. 2556 c.c., secondo il qua­le: «per le imprese soggette a registrazione i contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà o il godimento dell'azienda devono essere provati per iscritto, salva l'osservanza delle forme stabilite dalla legge per il trasferimento dei singoli beni che compongono l’azienda o per la particolare natura del con­tratto».

Tale articolo, dunque, fissa due principi:

-          necessità della forma scritta solo ai fini della prova e per le sole imprese soggette a registrazione;

-          osservanza delle forme stabilite dalla legge per il trasferimento dei sin­goli beni che compongono l'azienda (necessità della forma scritta ai fini della validità dell'atto, se trattasi di immobili etc.).

Da tali principi si deduce che, in realtà, l'azienda non ha peculiari modalità di trasferimento, ma circola nelle forme proprie dei beni che la compongono: cedere o affittare l'azienda, cioè, equi­vale a cedere o locare una serie di beni.

Nell'atto di cessione non è necessario indicare tutti i beni dell'azienda che si trasferiscono (basta, infatti, per l'art. 1346 c.c., che tali beni siano determinabili), mentre occorre necessaria­mente indicare i beni che non vengono trasferiti.

La L. 12‑8‑1993, n. 310 (per contrastare il fenomeno del riciclaggio di capitali di provenienza illecita) ha prescritto che, sempre limitatamente alle imprese soggette a registrazione, i contratti che hanno per oggetto il trasfe­rimento della proprietà o il godimento dell'azienda devono essere redatti per atto pubblico o per scrittura privata autenticata per consentirne l'iscrizione nel registro delle imprese, entro 30 giorni, a cura del notaio rogante o auten­ticante.

C) Posizione del cessionario

Il cessionario acquista l'azienda a titolo derivativo, ma non così la qualità di imprenditore, che viene acquistata a titolo originario: da ciò consegue che il cessionario non esercita la stessa impresa che ha acquistato, bensì esercita un'impresa nuova ad essa corrispondente (è inesatto pertanto parlare, in tal caso, di successione nell'impresa).

 

11. SUCCESSIONE NEI CONTRATTI DELL'AZIENDA CEDUTA

Statuisce l'art. 2558 c.c. che, in caso di trasferimento, «se non è pattuito diversamente, l'acquirente dell'azienda subentra nei contratti stipulati per l’ eserci­zio dell'azienda stessa che non abbiano carattere personale».

Tale articolo fissa due principi:

-          la successione del cessionario nei contratti dell'azienda ceduta come effetto naturale della cessione stessa (salvo patto contrario);

-          l'esclusione da tale successione dei contratti a carattere personale.

A) Successione

I contratti in cui succede il cessionario sono quelli stipulati per l'esercizio dell'azienda stessa, e, quindi, qualunque contratto stipulato dall'imprendito­re per l'esercizio dell'impresa. In particolare, per i contraili di lavoro detta espressamente l'art. 2112 c.c. (come sostituito dal D.Lgs. 18/2001) che «in caso di trasferimento dell'azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano».

Altri contratti in cui subentra l'acquirente sono:

-          i contratti di locazione dell'immobile in cui opera l'azienda;

-          i contratti di somministrazione delle materie prime stipulati con i fornitori abituali;

-          i contratti di assicurazione relativi all'impresa.

Le parti possono escludere, con apposito patto espresso, tale successione, anche se questa possibilità non sussiste per quei contratti che attengono al­l'organizzazione aziendale (c.d. contratti aziendali) ed il cui venir meno fareb­be venir meno la stessa azienda. Tale successione, inoltre, si verifica, a differenza del principio generale san­cito dall'art. 1406 c.c., indipendentemente dal consenso del contraente ceduto: questo, infatti, ha solo la facoltà, se sussiste una giusta causa, di recedere dal contratto entro i tre mesi dalla notizia del trasfèrimento (art. 2558, 2° comma, c.c.). Le ragioni dell'impresa prevalgono, quindi, sulle esigenze di protezione dell'autonomia privata.

B) Esclusione dei contratti personali

A norma dell'art. 2558 c.c. sono esclusi dalla cessione automatica i contratti che abbiano carattere personale, nei quali hanno fondamentale rilievo le qualità personali e professionali della controparte proprio perché basati su di un rapporto fiduciario con l'imprenditore.

 

12. DEBITI E CREDITI DELL’AZIENDA CEDUTA

I crediti ed i debiti relativi all'azienda ceduta sono regolati dagli artt. 2559 e 2560 c.c.: tali norme introducono alcune deroghe ai principi di diritto comu­ne in materia di cessione dei crediti e successione nei debiti.

A) Successione nei crediti

Cart. 2559 c.c. dispone che la loro cessione a favore dell'acquirente ha ef­fetto, nei confronti dei terzi (debitori), dal giorno della notifica al debitore o della sua accettazione (secondo le regole comuni in tema di cessione di credi­ti); ovvero, dal momento dell'iscrizione nel registro delle imprese dell'interve­nuto trasferimento dell'azienda.

B) Successione nei debiti

Per tutelare i creditori che non devono subire pregiudizi dal trasferimento dell'azienda nel caso in cui il cessionario sia un soggetto che non offre suffi­cienti garanzie patrimoniali:

-          l'alienante, salvo che i creditori non ne abbiano espressamente consentito la liberazione, rimane obbligato per le obbligazioni anteriori al trasferimento (art. 2560 c.c.);

-          l'acquirente è responsabile in solido con l’alienante per i debiti aziendali anteriori al trasferimento a condizione che risultino dalle scritture conta­bili obbligatorie oppure, per i debiti. nei confronti dei lavoratori, che siano iscritti nei libretti di lavoro o comunque noti all'acquirente.

 

13. IL DIVIETO DI CONCORRENZA

La cessione dell'azienda unitariamente considerata produce tutta una serie di effetti che ven­gono disciplinati in modo specifico dalla legge. Stabilisce l'art. 2557 c.c.: «chi aliena l'azienda deve astenersi, per il periodo di cinque anni dal trasferimento, dall'iniziare una nuova impresa che per l’oggetto, l’ubicazione o altre circostanze sia idonea a sviare la clientela dell'azienda ceduta [...]. Nel caso di usufrutto o di atto dell’azienda il divieto di concorrenza [...] vale [...] per la durata dell'usufrutto o dell’affitto».

Questo divieto è posto a tutela dell'avviamento ed è soltanto un effetto naturale del negozio: le parti infatti, ai sensi del già citato art. 2557 c.c., possono escluderlo, limitarlo o, anche stabilire un divieto più ampio purché, in quest'ultimo caso, non ne resti impedita ogni attività professionale per l'alienante. Il patto di astensione dalla concorrenza, non può avere una durata maggiore di cinque anni.

 

14. USUFRUTTO E AFFITTO DI AZIENDA

L’azienda può anche essere costituita in usufrutto (art. 2561 c.c.) o con­cessa in affitto (art. 2562 c.c.).

L’usufruttuario ed affittuario hanno l'obbligo di esercitare l'azienda sotto la ditta che la con­traddistingue, gestirla senza modificarne la destinazione, ricostituire le normali dotazioni di scorte e sostituire gli impianti deteriorati dall'uso.

L'usufruttuario e l'affittuario subentrano automaticamente nei contratti aziendali per la durata dell'usufrutto o dell'affitto (art. 2558, 3° comma, c.c.), con la conseguenza che proprietario e locatore ridiventeranno parte di quelli che ancora durano alla fine del rapporto. Non si verifica accollo dei debiti aziendali anteriori (salvo che per i debiti di lavoro ex art. 2112 c.c.); mentre la disciplina dettata dall'art. 2559 c.c. per i crediti aziendali si applica soltanto all'usufrutto e non all'affitto.

 

15. I SEGNI DISTINTIVI

L’impresa opera sul mercato per lo più in un regime di concorrenza per cui è necessario che sia contraddistinta da alcuni elementi che ne permettano una facile individuazione. Segni distintivi dell'impresa sono la ditta, l'insegna ed il marchio che la leg­ge tutela riconoscendone all'imprenditore la esclusività dell'uso e impedendo che altri se ne avvalgano.

A) La ditta

Tra i segni distintivi assume una prevalente importanza la ditta, che è il nome sotto il quale l'imprenditore svolge la sua attività. Essa costituisce, a differenza del marchio e dell'insegna, che hanno carat­tere meramente facoltativo, mezzo di individuazione necessario dell'impresa economica. Nella creazione della ditta l'imprenditore deve rispettare due principi: il principio della verità ed il principio della novità.

-          Principio della verità: esso impone che l'attività economica sia esercitata in nome proprio dall'imprenditore: per questo è stabilito che, in qualunque modo sia formata, la ditta deve contenere almeno il cognome o la sigla del­l'imprenditore medesimo (art. 2563 c.c.);

-          Principio della novità: la ditta deve essere anche nuova, cioè idonea a caratterizzare una data impresa, differenziandola in modo preciso da imprese similari. La novità non è intesa in senso assoluto, ma in relazione ad im­prese col medesimo oggetto ed operanti nella stessa parte del territorio nazionale.

Alfine di evitare che una ditta possa essere confusa con un'altra, l'art. 2564 c.c, prescrive che: «quando la ditta è uguale o simile a quella usata da altri imprenditori e può creare confusione, per l'oggetto dell'impresa e per il luogo in cui questa è esercitata, deve essere integrata o modificata con indicazioni idonee».

La ditta può essere trasferita sia per atto tra vivi che per causa di morte purché con essa avvenga contestualmente il trasferimento della azienda. Nel caso, poi, di usufrutto o affitto dell'azienda, la ditta deve essere necessariamente trasferita.

B) L'insegna

L'insegna è il segno distintivo del locale nel quale si svolge l'attività del­l'imprenditore. Essa può corrispondere alla ditta e, in questo caso, la tutela dell'insegna è un riflesso della tutela della ditta; può, invece, avere un contenuto diverso ed essere formata sia mediante una denominazione, che mediante figure o simboli. Anche in questo caso l'insegna deve presentare i caratteri della originalità (e cioè capacità distintiva) e della novità (deve essere, cioè, tale da non ingenerare confusione, in relazione al luogo e all'oggetto dell'attività, con l'insegna adottata da altro imprenditore).

C) Il marchio

Il marchio è il segno distintivo del prodotto. Esso può consistere tanto in un emblema (c.d.marchio emblematico), quanto in una denominazione o in un segno (si pensi al cavallino rampante delle auto della Ferrari), purché presenti carattere distintivo e cioè: abbia il carattere delle novità; non sia contrario alla legge, all'ordine pubblico o al buon costume; non sia generico e non veritiero. Funzione precipua del marchio è dunque quella di differenziare i prodotti di un imprenditore da quelli merceologicamente similari immessi sul merca­to dai concorrenti. La L. 24‑12‑1959, n. 1178, ha poi previsto che il marchio possa distinguere non soltanto beni, ma anche attività produttive di servizi (es. imprese banca­rie, assicurative, di spettacoli etc.).

I marchi si distinguono in diversi tipi, fra i quali ricordiamo:

1)                                                    marchio di fabbrica, che serve ad indicare la provenienza del prodotto da una determinata impresa industriale;

2)                                                    marchio di commercio, che serve ad indicare che esso è posto in vendita da una determinata impresa (es.: marchio dei grandi magazzini o dei supermercati). Il rivenditore, comunque, anche se appone il proprio marchio di commercio, non può cancel­lare quello di fabbrica (art. 2572 c.c.);

3)                                                    marchio di forma, che consiste nella forma dell'involucro o anche del prodotto, purché non meramente funzionale od ornamentale (es.: la bottiglia della Coca‑cola);
4)                                                    marchio collettivo (o di categoria), tendente a proteggere indistintamente i prodotti di un gruppo di imprese associate tra di loro (es.: «pura lana vergine»).

I marchi, inoltre, possono essere:

-                                                                                emblematici o figurativi, e consistono in figure, riproduzioni di oggetti del mondo reale o disegni fantastici;

-                                                                                nominativi, e consistono nel nome del produttore;

-                                                                                denominativi, e consistono in nomi comuni e di fantasia, nonché nelle più varie combinazioni di parole.

Si hanno poi marchi misti, composti o complessi, risultanti dalla combinazione di elementi emblematici, figurativi o nominativi. Ciascun imprenditore ha diritto di avvalersi in modo esclusivo del marchio da lui prescelto, al pari di quanto avviene per la ditta e l'insegna.

Il diritto all'uso esclusivo del marchio può acquistarsi in due modi:

·                                                                               con la registrazione (c.d.marchio registrato), disposta dall'Ufficio italiano brevetti e marchi, istituito presso il Ministero delle Attività produttive (art. 2569 c.c.).

·                                                                               con l'uso di fatto (c.d.marchio non registrato).
A norma dell'art. 2571 c.c., invero, chi ha fatto uso di un marchio non registrato ha la facoltà di continuare ad usarlo, nonostante la registrazione da altri ottenuta, nei limiti in cui anteriormente se ne è avvalso.

Il marchio non registrato gode di una tutela minore di quello registrato: infatti chi ottiene la registrazione gode della presunzione assoluta della titolarità del diritto e di una protezione estesa comunque a tutto il territorio nazionale: colui che vanta soltanto un preuso, invece, deve innanzitutto provarlo e riceve poi una tutela limitata all'ambito entro il quale detto preuso sia avvenuto.

L’esclusiva, inoltre, non si estende mai ai prodotti affini a quelli individuati dal marchio di fatto. Il marchio di fatto, infine, ha una tutela penale più limitata (artt. 473 e 517 c.p.) ed una tutela civile ristretta alle sole azioni di concorrenza sleale e di risarcimento del danno. Il marchio può essere trasferito per la totalità o per una parte dei prodotti o servizi per i quali è stato registrato e la cessione può avvenire anche indipen­dentemente dal trasferimento dell'intero complesso aziendale.

In ogni caso, però, dal trasferimento del marchio non deve derivare ingan­no in quei caratteri dei prodotti o servizi che sono essenziali nell'apprezza­mento del pubblico. Il marchio, oltre che trasferito a titolo definitivo, può essere anche concesso in godimento temporaneo (c.d.licenza di marchio).

 
16. IL CONTRATTO DI SOCIETÀ

Un'attività economica può essere esercitata da una singola persona fisi­ca (impresa individuale) oppure da una pluralità di persone (impresa col­lettiva).

Nell'impresa individuale l'imprenditore è a capo dell'impresa e ne assume i rischi, nel secondo caso più soggetti concorrono all'esercizio dell'attività eco­nomica dividendo utili e perdite.

La società quindi è la forma di esercizio collettivo dell'impresa, in quanto è un'organizzazione di persone e di beni preordinata al raggiungimento di uno scopo produttivo.

Oggi l'impresa collettiva è largamente prevalente su quella individuale per­ché consente non solo la raccolta di maggiori mezzi finanziari, ma anche il frazionamento del rischio d'impresa tra coloro che vi fanno parte.

In base all'art. 2247 c.c. la società si costituisce mediante contratto con cui due o più persone confèriscono beni o servizi per l'esercizio in comune di un at­tività economica allo scopo di dividerne gli utili.

Dalla definizione si desume che gli elementi essenziali del contratto di so­cietà sono:

  • la pluralità di persone: che è sempre necessaria al momento della costitu­zione della società;
  • il conferimento di beni o servizi: la società non può esistere senza un fondo sociale, pertanto con il contratto di società ogni contraente si obbliga a contribuire alla formazione di esso, mediante prestazione di beni (mobili, immobili, crediti) o servizi (la propria attività manuale o intellettuale);
  • l'esercizio in comune di un attività economica: l'attività di produzione e di scambio è esercitata nell'interesse di tutti i soci che ne assumono il rischio;
  • la divisione degli utili: costituisce lo scopo ultimo dell'attività sociale che è quello di realizzare un guadagno che venga ripartito tra i soci.

I conferimenti sono le prestazioni di dare o di fare cui le parti del contrat­to di società si obbligano, al fine di esercitare in comune un'attività economi­ca.

Conferimento non significa consegna del bene o prestazione effettiva del servizio, ma soltanto assunzione dell'obbligazione di dare o di fare. Il contrat­to di società è, perciò, un contratto consensuale.

Possono formare oggetto di conferimento innanzitutto i beni, cioè denaro, beni mobili o immobili, e in generale ogni cosa che sia utilizzabile e suscetti­bile di valutazione economica.

Per effetto del conferimento il proprietario non può più utilizzare indivi­dualmente il bene conferito, essendo esso vincolato a quella specifica desti­nazione che è l'esercizio dell'attività economica, ma potrà farlo solo colletti­vamente, secondo le regole di organizzazione proprie dei diversi tipi di so­cietà.

Possono formare oggetto di conferimento anche i servizi, ossia l'attività lavorativa o gli apporti d'opera del socio (è importante ricordare, però, che nelle società di capitali è escluso che si possano conferire servizi).

 

DISTRIBUZIONE DEGLI UTILI E PATTO LEONINO

La distribuzione degli utili fra i soci è essenziale al contratto di società, ma ciò non significa che ciascun socio debba parteciparvi in uguale misura, e neppure che debba sussistere una proporzione tra conferimento e partecipa­zione agli utili. Alla partecipazione del socio alla ripartizione degli utili della società si correla la partecipazione alle perdite, almeno nel limite del valore dei conferi­menti eseguiti (artt. 2263 e 2264 c.c.).

Normalmente la partecipazione agli utili ed alle perdite è proporzionale ai conferimenti; tuttavia, le parti sono libere di fissare nel contratto sociale criteri di ripartizione diversi, ad esempio attribuendo a determinati soci una posi­zione privilegiata.

Unico limite a tale libertà è quello stabilito dal divieto del patto leonino, (chiamato così perché consentirebbe ad uno o più soci di fare la «parte del leone») ossia del patto con il quale uno o più soci sono esclusi da ogni parteci­pazione agli utili o alle perdite (art. 2265 c.c.).

 

17. LA CLASSIFICAZIONE DELLE SOCIETÀ

Il libro V del codice civile prevede diversi tipi di società, ciascuno dei quali con una propria normativa; in particolare il titolo V disciplina: la società sem­plice, in nome collettivo, in accomandita semplice, a responsabilità limitata, per azioni, in accomandita per azioni, a responsabilità limitata; mentre il tito­lo VI disciplina altri due tipi di società, dette mutualistiche: la società coope­rativa e quella di mutua assicurazione.

Il sistema previsto dalla legge è un sistema «tipico», nel senso che chi vuol costituire una società deve necessariamente adottare uno dei tipi di società previsti e disciplinati dalla legge; non è possibile, cioè, creare società atipiche diverse per struttura o disciplina dal modello legale.

Le società sono variamente classificate.

Innanzitutto in base allo scopo distinguiamo tra:

-          società lucrative, che hanno la finalità di dividere gli utili conseguiti tra i soci. Sono tali tutte le società previste dal titolo V del codice civile: società semplice, in nome collettivo, in accomandita semplice, a responsabilità limitata, per azioni e in accomandita per azioni;

-          società mutualistiche, che non hanno, invece, lo scopo di perseguire un utile per i soci, ma piuttosto quello di fornire ai soci stessi beni, servizi od occasioni di lavoro a condizioni più vantaggiose di quelle offerte dal mer­cato. Sono società mutualistiche quelle previste dal titolo VI e cioè: le so­cietà cooperative e la mutua assicurazione.


In relazione all'oggetto sociale e quindi alla natura dell'attività svolta di­stinguiamo tra:

-          società commerciali, che sono quelle che svolgono una delle attività indi­cate dall'art. 2195 c.c. Tali sono tutte le società ad esclusione della società semplice, che non può mai avere natura commerciale. Esse sono soggette alla particolare disciplina prevista per le imprese commerciali;

-          società non commerciali, che hanno ad oggetto un'attività non commer­ciale (attività agricola, attività di revisione contabile).


In relazione al grado di autonomia patrimoniale, che indica la separazio­ne che si viene a creare tra il patrimonio della società e quello dei singoli soci, distinguiamo tra:

-          società di capitali, che sono dotate di autonomia patrimoniale perfetta; ciò significa che il patrimonio sociale è nettamente distinto da quello personale dei singoli soci e la società gode di personalità giuridica, essendo un soggetto giuridico a sé stante; quindi i creditori della società potranno sod­disfarsi solo sul patrimonio della società ma non potranno pretendere che i soci facciano fronte con i patrimoni personali ai debiti contratti dalla società. I soci rischiano, dunque, solo sui limiti della quota conferita. Sono società di capitali: la società per azioni, in accomandita per azioni e a re­sponsabilità limitata;

-          società di persone, che invece, sono dotate di autonomia patrimoniale imperfetta; ciò comporta che la società, pur essendo dotata di un proprio patrimonio non ha personalità giuridica; i creditori sociali, quindi, qualo­ra il patrimonio sociale non è sufficiente a soddisfare i loro crediti, potran­no aggredire il patrimonio personale dei singoli soci, i quali rischiano nella società non solo i beni conferiti, ma anche i loro beni personali. Sono società di persone: la società semplice, la società in nome collettivo e quella in accomandita semplice.

 

18. LE SOCIETÀ DI PERSONE

A) La società semplice

La società semplice è la forma più elementare di società, la cui caratteri­stica fondamentale è data dal fatto che essa può avere ad oggetto esclusiva­mente l'esercizio di attività non commerciali. Le società semplici svolgono solitamente attività agricole, attività di ge­stione di immobili e attività di revisione contabile di aziende. La disciplina prevista nel codice civile per la società semplice (artt. 2251­2290) assume particolare importanza, in quanto il legislatore, nel dettare le norme applicabili alle società di persone, ha ritenuto opportuno disciplinare in maniera dettagliata la società semplice, per poi limitarsi a richiamare tale disciplina (talvolta anche soltanto per derogare ad essa) in occasione della regolamentazione della società in nome collettivo e della società in accoman­dita semplice. Le norme che regolano la società semplice valgono, dun­que, fatte salve le deroghe espressamente previste (ad esempio, artt. 2293 e 2315 c.c.), anche per le altre società di persone.

Il contratto costitutivo non richiede formalità particolari; tuttavia quan­do si conferiscono in proprietà beni immobili o diritti reali immobiliari ovvero quando si conferiscono in godimento gli stessi a tempo indetermi­nato o per un periodo superiore a nove anni è richiesto l'atto scritto a pena di nullità.

La società semplice non ha personalità giuridica ed ha un'autonomia patrimoniale imperfetta; ciò comporta che i creditori sociali possono agire direttamente nei confronti dei soci che hanno agito in nome e per conto della società i quali rispondono solidalmente e illimitatamente dei debiti sociali. La responsabilità dei soci, pero, è sussidiaria nel senso che opera solo in caso di insuffi­cienza del patrimonio societario, pertanto se il creditore si rivolge per la soddisfazione del suo credito ad un socio questi può domandare la preventiva escussione del patrimonio sociale indicando i beni su cui il creditore possa agevolmente soddisfarsi.

Inoltre i creditori personali del socio non possono agire sui beni della società, ma possono ottenere la liquidazione della quota del socio loro debitore, se i beni di quest'ultimo non sono sufficienti a soddisfarli.

L'amministrazione intesa come attività di gestione dell'impresa sociale può assumere nella società semplice varie forme.

Il principio generale per la società semplice, richiamato anche per le altre società di persone, è che il potere di amministrazione della società spetta a cia­scun socio con responsabilità illimitata, disgiuntamente dagli altri soci.

Tale potere, tuttavia, proprio perché può essere esercitato disgiuntamente dagli altri soci, non è illimitato, ma viene contemperato dal potere riconosciu­to a ciascuno degli altri soci di opporsi all'operazione da compiere, prima che la stessa sia compiuta: diritto di veto.

Se l'opposizione è tempestiva, l'atto non può più essere compiuto fino alla decisione sull'opposizione.

Tale decisione demandata alla collettività dei soci, i quali decidono a mag­gioranza, computata tenendo conto della quota di partecipazione agli utili a ciascuno di essi spettante (art. 2257 c.c.).

Nell'atto costitutivo può essere previsto un sistema di amministrazione congiuntiva, secondo il quale per il compimento delle operazioni sociali è necessario il consenso di tutti i soci e i singoli amministratori non possono compiere da soli nessun atto, salvo che vi sia urgenza di evitare un danno alla società.

Sia nel sistema di amministrazione disgiuntiva sia in quello di ammini­strazione congiuntiva, vale la regola per la quale tutti i soci illimitatamente responsabili concorrono nella amministrazione della società. Tuttavia tale regola può essere derogata dall'atto costitutivo, il quale può riservare I ámmi­nistrazione ad uno o più soci (disgiuntamente o congiuntamente, in quest'ulti­mo caso).


B) La società in nome collettivo

La società in nome collettivo è una società di persone che la legge ha previsto per l'esercizio di attività commerciali; solitamente si tratta di imprese commerciali di modeste dimensioni, basate soprattutto sul rapporto di fidu­cia tra i soci. Svolgendo attività commerciale le società in nome collettivo sono sottoposte allo statuto dell'imprenditore commerciale.

La disciplina della s.n.c. è compresa negli artt. 2291‑2313 del codice civile, ma è previsto il rinvio alle norme della società semplice in mancanza di dispo­sizioni specifiche.

La stipulazione dell'atto costitutivo deve essere fatta per iscritto e cioè mediante scrittura privata autenticata dal notaio o atto pubblico che deve essere pubblicato nel registro delle imprese. Tuttavia l'inosservanza di questo requisito formale non comporta l'invalidità del contratto, ma solo il divieto di iscrizione nel registro delle imprese; la società costituita mediante regolare atto costitutivo ma non registrata al registro delle imprese esiste ugualmente, anche se è irregolare.

Eventuali modificazioni del contratto sociale devono essere decise, sal­vo patto contrario, all'unanimità (cioè con il consenso di tutti i soci) e pubbli­cate, a loro volta, dagli amministratori nel registro delle imprese (finché non registrate, infatti, esse non sono opponibili ai terzi, se non si prova che questi ne erano a conoscenza).

L’autonomia patrimoniale delle s.n.c. è imperfetta, ma più netta rispetto a quella delle società semplici; infatti la responsabilità dei soci per le obbligazioni sociali è illimitata e solidale, ma più accentuato è il carattere della sussidiarietà in quanto il beneficio di escussione opera automatica­mente: il creditore sociale non può rivolgersi ai singoli soci se non dopo aver escusso il patrimo­nio sociale (a differenza della società semplice dove il beneficio di preventiva escussione opera solo se richiesto dal socio). Inoltre il creditore particolare del socio non può chiedere la liquida­zione della quota del suo debitore.

Per quanto riguarda l'esecuzione del rapporto sociale, i soci hanno, in pri­mo luogo, l'obbligo di compiere i conferimenti, così concorrendo alla for­mazione del capitale sociale.

In secondo luogo, in mancanza del consenso (anche presunto) degli altri soci, il socio non può esercitare, per conto proprio o altrui, un'attività con­corrente con quella della società, né partecipare con responsabilità illimitata ad altra società concorrente.

In terzo luogo, la società è tenuta a redigere annualmente, alla chiusura dell'esercizio sociale, l'inventario, che è costituito dal bilancio e dal conto dei profitti e delle perdite. Dopo l'approvazione del rendiconto annuale, ciascun socio ha diritto di percepire la sua parte di utili, in misura proporzionale ai conferimenti. Anche nella società in nome collettivo, tuttavia, non può farsi luogo alla ripartizione di somme se non per utili effettivamente conseguiti.

In ordine all'amministrazione, nella S.n.c. tutti i soci hanno diritto, in mancanza di speciali accordi, di amministrare personalmente i beni sociali; valgono le stesse regole della società semplice.

 

C) La società in accomandita semplice

La società in accomandita semplice (s.a.s.) è una società di persone ca­ratterizzata dal fatto che di essa fanno parte due diverse categorie di soci:

-          gli accomandanti i quali, conferendo soltanto dei beni e non partecipando alla gestione sociale, non assumono responsabilità verso i terzi creditori so­ciali ed hanno solo l'obbligo di versare alla società il proprio apporlo (re­sponsabilità limitala);

-          gli accomandatari che invece partecipando alla gestione ed alla direzione della società, assumono una responsabilità illimitata e rispondono anche con il proprio patrimonio personale, sia pure in via sussidiaria, delle obbli­gazioni sociali.

La ragione sociale è costituita dal nome di almeno uno dei soci accoman­datari con l'indicazione di s.a.s.

L’atto costitutivo va redatto per iscritto (scrittura privata autenticata o atto pubblico) e va pubblicato nel registro delle imprese.

Con riguardo all'amministrazione della società, abbiamo detto che i soci accomandanti sono obbligati solo al conferimento, corrono il rischio di per­dere solo il capitale conferito, ma non hanno alcun potere di amministrazio­ne. Pertanto, qualora l’accomandante si ingerisca nella gestione sociale com­piendo atti di amministrazione, risponde illimitatamente e solidalmente delle obbligazioni sociali (si considera di fatto un accomandatario).

Essi, però, possono prestare la loro opera sotto la direzione degli ammini­stratori; possono agire per singoli affari, in forza di procura speciale; possono, se previsto dall'atto costitutivo o con patto espresso, dare autorizzazioni e pa­reri per determinate operazioni e compiere atti d'ispezione e di sorveglianza, purché tali attività non abbiano a trasformarsi sostanzialmente in una inge­renza nell'amministrazione; hanno diritto, al termine dell'esercizio annuale, di avere comunicazione del bilancio e di esercitare un controllo di legittimità sullo stesso e sul conto dei profitti e delle perdite, consultando i libri e gli altri documenti della società pur non partecipando all'approvazione del bilancio stesso.

I soci accomandatari, invece, hanno il potere di amministrare la società, potere che è conferito loro di diritto.

Per quanto riguarda la possibilità di uscire dalla società cedendo la propria quota, mentre i soci accomandatari, in quanto personalmente responsabili per i debiti sociali, possono farlo solo con il consenso di tutti altri soci, gli accomandanti, posta la scarsa influenza che essi hanno nella vita della società, possono, salvo patto contrario, liberamente trasferire la propria quota per atto tra vivi purché vi sia il consenso di tanti soci che rappresentino la maggioranza del capitale sociale.

 

19. LE SOCIETA’ DI CAPITALI

A) La società per azioni

La società per azioni (S.p.a.) rappresenta il principale tipo di società di capitali e, allo stesso tempo, la forma più importante di società predisposta per le imprese di grandi dimensioni, che richiedono l'apporto di ingenti capi­tali e importano l'assunzione di notevoli rischi. A norma dell'art. 2325 c.c.: nella società per azioni, per le obbligazioni socia­li, risponde soltanto la società con il suo patrimonio. Le quote di partecipazione dei soci sono rappresentate da azioni.

Dalla lettura di questa disposizione legislativa, combinata con l'art. 2327, deriva che tre sono i caratteri che contraddistinguono la S.p.a.:

-          la limitazione della responsabilità dei soci alla somma o al bene confe­rito;

-          il capitale sociale è costituito da azioni e cioè porzioni di uguale ammontare ognuna delle quali esprime la misura della partecipazione di ciascun socio alla società;

-          il capitale sociale non può essere inferiore all'importo minimo fissato dalla legge (art. 2327 c.c.).

La denominazione può essere costituita anche da un nome di fantasia, ma deve contenere l'indicazione società per azioni.

La s.p.a. si costituisce per contratto che risulta da due documenti separati:

-          l'atto costitutivo in cui si manifesta la volontà delle parti di dare vita alla società. Esso va redatto per atto pubblico la cui mancanza determina la nullità della società;

-          lo statuto che contiene le norme sul funzionamento della società.

Vi sono due tipi di stipulazione dell'atto costitutivo:

-          stipulazione simultanea o istantanea: mediante comparizione delle parti avanti al notaio e redazione dell'atto pubblico;

-          stipulazione successiva o per pubblica sottoscrizione: al termine e come con­clusione di una complessa fase di raccolta delle sottoscrizioni.

La costituzione della S.p.a. si completa con l'iscrizione nel registro delle imprese che avviene d'ufficio; la pubblicità dell'iscrizione ha efficacia costitu­tiva e cioè è un elemento indispensabile per dirsi che la società sia venuta ad esistenza ed acquisti la personalità giuridica.

I fatti più importanti relativi alla vita della società (non solo l'atto costitu­tivo, ma anche, ad esempio, la nomina dei sindaci, il conferimento delle pro­cure etc.) devono essere iscritti nel registro delle imprese.

Per la costituzione di una società per azioni, inoltre, sono richieste tre condizioni necessarie (art. 2329 c.c.):

1)      un capitale sociale minimo di 100.000 euro (200 milioni di vecchie lire);

2)      un versamento dei 3/10 dei conferimenti in denaro su un c/c vincolato di un qualsiasi istituto di credito;

3)      devono sussistere le autorizzazioni governative e le altre condizioni richieste da leggi speciali in relazione al suo particolare oggetto (così, ad esempio, le società bancarie e assicuratrici necessitano sempre di una specifica auto­rizzazione governativa).

In considerazione delle disposizioni previste dalla L. 340/2000, il controllo sulla regolarità formale dell'atto costitutivo, viene svolto direttamente dal no­taio davanti al quale è stipulato, e non più, tramite il decreto di omologazione del tribunale.

Proprio perché, prima dell'iscrizione nel registro delle imprese, la società non può ritenersi ancora esistente, è fatto alla stessa divieto di emissione e di vendita di azioni fino al momento dell'iscrizione ed è previsto che coloro che abbiano eventualmente compiuto operazioni in nome della società siano solidalmente ed illimitatamente responsabili vero i terni.

Una volta avvenuta l'iscrizione nel registro delle imprese, la nullità della società può essere pronunciata soltanto nei casi tassativamente indicati dall'art. 2332 c.c.

Al socio azionista spettano diritti di amministrazione e diritti di natura patrimoniale.

Sono diritti di amministrazione:

-          il diritto di intervenire alle assemblee dei soci e di partecipare alla discus­sione;

-          il diritto di voto che spetta al socio per ogni azione posseduta;

-          il diritto di ispezionare i libri contabili ed esaminare il bilancio;

-          il diritto di impugnare le delibere assembleari non conformi alla legge o all'atto costitutivo.

 

Sono diritti patrimoniali:

-          il diritto al dividendo e quindi agli utili conseguiti dalla società;

-          il diritto alla ripartizione del residuo attivo in seguito allo scioglimento della società;

-          il diritto di opzione e cioè di sottoscrivere le nuove azioni che sono emesse dalla società.

Costituiscono obblighi dei soci l'esecuzione dei conferimenti e l'esecuzio­ne di prestazioni accessorie (non consistenti in denaro) eventualmente stabi­lite dall'atto costitutivo.

La S.p.a. ‑ come tutte le persone giuridiche ‑ svolge la propria attività a mezzo di organi. Essi sono:

-          l'assemblea: con funzioni deliberative;

-          gli amministratori: con funzioni di gestione o di amministrazione;

-          il collegio sindacale: con funzioni di controllo.

 

B) La società in accomandita per azioni

La società in accomandita per azioni (s.a.p.a.) è una società di capitali in cui sono presenti due categorie di soci: gli accomandatari, solidalmente e illi­mitatamente responsabili delle obbligazioni sociali e i soci accomandanti che rispondono nei limiti del conferimento. Agli accomandanti si applicano le regole della società in accomandita semplice, ad esclusione dell'art. 2320 c.c. relativo al divieto di immistione. L'accomandante, infatti, non ha poteri amministrativi né può comunque esercitarli efficacemente; per lui nemmeno si pro­spetta la possibilità di compiere atti di amministrazione neanche in forza di una procura speciale per singoli affari.

Quanto agli accomandatari l'atto costitutivo deve indicare con precisione i loro nomi. Essi assumono di diritto, ossia indipendentemente da una nomina assembleare, la carica di amministratori e la conservano senza limiti di tem­po.

È prevista decadenza per revoca ad opera dell'assemblea (se, però, la revo­ca avviene senza giusta causa, l'amministratore revocato ha diritto al risarci­mento dei danni), per rinuncia o per altre ragioni (morte, decadenza, vendita delle azioni etc.).

Al contrario di quanto avviene nella società in accomandita semplice, ove gli accomandatari possono, ma non devono, esercitare le funzioni di amministratori, nella società in accomandita per azioni vi è un nesso indissolubile tra la qualità di socio accomandatario e la titolarità della carica di amministrato­re.

Il capitale sociale è rappresentato da azioni e il suo ammontare minimo è

quello previsto perle s.p.a. (100.000 curo).

La s.a.p.a., pertanto, presenta affinità sia con la s.a.s., per la presenza di due categorie di soci, sia con la s.p.a. in quanto le quote di partecipazione dei soci sono rappresentate da azioni.

La disciplina della s.a.p.a. è in parte quella dettata per la s.p.a., in parte consta di norme proprie della società.

Le norme proprie previste per la s.a.p.a. riguardano:

-          la denominazione sociale, che deve contenere il nome di almeno uno dei soci accomandatari e l'indicazione s.a.p.a.;

-          le modificazioni dell'atto costitutivo devono essere approvate dall'assem­blea straordinaria e devono altresì riportare il consenso unanime degli acco­mandatari;

-          gli accomandatari non votano nelle delibere di nomina e di revoca del colle­gio sindacale (cioè dell'organo che esercita su di loro funzioni di controllo) ed in quelle concernenti l'esercizio dell'azione di responsabilità;

-          la nomina degli amministratori non spetta all'assemblea, in quanto sono amministratori tutti i soci accomandatari.

 

C) La società a responsabilità limitata

Società a responsabilità limitata (s.r.l.) è una società di capitali che esercita un'attività col patrimonio conferito dai soci e con gli utili eventualmente accumulati ed in cui le quote di partecipazione dei soci non possono essere rap­presentate da azioni.

Trattandosi di società di capitali, è dotata di personalità giuridica e di auto­nomia patrimoniale perfetta; essa si presta per l'esercizio di imprese sociali di ridotte dimensioni, in cui lo schema societario permette di fruire del beneficio della responsabilità limitata.

La disciplina della s.rl. è in parte quella dettata per la s.p.a., in parte contiene norme specifiche per questo tipo di società.

La costituzione della s.r.l. avviene per atto pubblico e la società acquista personalità giuridica con l'iscrizione nel registro delle imprese.

Le s.rl. a differenza dalle s.p.a. presentano le seguenti caratteristiche:

-          il capitale minimo per la loro costituzione è di 10.000 curo (20 milioni delle vecchie lire);

-          le quote di partecipazione non possono essere rappresentate da azioni, ma da titoli partecipativi ad probationem divisibili; il loro valore non può esse­re inferiore a 1 euro;

-          il Collegio sindacale, come organo sociale, è obbligatorio se il capitale sociale dovesse superare i 103.291,38 euro o se è stabilito nell'atto costitutivo;

-          si possono costituire le s.r.l. con un unico socio con atto pubblico unilate­rale, ma si versa l'intero capitale anziché i 3/10 dei conferimenti in denaro.

 

 

Società di persone e di capitali a confronto:

Società di persone

Società di capitali

-          L'elemento determinante è la persona(affidabilità, conoscenza, stima ecc.)

-          La costituzione può avvenire per allo pubblico o per scrittura privata autenticata

-          I soci sono responsabili in modo illimitato, solidale e sussidiario (ciò significa che, ciascun socio risponde, per le obbligazioni sociali, con tutti i suoi beni presenti e futuri, deve essere solidale con gli altri nel pagamento con diritto di rivalsa successivo, e inoltre, ha il cosiddetto beneficio dell'escussione)

-          Non vi sono limiti di capitale, costituendo garanzia dei terzi anche il patrimonio personale dei singoli soci

-          L’autonomia patrimoniale è imperfetta (l'organismo societario non ha piena autonomia, né patrimoniale né giuridica)

-->-          -->L’iscrizione al registro delle imprese ha efficacia dichiarativa

-->-          -->L’amministrazione spetta ai soli soci disgiuntamente, congiuntamente o delegandola ad uno solo di essi

-->-          -->I conferimenti possono essere rappresentati da capitale (denaro o beni), ma anche da servizi (soci prestatori d'opera che non  conferiscono capitale)

-->-          -->Non vi sono organi sociali previsti dalla legge, proprio in virtù del fatto che non esiste personalità giuridica e i soci hanno un rapporto diretto con la società

-->-          -->L’elemento determinante è il capitale (que­sto spiega la facilità con cui si possono tra­sferire le azioni o quote di queste società)

-->-          -->La costituzione deve avvenire solo per atto pubblico

-->-          -->I soci hanno una responsabilità limitata alla quota conferita, perché le società in questione hanno personalità giuridica, quindi godono di autonomia patrimonia­le perfetta

-->-          -->Vi sono limiti di capitale previsti per leg­ge proprio in ragione della personalità giu­ridica dell'organismo societario

-->-          -->Devono essere versati in un c/c vincolato almeno i tre/decimi dei conferimenti in de­naro

-->-          -->Non è più prevista l'omologazione dell'Atto Costitutivo da parte del Tribunale (il controllo sull'atto viene effettuato dallo stes­so notaio rogante che effettuerà, poi, l'iscrizione al Registro delle Imprese della società)

-->-          -->L'iscrizione nel registro delle imprese ha efficacia costitutiva (la personalità giuri­dica si acquista nel momento dell'iscrizio­ne e non prima)

-->-          -->L'amministrazione può essere affidata a dei soci, ma anche a soggetti esterni

-->-          -->Non si possono avere soci prestatori d'ope­ra che non abbiano fatto almeno un minimo di conferimento in capitale

-->-          -->Devono essere nominati obbligatoriamen­te degli organi sociali (Assemblea, Amministratore Unico o Consiglio di Amministrazione, Collegio Sindacale)

 

 

 

 

 

20.  LE SOCIETÀ COOPERATIVE

Le società cooperative sono predisposte per l'esercizio collettivo a scopo mutualistico di imprese commerciali e non.

Il fenomeno cooperativo si manifesta in vari campi:

-          consumo: (cantine sociali, latterie sociali etc.) la cooperativa procura ai soci generi alimentari a prezzo di costo lievemente aumentato per le spese generali;

-          produzione: (cooperative agricole in generale etc.) i soci conferiscono i loro prodotti alla cooperativa e, tramite la stessa, li vendono direttamente ai consumatori, eliminando ogni intermediario;

-          lavoro: la cooperativa impiega direttamente il lavoro dei soci; costruzioni: (cooperative edilizie) la cooperativa ha come scopo la costru­zione di edifici, da assegnarsi in proprietà ai soci, con divieto di alienazio­ne ai non soci ed esclusione di ogni profitto per la società;

-          credito: (banche popolari) la cooperativa esercita il credito a vantaggio dei soci, ai quali distribuisce anche, sia pure in misura limitata, gli utili conse­guiti.

Queste sono le caratteristiche delle Cooperative:

-          hanno capitale variabile (non hanno, al contrario delle s.p.a. e delle s.rl., un capitale minimo e la variazione del numero dei soci, non comporta modifiche dell'atto costitutivo);

-          possono essere a responsabilità illimitata o a responsabilità limitata; devono essere sempre costituite per atto pubblico;

-          occorrono un minimo di 9 soci per quelle di lavoro o produzione e almeno 50 soci per quelle di consumo (da qualche anno è stata introdotta anche la «Piccola Cooperativa» con un minimo di tre soci);

-          le azioni o le quote non possono essere di un valore inferiore a 25 euro e in ogni caso non possono superare i 50.000 euro;

-          il valore nominale di ciascun azione, nelle cooperative a.rl., non può supe­rare i 500 euro;

-          nelle cooperative a responsabilità limitata i soci rispondono per le obbliga­zioni sociali limitatamente alla loro quota, però l'atto costitutivo può stabi­lire che la responsabilità si estenda ad una somma multipla della quota;

-          nelle cooperative a responsabilità illimitata i soci rispondono in modo illi­mitato e solidale, come nelle società di persone.

 

RIFORMA DELLE SOCIETÀ

Con il D.Lgs.17 gennaio 2003, n. 6, pubblicato nella G.U. n. 17 del 22‑1­-2003, è stata approvata la «Riforma organica della disciplina delle società di capitali e società cooperative», in attuazione della legge 3 ottobre 2001, n. 366.

La Riforma è entrata in vigore a partire dal 1 ° gennaio 2004.

 

 

 

 

DIRITTO COMMERCIALE: OPERAZIONI BANCARIE E TITOLI DI CREDITO

 

 

 

1 - Le operazioni bancarie

 

Nella sua attività l'agente o il rappresentante è giornalmente nelle condizioni di utilizzare i titoli di credito (assegni nelle loro varie forme, cambiali, tratte, e così via) e congiuntamente gli istitituti bancari per le operazioni che una qualsiasi attività commerciale deve richiedere alle banche stesse.

In questo paragrafo analizzeremo le operazioni bancarie fornendo gli elementi necessari ad una conoscenza sufficientemente approfondita delle «regole» stabilite dalla legge e delle norme fissate dall'ABI (l'Associazione Bancaria Italiana) nei rapporti con la clientela per ognuno dei molteplici aspetti dei vari servizi effettuati dagli istituti bancari nei confronti della clientela stessa.

 

Il conto corrente bancario

 

Si tratta di un contratto fra la banca e il cliente caratterizzato da due elementi essenziali:

 

  • la banca riceve dal correntista un mandato assumendosi l'obbligo di eseguire gli incarichi affidati nel limite contrattuale o d'uso;
  • il cliente deve versare alla banca una somma di denaro che la banca custodirà assieme ai versamenti successivi o al denaro riscosso per conto del cliente.

 

Ogni operazione di pagamento o incasso eseguita dalla banca è seguita, di solito, da comunicazione scritta.

I fondi depositati originano a favore del correntista una remunerazione (interesse). Il c/c, in pratica, consente al cliente:

 

  • la custodia del suo denaro;
  • un interesse su tale denaro;
  • l'uso di uno strumento di pagamento;
  • l'utilizzo dei servizi della banca.

 

 


2 - I servizi bancari

 

Oltre al servizio classico (pagamenti e accredito dei versamenti) le banche offrono una variegata gamma di servizi.

 

Il bonifico bancario

 

Il correntista può effettuare un pagamento ordinando alla sua banca di accreditare l'importo sul conto corrente del suo creditore.

Se debitore e creditore sono entrambi correntisti presso la stessa banca l'operazione è definita giroconto.

Se ciò non è, o il creditore non è cliente di alcuna banca, l'operazione ha nome ordine di bonifico.

 

Il pagamento delle utenze

 

Il correntista può affidare alla sua banca l'incarico di effettuare per suo conto il pagamento delle sue utenze, delle bollette (telefono, energia elettrica, ecc.) delle imposte, degli affitti (compreso il leasing che è locazione).

 

Lo «sconto bancario»

 

È definita con questo termine l'operazione con la quale il correntista stipula un contratto con la banca che «...previa deduzione dell'interesse, anticipa al cliente un credito verso terzi non ancora scaduto» (art. 1850 c.c.).

Generalmente ciò viene effettuato su titoli di credito (pagherò, tratte) ma anche su altri titoli (fatture, ricevute bancarie, titoli azionari).

Lo sconto bancario ha luogo pro solvendo, intendendosi con ciò che ove il credito non venisse onorato dal terzo, il correntista sarà tenuto a rifondere alla banca l'intero importo del credito stesso più le spese relative.

 

II «salvo buon fine» bancario

 

Con il «salvo buon fine» la banca non accredita immediatamente il valore (decurtato dell'interesse e delle spese) ma alla data della scadenza del titolo senza attendere l'avviso di avvenuto incasso, al valore nominativo del titolo stesso, addebitando solo commissione e spese incasso.

Può essere concordata, anche, la libera disponibilità: in questo caso il correntista può utilizzare tale disponibilità, ma pagando dalla data di utilizzo gli interessi relativi.

 

Lo scoperto di conto o «fido»

 

È la forma tecnica di affidamento con la quale la banca si impegna ad onorare ordini di pagamento per importo superiore a quello deposi

tato dal cliente sul suo conto, entro un tetto concordato.

Esso viene utilizzato   congiuntamente o disgiuntamente dallo sconto bancario   dall'operatore che deve effettuare operazioni presumendo che, in determinati momenti, non disporrà della liquidità necessaria.

Lo scoperto di conto (o «fido bancario») viene concesso a clienti della cui solvibilità di base la banca si è accertata: in genere contro specifiche garanzie ma, anche, solo sulla fiducia.

 

3 - I titoli di credito

 

Con la definizione titolo di credito si intende un documento con il quale un credito viene trasferito fra due (o più) parti.

Comunemente sono considerati titoli di credito, nelle transazioni commerciali:

 

  • l'assegno bancario (o di c/c);
  • l'assegno circolare;
  • la cambiale (tratta e pagherò).

 

Ai titoli di credito sono connessi:

 

  • il protesto;
  • le azioni di regresso;
  • le prescrizioni dei diritti cambiari.

4 - L'assegno bancario

 

È il documento con il quale il titolare del clc (traente) ordina alla banca (trattario) di pagare a vista una determinata somma a favore dello stesso traente o di un terzo (beneficiario).

La banca pagherà la somma se il traente ha la relativa disponibilità sul conto (o se è stato affidato, nei limiti del fido) e se, nell'emettere l'assegno, ha rispettato i requisiti di forma richiesti ed i suoi elementi essenziali.

Gli elementi essenziali dell'assegno bancario sono:

 

  • la denominazione (assegno bancario);
  • l'ordine incondizionato di pagare «a vista» e non «a scadenza» (cioè, come si definisce comunemente, post datato);
  • il nome di chi deve pagare (cioè la banca e lo sportello della stessa);
  • una somma determinata (scritta quindi, in lettere e in cifre). Oveesistesse contrasto fra i due valori la legge stabilisce la preminenza del valore scritto in lettere. Se invece le scritte fossero più di due il valore valido per il pagamento sarà quello minore;
  • la firma del traente, con nome e cognome: non il solo cognome (la pratica e la prassi, comunque, fanno valido lo specimen depositato);
  • il luogo e la data di emissione: il primo è per stabilire se l'assegno è « su piazza» o «fuori piazza» (per il calcolo della valuta) e il secondo per determinare la decorrenza dei termini entro i quali potrà essere elevato il protesto ove l'assegno sia emesso senza la presenza dei fondi sul conto.

 

L'assegno post datato

 

La data apposta sull'assegno deve essere quella del giorno in cui lo stesso viene emesso. La post datazione non è consentita dalla legge: nella pratica, comunque, può essere ammessa una apposizione di data posteriore giustificata però dal tempo che viene reputato necessario a che il titolo pervenga al destinatario nel caso di spedizione e non di consegna brevi manu.

 

L'assegno senza il nome del beneficiario

 

Se lo spazio destinato al beneficiario è lasciato in bianco, la legge stabilisce che l'assegno è pagabile al portatore, come se venisse apposta la dicitura «al portatore».

 

L'assegno sbarrato

 

Se sull'assegno vengono apposte due righe trasversali ciò garantisce a chi lo appone che esso non potrà essere pagato che a una banca

o a persone ben note al mondo bancario. Lo sbarramento si dice generale se sono apposte solo le due «righe» e speciale se fra di esse Compare il nome di una banca specifica. Nel primo caso (generale) la banca pagherà solo ad un suo cliente o ad un'altra banca, nel secondo (speciale) solo ad un suo cliente o alla banca specificamente indicata.

 

L'assegno non trasferibile

 

Con questa dicitura apposta sull'assegno (nel «recto» o nel « verso») è impedito il suo trasferimento e quindi l'incasso da parte di persona non beneficiaria. Non è quindi ammessa la girata dell'assegno (vedi successivo paragrafo).

 

La girata dell'assegno

 

Essendo strumento di pagamento, l'assegno può circolare attraverso più beneficiari prima di essere presentato alla banca per l'incasso. Ciò è realizzato con la girata che ne trasferisce la proprietà e tutti i diritti inerenti.

 

  • La girata in bianco: è realizzata apponendo sul retro dell'assegno la sola firma del precedente beneficiario.
  • La girata all'ordine: è realizzata apponendo sul retro dell'assegno la dicitura «e per me pagate a...» (con il nome della persona cui si intende girarlo) e la firma del precedente beneficiario.

 

 

Incidenti di percorso dell'assegno

 

Durante la sua circolazione l'assegno può incorrere in «incidenti di percorso» prima della sua presentazione per l'incasso.

 

Furto, smarrimento, distruzione dell'assegno.


Per queste eventualità il traente o il beneficiario devono denunciare il fatto alla banca trattaria e, in caso di furto, all'Autorità di pubblica sicurezza. Anche se la denuncia è stata fatta, la banca, ove l'assegno venisse presentato, dovrà pagarlo (anche se, in base alle consuetudini, vengono di regola usate particolari cautele dalla banca interessata).

Per «bloccare» il pagamento è prevista dalla legge la procedura di ammortamento, che viene richiesta con ricorso al Giudice (dove è domiciliato il ricorrente) o al Presidente del Tribunale (del luogo dove l'assegno è pagabile).

 

Pronunciato dal magistrato l'ammortamento del titolo e dopo la pubblicazione del relativo decreto sulla Gazzetta Ufficiale sarà autorizzato il pagamento, e la banca non dovrà più pagare l'assegno a chi lo presentasse.

 

Il sequestro dell'assegno.

Può essere disposto solo dall'Autorità giudiziaria quando l'assegno è collegato ad una controversia: il sequestro è così civile e può essere giudiziario o conservativo. Se il sequestro è penale chi si vede sequestrato l'assegno può ottenerne copia autentica da presentare alla banca: se quest'ultima non lo paga il protesto sarà elevato se la copia è presentata nei termini.

 

I termini di validità dell'assegno bancario

 

La presentazione dell'assegno alla banca deve aver luogo entro termini stabiliti dalla legge:

 

 8 giorni se «su piazza»;   15 giorni se «fuori piazza»;   20 giorni se emesso in altro Stato dello stesso continente.

 

I termini sono determinanti. Infatti:

 

  • Assegno presentato nei termini e non pagato: l'assegno è soggetto a protesto   reato penale per il firmatario   e i giratari sono solidalmente responsabili del pagamento.

 

  • Assegno presentato fuori termini e non pagato: l'assegno non è soggetto a protesto e i giranti esonerati dalla responsabilità cambiaria, limitata al firmatario.

 

  • Assegno presentato dopo sei mesi dalla scadenza dei termini: il titolo ha perso ogni efficacia e neppure il firmatario è responsabile cambiariamente. È possibile l'azione di arricchimento entro un anno dalla scadenza dei termini.

 

Il protesto dell'assegno

 

Il mancato pagamento di un assegno bancario ha come conseguenza il suo «protesto». Per elevare tale protesto debbono trascorrere sessanta giorni dalla data del mancato pagamento per consentire al debitore di pagare: se ciò ha luogo il «protesto» non viene più elevato dal pubblico ufficiale a ciò delegato: notaio, ufficiale giudiziario (o suo aiutante), segretario comunale.

 

I responsabili nel protesto dell'assegno

 

Oltre al firmatario traente, il legittimo possessore dell'assegno protestato (o non pagato) può chiamare in causa i giranti: uno qualsiasi o tutti assieme.

Non è obbligatorio richiedere il pagamento all'ultimo girante: saranno però responsabili successivi solo i giranti precedenti a quello cui s'è richiesto, invano, il pagamento, oltre che, ovviamente, al firmatariotraente.

 

 

 

 

Le conseguenze del protesto

 

Reato penale nel passato, il protesto dell'assegno è ora un reato civile sanzionabile con ammenda. Non è più, quindi, reato ostativo per gli atti pubblici come l'iscrizione al Ruolo Professionale degli Agenti e Rappresentanti di Commercio.

 

Il Bollettino dei protesti

 

Su questa pubblicazione, edita da enti pubblici come le Camere di Commercio, vengono periodicamente elencati i protesti elevati, con le generalità del traente respondabile, con gli importi degli assegni e le date di scadenza.

 

La riabilitazione

 

Con la normativa precedente, chi aveva subito una condanna per emissione di assegno « a vuoto» poteva ottenere la riabilitazione trascorsi cinque anni dalla condanna. L'istituto rimane in vigore per le condanne comminate prima della nuova normativa che, ovviamente, non può avere valore retroattivo.

 

5 - L'assegno circolare

 

È emesso   a differenza di quello bancario   non dal correntista ma da una banca, che ne garantisce la copertura (e quindi il pagamento). Infatti l'assegno circolare è consegnato dalla banca al richiedente dopo averne ottenuto il controvalore:

  • con autorizzazione all'addebito sul proprio c/c per i correntisti della banca;
  • con il versamento in denaro liquido per chi non è correntista del­la banca stessa.

 

L'emissione dell'assegno è gratuita.

 

I termini dell'assegno circolare

 

Questo titolo di credito deve essere presentato per il pagamento en­tro 30 giorni dalla data di emissione; trascorso tale termine il portatore perde il diritto di regresso nei confronti degli eventuali giranti.

Nei confronti della banca emittente, invece, gli assegni si prescri­vono dopo tre anni dalla data di emissione. Sarà possibile ottenere il controvalore, ma solo dopo aver attuato la procedura d'ammortamento.

La tabella sinottica indica le differenze fra i due tipi di assegno e le rispettive caratteristiche.

 

Assegno bancario

Assegno circolare

1) Un correntista (cliente della banca) dà

1) La banca promette di pagare alla per-

I'ordine ad una banca presso la quale

sona indicata sul titolo la somma che

esistono fondi disponibili di versare al

ha riscosso al momento in cui ha

beneficiario indicato nel titolo la somma

emesso l'assegno

ivi indicata

 

2) può essere emesso a vuoto (con con-

2) ha sempre la relativa copertura di fondi

seguenze anche gravi)

 

3) intervengono tre soggetti: correntista,

3) intervengono due soggetti: banca e be-

banca, beneficiario

neficiario

4) può essere al portatore, cioè può non

4) deve contenere l'indicazione del bene-

essere specificato il nome del beneficiario

ficiario

5) è soggetto a bollo fisso

5) l'emissione dell'assegno circolare è

 

completamente gratuita

 

L'assegno «a copertura garantita»

 

Questo particolare tipo di titolo di credito, agli effetti pratici, è mol­to simile a quello circolare poiché garantisce al beneficiario l'esistenza dei fondi necessari pur non esprimendo una promessa di pagamento in­condizionata da parte della banca, che certifica comunque (e stampa sul­l'assegno) la cifra della provvista, il deposito cioè esistente presso la banca stessa.

 

I valori dei titoli di credito vanno espressi in «euro»

 

È da tenere presente che tutti i titoli di credito, a far data dal 1° gennaio 2002, devono esprimere il loro valore in «euro» e non più in «lire» essendo da tale data entrata in funzione a ogni effetto la moneta unica della UE.

 

Ciò vale sia per gli assegni che per le cambiali.

 

6 - La cambiale

 

La cambiale è un titolo di credito compilato su stampati bollati emessi e forniti dallo Stato.

Gli elementi essenziali del documento cambiario sono:

 

  • la denominazione cambiaria (a seconda del titolo) cambiale o cambiale tratta;

 

  • l'ordine o la promessa di pagamento: rispettivamente pagherò o pagherete per la cambiale pagherò e la cambiale tratta;

 

  • il valore in cifra e in lettere; ove le due cifre differissero fra loro l'art. 6 della legge cambiaria stabilisce che ha valore la cifra minore sia per il «pagherò» che per la «tratta»;

 

  • il nominativo di chi deve pagare. L'identificazione deve essere effettuata con denominazione specifica: persona, ditta, società. Possono essere indicati più debitori: la richiesta di pagamento dovrà essere effettuata a tutte le persone (o ditte) indicate;

 

  • la scadenza cioè il giorno in cui deve essere effettuato il pagamento che può essere (art. 38 legge cambiaria):
    giorno fisso;
    a un certo «tempo data» (es. «quattro mesi data») quella apposta relativamente all'emissione);
    a vista, cioè a richiesta del pagamento;
  •  il luogo di pagamento. Deve essere indicato il luogo ove richiedere il pagamento, che può anche essere diverso dal domicilio del debitore. In questo caso il titolo sarà «domiciliato presso...» (anche una banca) ed in tal luogo dovrà essere richiesto il pagamento del titolo stesso;

 

  • il «prenditore». È chi ha il diritto di ottenere il pagamento: quindi il titolo dovrà dire «a chi» (pagherò o pagherete);

 

  • luogo e data di emissione. Luogo (città o località) e data certa (non «30 febbraio», quindi) devono comparire sul titolo nel momento in cui viene emesso;

 

  • la sottoscrizione. Consiste nella firma di chi emette il titolo che deve essere autografa (non ammessi timbri) e non consistere in sigle o iniziali (art. 8 legge cambiaria). Per le persone giuridiche deve firmare il legale rappresentante.

 

La cambiale «in bianco»

 

Una cambiale non ha valore se non contiene tre dati essenziali (art. 2 legge cambiaria):

 

  • luogo e data di emissione;
  • luogo del pagamento;
  • scadenza.

 

Non contenendoli diviene (art. 1988 c.c.) una semplice promessa di pagamento. Può essere attribuito al possessore il diritto di apporre gli elementi mancanti ove il contraente abbia previsto che ciò possa accadere.

In questo caso però è necessario che sulla cambiale « in bianco» compaiano:

 

·         firma del debitore (o del creditore);

·         denominazione cambiaria (cambiale o tratta).

 

Il titolo « in bianco» ha valore ad ogni effetto, e ogni requisito è valido ai sensi di legge anche prima del completamento del titolo stesso.

 

 

 

 

La girata

 

L'apposizione, sul retro del titolo, della firma del possessore è una promessa cambiaria oltre che una forma di trasferimento del titolo stesso, che rende il girante responsabile del pagamento (art. 19 legge cambiaria) quando manca l'adempimento del precedente firmatario.

Come per l'assegno il possessore può scegliere il girante a sua discrezione: unica conseguenza è che con tale scelta vengono liberati da ogni obbligo i giranti successivi (art. 56 legge cambiaria).

 

L'avallo

 

È una «garanzia personale di un terzo a sostegno del debitore: l'avallo pone all'avallante l'onere della garanzia in solido ove il debito non risponda della sua obbligazione (art. 36 legge cambiaria).

L'avallo è apposto in forma autografa dall'avallante, congiunta mente alla firma autografa del debitore/sottoscrittore della cambiale pagherò o della tratta accettata.

 

Il pagamento della cambiale

 

Premesso che il possessore del titolo deve richiederne il pagamento, esso deve essere effettuato:

 

  • all'indirizzo del debitore;
  • se il debitore è defunto agli eredi;
  • se il debitore fosse divenuto «incapace» al suo legale rappre sentante;
  • alla scadenza o nei due giorni feriali immediatamente successi vi (sono festivi   per la legge n. 92/1965   oltre a quelli legali anche quelli in cui le banche non aprono gli sportelli).

 

Chi effettua il pagamento ha diritto alla consegna del titolo, e in possesso materiale dello stesso è dimostrazione, comunque, del pagamento avvenuto.

Non può essere effettuata, perché inutile, la richiesta di pagamento al debitore fallito. Il titolo potrà costituire comunque elemento per rivendicare il credito nella procedura concorsuale.

 

La cambiale «pagherò»

 

È un impegno/promessa di pagamento del debitore nei confronti del creditore. Su di essa compare la firma del debitore che riconosce incondizionatamente il suo debito verso il creditore, assumendosi così le obbligazioni imposte dalla legge cambiaria.

La tavola sinottica dettaglia le caratteristiche della «cambiale pagherò».

 

La cambiale «tratta»

 

È emessa dal creditore che la firma: questo titolo di credito non può dimostrare l'effettiva esistenza di un debito del trassato (chi cioè riceve questo ordine di pagamento) anche se, nel caso di un pagamento con cordato di questo tipo, il creditore appone sulla «tratta»   così è comunemente definito questo titolo   i dati relativi all'emissione (in genere la fattura emessa a fronte della fornitura di un bene o servizio con numero e data).

 

La «tratta accettata»

 

È un titolo di credito anch'esso emesso dal creditore come la tratta semplice: la differenza consiste nel fatto che il debitore firma la tratta «per accettazione» assumendosi così l'onere del debito riconoscendolo incondizionatamente.

Agli effetti pratici la «tratta accettata» diviene una cambiale pagherò.

 

La cambiale «ipotecaria»

 

È un titolo garantito, gravando su di esso (art. 2381 c.c.) una ipoteca su beni (immobili o mobili): sulla cambiale possono essere riportati gli estremi della stessa ipoteca.

 

Il protesto della cambiale

 

La cambiale non pagata è soggetta (come l'assegno) ad essere «protestata». Diverse le conseguenze, però, a seconda che sia cambiale pagherò (o tratta accettata) oppure cambiale tratta.

Nel primo caso il protesto sarà pubblicato sul Bollettino anche se il pagamento è avvenuto successivamente al protesto stesso, che in questo caso   a differenza dell'assegno   non è reato penale.

Nel secondo caso il protesto non può essere applicato non essendo espresso, sul titolo, il riconoscimento del debito da parte del debitore.

Possono essere intentate azioni per rivendicare il pagamento del titolo protestato:

 

  • azione diretta nei confronti dell'emittente/obbligato o di eventuali avallanti o accettanti;
  • azione indiretta « di regresso» nei confronti degli altri obbligati (giranti) secondo i disposti dell'art. 49 della legge cambiaria a condizione che il protesto sia stato elevato da un Pubblico Ufficiale nei due giorni successivi alla data nella quale la cambiale doveva essere pagata.

 

II diritto, comunque, deve essere esercitato onde ottenere l'intera somma dovuta dal debitore.

 

Il «bollo» della cambiale

 

Come si può rilevare dai facsimile pubblicati a pag. 106, lo stampato da utilizzare per questo titolo di credito è gravato da un «bollo» il cui importo non può essere inferiore al dodici per  mille del valore indicato sul titolo.

Per esemplificare, la cambiale e la cambiale tratta riportate in fac simile a pag. 106 hanno un «bollo» di lire 6.000 trattandosi di titolo emesso prima dell'adozione dell'Euro come moneta.

Su di essi, però, è stato sovrastampato il valore in Euro del titolo stesso, per cui il valore effettivo è di € 3,10.

Il titolo (cambiale o cambiale tratta) non potrà in questo caso essere utilizzato per un valore superiore a € 258,23 (pari al preesistente valore di lire 500.000).

Così, se il valore indicato sul titolo fosse di € 1000,00 il «bollo dovrebbe essere di € 12 e così via.

 

La prescrizione dei diritti cambiari

 

I diritti cambiari, spettanti al creditore per esercitare il proprio diritto di rivalsa si prescrivono (perdono cioè validità legale) entro i seguenti termini:

 

  • nei confronti dei debitori principali (emittente o firmatario, accettante, avallante): tre anni;
  • nei confronti degli altri obbligati: diciotto mesi.

 

Le decorrenze dei termini sono altrettanto diverse:

 

  • un anno per chi «porta» la cambiale (ne è cioè « in possesso»);
  • sei mesi per l'obbligato che ha pagato ad altro obbligato in via di regresso.

 

Anche per i termini esistono varie situazioni; la loro decorrenza può essere:

 

  • dalla scadenza per l'azione diretta;
  • dalla data del protesto per l'azione di regresso;
  • dal momento del pagamento per le azioni nei confronti degli obbligati o dei giratari anteriori (art. 94 della legge cambiaria).

 

 

 

 

Il fallimento e le altre procedure concorsuali

 

1. L'ESECUZIONE FORZATA

Il creditore, per conseguire ciò che gli è dovuto, può far espropriare i beni del creditore o anche i beni di un terzo che siano vincolati a garanzia del credito. oggetto di tale espropriazione è tutto il patrimonio del debitore: beni immobili, mobili, crediti e diritti di ogni genere, esclusi i beni elencati negli artt. 514 e 545 c.p.c.

Il creditore non può da solo soddisfare il suo diritto, ma dovrà rivolgersi ad un'autorità supe­riore: organo dell'esecuzione è lo Stato.

L’espropriazione si realizza attraverso tre fasi:

‑ il pignoramento; ‑ la vendita forzata (o l'assegnazione forzata);

‑ l'attribuzione del ricavato al creditore o la distribuzione di esso fra i più creditori concorrenti.

Tali procedure differiscono in relazione all'oggetto dell'esecuzione (per esse si rinvia al nostro volume di diritto processuale civile).

 

2. L'ESECUZIONE COLLETTIVA

Un aspetto più grave assume la crisi dell'imprenditore commerciale, in quanto essa coin­volge una categoria abbastanza vasta di crediti e, di riflesso, si ripercuote sull'economia generale, colpendo tutte quelle altre aziende titolari di crediti nei confronti dell'azienda insolvente. La legge, pertanto, tenuto conto che tutti i creditori che hanno fatto affidamento sulla proprietà dell'impresa debbono subire in egual misura le conseguenze della crisi economica della stessa, non consente azioni esecutive individuali, ma interviene autoritativamente mediante una particolare pro­cedura giudiziale, sottoponendo all'esecuzione l'intero patrimonio dell'impresa. Si ha, cosi, l'applica­zione del principio della par condicio creditorum, e cioè un egual regolamento di tutti i rapporti che all'imprenditore fanno capo. Tale particolare forma di esecuzione collettiva, che ha lo scopo di liquidare l'attivo dell'imprenditore per soddisfare i suoi creditori, è detta procedura esecutiva concorsuale o fallimentare e si contrappone a quella singolare, che mira alla soddisfazione di singoli crediti. L'esecuzione forzata che presenta le citate caratteristiche è quella che si attua attraverso le c.d. procedure concorsuali, che sono:

  • il fallimento;
  • la liquidazione coatta amministrativa;
  • il concordato preventivo e il concordato successivo fallimentare;
  • l'amministrazione controllata;
  • l'amministrazione straordinaria.

 

3. CARATTERI E LIMITI DELLA PROCEDURA FALLIMENTARE

Con l'espressione fallimento si indica lo stato patrimoniale di un soggetto che non ha più la capacità obiettiva di far fronte puntualmente alle proprie obbligazioni. La procedura fallimentare riguarda tutti i beni del debitore e tutti i credito­ri e si basa sul principio paritario, per cui tutti i creditori debbono essere ugual­mente soddisfatti, salve le cause legittime di prelazione.

Caratteri della procedura fallimentare dunque sono:

-          l'universalità: essa colpisce tutti i beni del debitore;

-         la concorsualità: è predisposta nell'interesse di tutti quanti i creditori;

-          l'ufficialità: essa, proprio perché tutela un interesse collettivo, può essere iniziata anche di ufficio o su iniziativa del P .M., senza cioè impulso di parte.

Sono esclusi dalla procedura fallimentare:

-          il piccolo imprenditore;

-          l'imprenditore agricolo;

-          gli enti pubblici per i quali, però, è prevista una procedura particolare ed in parte analoga al fallimento: la liquidazione coatta amministrativa;

-          le grandi aziende in crisi: le aziende, cioè, che si trovino nelle condizioni di cui al D.Lgs.8‑7‑1999, n. 270.

 

4. PRESUPPOSTI DEL FALLIMENTO

I presupposti del fallimento sono di due specie:

‑ il presupposto soggettivo dato dalla qualità di imprenditore commerciale del debitore;

‑ il presupposto oggettivo derivante dal suo stato di insolvenza.

Accanto a questi due presupposti, che potremmo definire positivi, devono però anche concorrere altre due condizioni negative, e cioè:

- che l'imprenditore commerciale non sia già soggetto ad una procedura di liquidazione coatta amministrativa;

‑ che lo stesso non abbia fatto domanda di concordato preventivo o di ammi­nistrazione controllata.

Esaminiamo di seguito i due «presupposti».

A) Il presupposto soggettivo: la qualità di imprenditore commerciale

Può essere dichiarato fallito l'imprenditore commerciale, sia esso perso­na fisica sia esso una società. L’Art. 1 della legge fallimentare, escludendo dal fallimento il piccolo im­prenditore, dichiara che: «in nessun caso sono considerati piccoli imprenditori le società commerciali». Nel caso di imprenditore individuale, fallisce colui che nella ditta spende il nome (si è detto infatti, che l'attività economica deve essere esercitata in nome dell'imprenditore).

Da ciò si desume che, affinché ricorra il presupposto soggettivo richiesto dalla legge fallimentare, occorre che:

o        esista un'impresa, ai sensi dell'art. 2082 c.c.;

o        l'impresa stessa abbia carattere commerciale, non sia cioè artigiana né agri­cola;

o        non sia piccola, nel senso indicato dal 2° comma dell'art. 1 L.F e dall'art. 2083 c.c.;

o        sia imputabile (riferibile) giuridicamente al soggetto, nel senso che il soggetto che la gestisce abbia capacità di agire o, nel caso di incapace, vi sia stata l'autorizzazione all'esercizio dell'impresa prevista dagli artt. 320, 371, 397 e 425 c.c. e che l'impresa sia esercitata dal soggetto in nome proprio.

È soggetto a fallimento, inoltre, ogni soggetto collettivo dotato di autono­mia patrimoniale anche se privo di personalità giuridica, che eserciti un'im­presa commerciale.

Sono pertanto soggetti al fallimento:

-          le società commerciali (e non, dunque, le società semplici);

-          le associazioni o le fondazioni, che svolgono attività commerciale;

-          i consorzi con attività esterna.

 

B) Il presupposto oggettivo: lo stato di insolvenza

Per l’art. 5 L.F. è dichiarato fallito l'imprenditore che si trova in stato di insolvenza e cioè che «non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni».

Lo stato di insolvenza è diverso dal semplice inadempimento: infatti, un soggetto può non adempiere ad una particolare obbligazione, perché ritiene di non esservi tenuto o anche per trascuratezza, senza che ciò comporli auto­maticamente insolvenza. Al contrario, può aversi stato d'insolvenza anche se l'imprenditore paga i debiti svendendo ad un prezzo vile i suoi beni, in quanto una vendita rovinosa aggrava solo la sua situazione economica ed è foriera d'insolvenza. Concludendo, lo stato d'insolvenza si riferisce non ad una singola obbliga­zione, bensì a tutta la situazione patrimoniale del debitore e non consiste ne­cessariamente in una mancata prestazione.

Manifestazioni dell'insolvenza possono considerarsi:

-          i reiterati inadempimenti che oggettivamente possono essere considerati grave indizio delle difficoltà finanziarie dell'imprenditore;

-          la fuga o la latitanza dell'imprenditore (art. 7 L.F.);

-          la chiusura dei locali dell'impresa (art. 7 L.F.);

-          il trafugamento o la diminuzione fraudolenta dell’attivo (art. 7 L.F.);

-          il suicidio dell'imprenditore;

-          eventuali truffe etc.

Lo stato di insolvenza deve avere carattere permanente, non deve cioè con­sistere in una «temporanea difficoltà di adempiere», che legittima solo 1'ammi­nistrázione controllata non anche il fallimento.

 

5. LA DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO

L'iniziativa

La dichiarazione di fallimento può essere promossa (art. 6 L.F.):

-          su ricorso di uno o più creditori.

-          su richiesta dello stesso debitore.

-          su istanza del P .M.

-          d'ufficio.

 

B) Procedimento

Competente alla dichiarazione di fallimento è il Tribunale del luogo ove l'imprenditore ha la sede principale dell'impresa

II Tribunale può rifiutare di emettere la dichiarazione di fallimento con decreto motivato, quando ritenga l'insussistenza dei presupposti richiesti dalla legge.

Se il Tribunale, invece, riscontra l'esistenza dei presupposti previsti dalla legge, dichiara il fallimento con sentenza.

L’art. 15 L.F. dispone che il debitore, allo scopo di esercitare il suo diritto alla difesa, deve obbligatoriamente essere sentito, prima della pronuncia.

La sentenza dichiarativa del fallimento ha contenuto complesso; essa infat­ti, oltre a dichiarare il fallimento del debitore, contiene:

o        la nomina dei principali organi della procedura (giudice delegato e curatore);

o        l'ordine al fallito di depositare, nelle 24 ore, bilancio e scritture contabili;

o        la fissazione di un termine ai creditori, non superiore a 30 giorni, per pre­sentare domande di ammissione al passivo o di rivendica;

o        la fissazione della prima udienza di verifica dei crediti, che deve avvenire entro 20 giorni;

o        eventualmente, l'ordine di cattura del fallito e degli altri responsabili, lad­dove sussistano reati fallimentari.

La sentenza è provvisoriamente esecutiva. Nei 15 gg. dall'affissione della sentenza che dichiara il fallimento, possono

proporre opposizioni contro di essa il debitore e «qualunque interessato» (art. 18 L.F.), cioè chiunque abbia interesse, non solo patrimoniale ma anche mo­rale, ad ottenere la revoca del fallimento (es. il coniuge del fallito). L'opposizione è, in ogni caso, decisa con sentenza, che può essere appellata, da coloro che sono stati parti nel giudizio, entro 15 giorni della notifica della stessa. Contro la sentenza di appello è ammissibile il ricorso per Cassazione entro 60 giorni.

 

C) Effetti della dichiarazione di fallimento

La dichiarazione di fallimento, secondo la legge fallimentare, comporta quattro categorie di effetti che si riverberano:

‑ nei confronti del fallito;

‑ nei confronti dei creditori;

‑ sugli atti pregiudizievoli ai creditori;

‑ sui rapporti giuridici preesistenti.

In particolare, nei confronti del fallito, occorre distinguere fra effetti personali e patrimoniali.

 

1) Effetti personali nei confronti del fallito

In seguito alla dichiarazione di fallimento, il nominativo del fallito è iscritto in un pubblico registro (c.d. registro dei falliti) tenuto nella cancelleria del Tribunale. Fin quando non sia cancellata, per effetto della riabilitazione, tale iscrizione comporta determinate incapacità per il fallito che importano:

-          la perdita dell’elettorato attivo e passivo;

-          la perdita della capacità di esercitare alcune professioni (avvocato, titolare di farmacia);

-          la perdita della capacità di assumere determinati uffici (tutore o curatore; giudice popolare; esattore delle imposte; amministratore o liquidatore di società per azioni);

-          l'esclusione dal frequentare sale di Borsa per la negoziazione di titoli o merci.

La sentenza dichiarativa di fallimento incide, inoltre, su due diritti civili dell'imprenditore,

costituzionalmente garantiti: il diritto di libertà e segretezza della corrispondenza (art. 15 Cost.) ed il diritto di locomozione e soggiorno (art. 16 Cost.); per effetto del fallimento, infatti:

-          la corrispondenza diretta al fallito è consegnata al curatore, il quale ha diritto di trattenere quella riguardante interessi patrimoniali, ma deve conservare il segreto sul contenuto estra­neo a detti interessi;

-          il fallito non può allontanarsi dalla sua residenza senza permesso del giudice delegato; deve presentarsi personalmente a questo, al curatore o al comitato dei creditori ogni qualvolta è chiamato, sotto pena di accompagnamento a mezzo della forza pubblica disposto dal giudice delegato e sotto minaccia di sanzione penale.

 

2) Effetti personali in caso di fallimento di società

In caso di fallimento di imprenditore collettivo, gli effetti del fallimento (sopra delineati per l'ipotesi di imprenditore individuale), assumono aspetti particolari; così, in caso di fallimento di società:

-          restano in carica gli organi sociali, che esercitano quei poteri che la legge concede al debitore fallito;

-          ugualmente si verifica la limitazione del segreto epistolare;

-          le limitazioni al diritto di locomozione e soggiorno si verificano nei confronti degli amministratori o dei liquidatori, nonché dei direttori generali;

-         non possono, naturalmente, verificarsi tutte le incapacità che colpiscono la persona fisica, tuttavia sono ipotizzabili alcune incapacità per la società, quali l'esclusione dagli appalti per le opere pubbliche.

 

3) Effetti patrimoniali nei confronti del fallito

In seguito alla dichiarazione di fallimento, il fallito viene spossessato dei suoi beni, i quali passano all'amministrazione del curatore, che li prende in consegna. A seguito di tale spossessamento il fallito è privato dell'amministrazione e della disposizione dei suoi beni che restano vincolati alfine di garantire un'equa soddisfazione di tutti i creditori mediante l'esecuzione forzata. Gli atti compiuti dal fallito, pertanto, sono inefficaci nei confronti dei cre­ditori. Lo spossessamento, tuttavia, non si estende a tutti i beni del fallito, ma ne restano esclusi:

-          i beni e i diritti strettamente personali;

-          gli assegni aventi carattere alimentare;

-          i frutti derivanti dall'usufrutto legale sui beni dei figli minori e dai beni costituiti in dote o in patrimonio familiare;

-          le cose non soggette a pignoramento per disposizione di legge;

-          la casa di abitazione, nei limiti necessari al fallito ed alla sua famiglia.

 

4) Atti compiuti tra coniugi

Il coniuge di un imprenditore fallito difficilmente ignora lo stato di diffi­coltà finanziaria di questi. Partendo da tale presupposto il legislatore detta una disciplina alquanto rigida per:

-          gli atti di disposizione conclusi fra il fallito e il coniuge;

-          gli acquisti effettuati dal coniuge del fallito con terzi estranei.

Sotto il primo profilo gli atti sottoposti alla revocatoria fallimentare ai sen­si dell'art. 67 L.F. (atti a titolo oneroso, pagamenti con mezzi anormali, con­cessione di pegni, anticresi, ipoteche volontarie) effettuati dal fallito in favore del coniuge si presumono sempre eseguiti con la consapevolezza del danno dei creditori e ciò anche se fatti precedentemente al biennio che costituisce il limi­te temporale per la revocatoria di atti effettuati nei confronti di terzi estranei. Sotto il secondo profilo, l'art. 70 L.F. stabilisce che i beni acquistati dal coniuge del fallito a titolo oneroso, nel quinquennio anteriore alla dichiarazione di fallimento, si presume che siano stati acquistati con denaro dello stesso, sottraendo così poste attive a danno dei creditori. Tali acquisti, dunque, devono essere revocati, salvo che il coniuge non provi che i beni furono acquistati con denaro proprio. L’istituto, che costituisce un relitto dell'influenza del diritto romano sul no­stro diritto vigente (di qui il nome di presunzione muciana) ha mostrato con l'evoluzione dei tempi i segni della sua inattualità e su ciò hanno avuto modo di ritornare più volte Cassazione (che ne aveva in un primo tempo limitato l'ope­ratività al solo regime di separazione dei beni) e Corte Costituzionale. Se infatti esso poteva essere giustificato al tempo in cui la donna spesso non lavorava e quindi viveva con il reddito del coniuge, oggi la posizione assunta dalla donna nel mondo del lavoro mostra che il mantenimento di un tale istituto rischia di causare grossi squilibri. Pertanto, con un ultimo inter­vento la Cassazione ha ritenuto tacitamente abrogato l'isti­tuto.

 

5) Effetti nei confronti dei creditori

Detta l'art. 52 L.F. che «Il fallimento apre il concorso dei creditori sul patri­monio del fallito».

Effetto fondamentale della sentenza dichiarativa di fallimento, nei con­fronti di tutti i creditori del fallito, è il conferimento ad essi del diritto di parte­cipare alla distribuzione del ricavato dalla liquidazione del patrimonio del falli­to, sulla base dell'importo del credito al momento della dichiarazione di falli­mento.

Il concorso dei creditori sui beni del fallito deve avvenire nel rispetto del principio della «par condicio creditorum» per cui, dichiarato il fallimento, re­stano precluse ai singoli creditori le azioni esecutive individuali sui beni del fallito. Il curatore del fallito, pertanto‑autorizzato dal giudice delegato‑deve chiedere al giudice dell'esecuzione che venga dichiarata improcedibile l'esecuzione forcata iniziata e che il ricavato dalla vendita di beni del fallito‑debitore sia attribuito alla massa fallimentare.

Il principio della par condicio, tuttavia, trova applicazione per i soli credi­tori chirografari, quei creditori cioè che non hanno alcun diritto di prelazione sui beni del debitore ed i cui crediti si fondano su un mero documento scritto (contratto, fattura etc.), ma non anche per i creditori privilegiati, cui fanno capo cause specifiche di prelazione, come ipoteca, pegno o privilegi.

Questi ultimi ‑ infatti ‑ fanno valere il loro diritto di prelazione sulla somma ricavata dalla vendita dei beni vincolati (per il capitale, gli interessi e le spese) e solo allorché non siano soddisfatti interamente con il valore realiz­zato da tali beni, diventano, per il residuo, creditori chirografari e concorrono con costoro (per la medesima percentuale) nelle ripartizioni del resto dell'at­tivo (art. 54 L.F.), in quanto sui beni non vincolati alla prelazione la loro situa­zione giuridica è identica alle altre.

Inoltre, la regola della cessazione del decorso degli interessi non trova ap­plicazione quando il credito è assistito da ipoteca, pegno o privilegio speciale (art. 55 L.F.).

 

6) Revocatoria fallimentare

Nell’attivo fallimentare rientrano non solo i beni appartenenti al debitore al momento della dichiarazione di fallimento, ma anche quei beni che hanno ces­sato di appartenere a lui anteriormente alla dichiarazione di fallimento e che la legge, ricorrendo determinati presupposti, ritiene opportuno comprendere fra i beni soggetti all'esecuzione collettiva.

Il mezzo tecnico‑giuridico attraverso cui attuare questo recupero di beni è l'azione «revocatoria fallimentare», la cui finalità è di ricostruire il patrimonio dell'imprenditore fallito, rendendo inefficaci tutti gli atti compiuti in prece­denza dallo stesso in pregiudizio ai creditori. A differenza della revocatoria ordinaria, la revocatoria fallimentare è preordinata alla salvaguardia della «par condicio creditorum » e si fonda sul presupposto che il patrimonio del debitore è destinato a soddisfare alla pari tutti i creditori.

Sul piano degli effetti la revocatoria fallimentare al pari della revocatoria ordinaria non produce la nullità degli atti di disposizione, ma semplicemente l'inefficacia nei confronti dei creditori. Il terzo che subisce la revocatoria dovrà perciò restituire al curatore quanto ricevuto dal fallito e sarà ammesso al passivo del fallimento se eventualmente vanti, per tale atto di disposizione, crediti nei confronti del fallito.

Quando gli atti dispositivi compiuti dal creditore non rientrano nelle cate­gorie di atti sottoposti alla revocatoria fallimentare, al curatore rimane, co­munque, sempre la possibilità di esperire la revocatoria ordinaria, ai sensi degli artt. 2901 ss. c.c.

 

7) Effetti del fallimento sui contratti in corso di esecuzione

II fallimento non determina mai la risoluzione dei contratti in corso di esecuzione tra le parti, ma solo lo scioglimento del rapporto in determinati casi.

In particolare è opportuno fare una distinzione tra:

  • contratti che si sciolgono per effetto del fallimento i quali presuppongono un normale esercizio di impresa oppure si basano su un rapporto di natura personale e fiduciaria con il fallito (es. il conto corrente, il mandato, la commissione, l'appalto, l'associazione in partecipazione in caso di fallimento dell'associante);
  • contratti che continuano dopo la dichiarazione di fallimento in quanto ritenuti vantaggiosi per la massa dei creditori con subingresso automatico del curatore (es. contratti di lavoro subor­dinato, locazione di immobili, assicurazione contro i danni);
  • contratti con facoltà di scelta cioè contratti non ancora completamente eseguiti e per i quali il curatore o l'altro contraente hanno la facoltà di scegliere tra l'esecuzione e lo scioglimento (es. vendita).

 

6. GLI ORGANI PREPOSTI AL FALLIMENTO

Con la dichiarazione di fallimento si apre la procedura concorsuale a cari­co dei beni del fallito, destinata a svolgersi attraverso una complessa serie di operazioni demandate a quattro organi, ciascuno dei quali è investito di spe­ciali competenze e di particolari funzioni:

-          il Tribunale fallimentare;

-          il giudice delegato;

-          il curatore;

-          il comitato dei creditori.

 

A) Il tribunale fallimentare

Tribunale fallimentare è lo stesso tribunale che ha dichiarato il fallimento, ed è, in concreto, l'organo investito dell'intera procedura concorsuale (art. 23 L.F.).

Spetta, infatti, al Tribunale:

-          nominare e (eventualmente) sostituire il giudice delegato ed il curatore;

-          risolvere le disparità di vedute tra gli organi anzidetti;

-          decidere sui reclami contro i decreti del giudice delegato;

-          chiedere chiarimenti, informazioni ed indicazioni al curatore, al fallito ed al comitato dei creditori.

Il Tribunale fallimentare, oltre che organo preposto alla procedura fallimentare, è anche giu­dice naturale di tutte le cause che derivano dal fallimento; detto Tribunale adotta i propri prov­vedimenti con decreto motivato non soggetto a reclamo, salvo che per i provvedimenti che incido­no su diritti soggettivi, per i quali è ammesso il ricorso in Cassazione.

 

B) Il giudice delegato

Il giudice delegato è l'organo cui è affidata la direzione concreta della proce­dura fallimentare; egli è, infatti, «lato sensu», l'organo che dirige le operazioni fallimentari e vigila sull'attività del curatore.

In particolare, il giudice delegato (art. 25 L.F.):

-          riferisce al Tribunale circa ogni questione su cui deve pronunciarsi il collegio stesso;

-          emette i provvedimenti necessari ed urgenti in materia di amministrazione dei beni del fallito;

-          nomina e convoca il Comitato dei creditori;

-          autorizza il curatore a nominare tutti quegli ausiliari (es. periti, stimatori, avvocati etc.) che siano necessari nel corso della procedura;

-          provvede sui reclami proposti contro gli atti del curatore;

-          autorizza il curatore a stare in giudizio e a compiere gli alti di straordinaria amministrazione;

-          sorveglia l'opera prestata nell'interesse del fallimento da qualsiasi incaricato;

-          procede all'esame preliminare dei crediti e dei diritti reali vantati da terzi.

Si ricordi, infine, che tutti i provvedimenti del giudice delegato sono dati con decreto e contro di essi è ammesso il ricorso al Tribunale, da parte di qualunque interessato (art. 26 L.F.). Il reclamo non sospende l'esecutività dei provvedimenti del giudice delegato.

 

C) Il curatore

II curatore è l'organo preposto alla procedura fallimentare che ha le man­sioni più complesse e varie; il suo compito principale, tuttavia, consiste nel­l'amministrazione dei beni del fallito.

Il curatore è nominato dal Tribunale tra gli iscritti agli albi dei commercia­listi, dei ragionieri e degli avvocati; può sempre essere revocato. Nell'esercizio delle sue funzioni il curatore è pubblico ufficiale (art. 30 L.F.).

Egli deve:

-          redigere la prima relazione informativa sul dissesto del fallito;

-          assistere il giudice delegato nelle operazioni di predisposizione dello stato passivo;

-          presenziare all'udienza di discussione dello stato passivo;

-          redigere periodiche relazioni, per informare il giudice delegato dell'andamento della procedura di amministrazione dei beni del fallito;

-          procedere alla liquidazione delle attività fallimentari, ai sensi dell'art. 104 L.F., dopo esserne stato autorizzato dal giudice delegato, vendendo i beni al miglior offerente e depositando immediatamente il ricavato sul conto corrente intestato al fallito;

-          presentare ogni due mesi un progetto delle somme disponibili depositate su tale conto ed, insieme, un progetto di riparto di tali somme fra i creditori ammessi definitivamente, riservando le somme spese per la procedura;

-          presentare il rendiconto particolareggiato della sua gestione, dopo avere compiuto la liquidazione dell'attivo e prima del riparto finale.

Contro gli atti di amministrazione del curatore, il fallito ed ogni altro inte­ressato ‑ come su indicato ‑ possono reclamare al giudice delegato, che deci­de con decreto motivato poi soggetto a reclamo al Tribunale (art. 36 L.F.). Il curatore può essere revocato in ogni tempo, con decreto, dal Tribunale, su pro­posta del giudice delegato, su richiesta del comitato dei creditori, oppure di ufficio, sentiti il P.M. ed il curatore medesimo (art. 37 L.F.).

 

D) Il comitato dei creditori

Il comitato dei creditori è organo collegiale che rappresenta i creditori del fallito. Esso è composto da tre o cinque creditori e nominato dal giudice dele­gato. Il comitato svolge funzioni prettamente consultive: deve essere ascoltato in tutti i casi previsti dalla legge (pareri obbligatori), e tutte le volte che il Tribu­nale o il giudice delegato lo ritenga opportuno (pareri facoltativi). I pareri del comitato non sono vincolanti; l'unico caso di parere vincolante è quello relativo all'autorizzazione per la continuazione provvisoria dell'eser­cizio dell'impresa del fallito (art. 90 L.F.).

Ciascun membro del comitato ha, inoltre, poteri di controllo su tutti i docu­menti del fascicolo ed ha, altresì, il diritto di essere informato specificamente su tutte le vicende del procedimento.

Il parere del comitato è sempre espresso collegialmente. Ai membri del comitato non spetta alcun compenso, ma solo il rimborso delle spese sostenute per l'adempimento degli obblighi del proprio incarico.

 

7. LA PROCEDURA FALLIMENTARE ORDINARIA

A) Conservazione e amministrazione del patrimonio

La complessità della procedura fallimentare esige che la stessa si svolga attraverso fasi successive ben determinate, coordinate tutte insieme al rag­giungimento del medesimo fine.

Tali fasi, in ordine progressivo, sono le seguenti:

-          la conservazione e l’amministrazione del patrimonio del fallito;

-          l'accertamento del passivo;

-          l’accertamento dell'attivo;

-          la liquidazione dell'attivo;

-          il riparto dell’attivo;

-          la chiusura del fallimento.

La prima fase della procedura fallimentare è diretta alla apprensione ed alla conservazione del patrimonio del fallito.

Le attività caratteristiche di tale fase sono:

-          l'apposizione dei sigilli sui beni del fallito, eseguita dal giudice delegato, nonché la descrizione in un processo verbale di tutti quei beni per i quali non è possibile l'apposizione dei sigilli. Restano, comunque, esclusi i beni dichiarati impignorabili dagli artt. 514 e 515 c.p.c.;

-          l'inventario dei beni, da effettuarsi ai sensi degli artt. 518 ss. c.p.c. a cura del curatore ed alla presenza eventuale del fallito, previa rimozione dei si­gilli e presa in consegna, da parte del curatore stesso, dei beni;

-          l'adozione dei provvedimenti necessari ad evitare il deterioramento o la per­dita dei beni, ivi compreso l'esercizio provvisorio dell'impresa.

La continuazione dell'impresa del fallito ha carattere provvisorio ed è consentita quando dall'im­provvisa interruzione può derivare un danno grave ed irreparabile. In tal caso il Tribunale, sentito il curatore, può autorizzare la continuazione temporanea dell'esercizio dell'impresa del fallito fino a che non sia stato costituito il comitato dei creditori ed abbia espresso il suo parere in merito.

Con la presa in consegna dei beni il curatore subentra nell'amministrazio­ne dei beni del fallito. Egli, pertanto:

-          può compiere liberamente tutti gli atti di ordinaria amministrazione. Il giu­dice delegato può impartire direttive, mala loro inosservanza non compor­ta nullità o annullabilità degli atti, bensì soltanto la possibilità di revoca del curatore;

-          può compiere atti di straordinaria amministrazione solo a seguito di auto­rizzazione del giudice delegato.

La mancanza di autorizzazione rende l'atto annullabile ad istanza degli organi fallimentari.

 

B) L'accertamento del passivo

Tale fase serve ad individuare i creditori ammessi al concorso: ammessi cioè a partecipare, in ragione dei propri crediti ed alla pari (salvo le cause legittime di prelazione), al riparto dei beni del debitore. Essa ha inizio con le domande di ammissione al passivo che i creditori debbono presentare nel termine fissato dalla sentenza che dichiara il falli­mento. La domanda di ammissione al passivo, peraltro, ha l'effetto di inter­rompere la prescrizione ed eventuali termini di decadenza.

Sulla base delle domande, il giudice delegato predispone lo stato passivo provvisorio del fallimento, ammettendo i singoli crediti con l'indicazione del­le relative cause di prelazione riconosciute. Se il giudice ritiene di non dover ammettere, in tutto o in parte, un credito, dovrà sommaria­mente indicare le ragioni; i crediti condizionati o quelli per i quali non è stata esibita la relativa documentazione giustificativa possono essere ammessi con riserva. È, altresì, in tale fase che si accerta se vi sono atti assoggettabili alla revo­catoria fallimentare, in quanto la relativa azione deve essere promossa dal curatore prima della chiusura della verifica, previa la necessaria autorizzazio­ne del giudice. Cosi predisposto lo stato passivo viene depositato in cancelleria e i creditori possono prender­ne visione. Seguono una o più adunanze di verifica, in cui ogni interessato può avanzare osserva­zioni e deduzioni, presentare ulteriori documenti giustificativi, chiedere nuove ammissioni di crediti. Al termine il giudice delegato redige lo stato passivo definitivo e lo dichiara esecutivo con proprio decreto. Da quel momento:

-          tutte le ulteriori domande di ammissione si considerano tardive e se il ritardo è dovuto a negligenza del creditore egli parteciperà solo al riparto dell'eventuale residuo attivo dopo che siano stati soddisfatti tutti i creditori intervenuti tempestivamente;

-          il fallito può proporre il concordato fallimentare;

-          il curatore può procedere alla vendita di beni compresi nella massa attiva.

Contro lo stato passivo possono essere proposte impugnazioni ed opposizioni:

-          le opposizioni possono essere proposte dai creditori esclusi alfine di ottenere l'ammissione del proprio credito o di una causa di prelazione non riconosciuta, nonché da quelli ammessi con riserva al fine di ottenere l'ammissione definitiva;

-          le impugnazioni possono, invece, essere proposte dai creditori ammessi alfine di ottenere l'eliminazione dalla massa passiva di uno o più creditori ammessi o il disconoscimento di una causa di prelazione. Entrambe devono essere proposte con ricorso al giudice delegato entro quindici giorni dalla ricezione dell'avviso che comunica loro il deposito dello stato passivo, vengono istruite dal tribu­nale e decise con un'unica sentenza sottoposta ai normali mezzi di gravame.

 

C) L'accertamento e la liquidazione dell'attivo

Accertato il «passivo», si accerta lo stato attivo del fallimento, costituito da tutti i beni del fallito e da quei beni che, per effetto della revocatoria, sono ritornati, ai soli fini della procedura fallimentare, nel patrimonio del fallito. Tale accertamento si fa a mezzo della redazione dell'inventario e della presa in consegna dei beni inventariati da parte del curatore. L'attivo diventa definitivo dopo che si sono esaurite le azioni revocatorie e le azioni di rivendica (proposte eventualmente dai terzi proprietari) sui beni del fallito. Con la liquidazione dell'attivo i beni del fallito vengono tramutati in dana­ro, ai fini del soddisfacimento dei creditori. La liquidazione ha inizio dopo il decreto che rende esecutivo lo stato passi­vo, in quanto è tale decreto che determina:

-          l’ammontare dei crediti da soddisfare;

-          la misura della liquidazione.

La liquidazione, una volta iniziata, può esser sospesa solo a seguito di presentazione della domanda di concordato. La liquidazione avviene attraver­so vendite giudiziarie, effettuate sotto la direzione del giudice delegato, sentito il comitato dei creditori e con l'ausilio del curatore.

Effettuata la liquidazione, si provvede ad attribuire il ricavato ai singoli creditori.

Le somme disponibili debbono essere ripartite secondo il seguente ordine preferenziale:

-          le spese incontrate nel corso della procedura ed i debiti contratti dal curato­re per la procedura stessa hanno precedenza assoluta (c.d. debiti di massa);

-          vanno poi soddisfatti i creditori privilegiati, secondo l'ordine previsto dalla legge;

-          infine si provvede a soddisfare i creditori chirografari in misura proporzionale all'ammontare del credito di ciascuno.

 

D) La chiusura del fallimento

Il fallimento si chiude (art. 118 L.F.):

-          quando i creditori non propongono domande di ammissione al passivo, nei termini prescritti;

-          quando tutto il passivo accertato a carico del patrimonio fallimentare è stato saldato;

-          quando tutto il patrimonio del fallito è stato ripartito;

-          quando non sono possibili ripartizioni per mancanza di attivo.

Quando la procedura è stata chiusa per ripartizione finale dell'attivo o per mancanza di atti‑

vo, la legge consente che il fallimento si riapra quando non siano trascorsi cinque anni dal decreto di chiusura e nel patrimonio del fallito si rinvengano attività tali da rendere utile il provvedimento: la riapertura del fallimento può essere chiesta da uno o più creditori, ma non può essere disposta d'ufficio dal Tribunale fallimentare; ad essa, peraltro, possono accedere anche nuovi creditori;

-          nel caso in cui venga stipulato il concordato fallimentare.

Allorché si verifica una delle ipotesi anzidette la procedura fallimentare si arresta e si avvia all'emanazione del provvedimento di chiusura, qualunque sia la fase in cui essa si trovi. Con la chiusura del fallimento cessano dalle funzioni gli organi fallimentari, ed il debitore è reintegrato nei suoi diritti patrimoniali; i creditori riacquistano tutti i loro diritti nei confronti del debitore per ottenere l'eventuale parte dei propri crediti non soddisfatti per intero. Restano in vita, però, gli effetti personali in danno del fallito, finché il Tribunale non dichiari la sua riabilitazione.

 

8. IL CONCORDATO SUCCESSIVO O FALLIMENTARE

È una particolare chiusura del fallimento con la quale si realizza la soddi­sfazione paritaria dei creditori senza ricorrere alla fase della liquidazione del­l'attivo. Si ha «concordato fallimentare» quando il debitore propone il comple­to pagamento dei crediti privilegiati ed il pagamento di una data percentuale dei crediti chirografari, e tale offerta, approvata dalla maggioranza dei creditori, viene omologata dal Tribunale.

In particolare:

-          il fallito, dopo che è stato reso esecutivo dal giudice delegato lo stato passi­vo, può proporre ai creditori il concordato nei limiti sopra esposti, offrendo nel contempo idonee garanzie per il suo adempimento;

-          in seguito alla proposta del fallito, il giudice delegato deve sentire il curatore ed il comitato dei creditori, il cui parere è obbligatorio ma non vincolante. Se il giudice ritiene conveniente la proposta, ordina che questa venga comuni­cata a tutti i creditori, fissando loro un termine (non inferiore a 20 giorni e non superiore a 30) per far pervenire l’adesione al concordato stesso o il dissenso;

-          se il concordato è approvato dai creditori chirografari (non votano, ovvia­mente, i creditori privilegiati), si apre il giudizio di omologazione. A tal fine il Tribunale esercita un controllo di legittimità, sulle condizioni stabilite dalla legge per la presentazione e l'approvazione del concordato, ed un controllo di merito, sull'opportunità e sui vantaggi per i singoli credi­tori del concordato stesso. In seguito a tale duplice controllo, il Tribunale, con sentenza, può sia omo­logare il concordato che respingerlo nel qual caso prosegue la procedura fallimentare;

-          se il concordato è omologato, la procedura fallimentare si intende chiusa con il passaggio in giudicato della sentenza di omologazione;

-          il concordato può essere risolto o annullato:

-            è risolto, se le garanzie promesse non vengono date ovvero se gli obbli­ghi assunti non sono adempiuti. La domanda di risoluzione può essere proposta dal curatore o da uno dei creditori (art. 137 L.F.);

-            è annullato, se si scopre che è stato dolosamente esagerato il passivo ovvero sottratta o dissimulata una parte rilevante di attivo. Sia in caso di risoluzione che in caso di annullamento del concordato si riapre la procedura fallimentare.

La sentenza di omologazione del concordato produce immediatamente due effetti:

-          vincola il fallito (e il terzo garante o assuntore) all'adempimento degli ob­blighi assunti;

-          rende obbligatorio il concordato per tutti i creditori anteriori all'apertura del fallimento, compresi quelli che non abbiano presentato domanda di ammissione al passivo (anche per mancata conoscenza del fallimento).

Una volta passata in giudicato tale sentenza, il fallimento si chiude, con tutte le relative conse­guenze e cioè:

‑ riguardo al fallito:

-          ritornano allo stesso i beni non trasferiti all'assuntore o vincolati al concordato, con il riacquistato pieno potere di disporne;

-          cessa ogni compressione della legittimazione processuale attiva e passiva;

‑ riguardo ai creditori:

-          il concordato è, come detto, obbligatorio per tutti: ammessi o non ancora ammessi;

-          le garanzie offerte, però, non si estendono ai creditori che non hanno ancora presentato domande di ammissione;

-          i creditori conservano le loro azioni per il residuo credito non soddisfatto contro i coob­bligati, i fideiussori del fallito e gli obbligati in via di regresso; ma non possono più agire, contro il fallito, per la parte non soddisfatta del loro credito (permane pero in vita, per il residuo, una obbligazione naturale a carico del fallito, per cui se egli paga spontaneamen­te, non può più chiedere la restituzione).

 

9. IL CONCORDATO PREVENTIVO

Il concordato preventivo è un mezzo che la legge accorda al debitore per evitare la gravosa e dannosa procedura fallimentare. Ad esso, infatti, si può ricorrere solo prima della dichiarazione di falli­mento (da qui il nome) per evitare la paralisi che il fallimento determina nell'impresa del debitore con tutte le sue dannose conseguenze patrimoniali, personali e penali. II concordato preventivo è un accordo giudiziale fra debitore e creditori circa le modalità con le quali dovranno essere estinte tutte le obbligazioni, con una decurtazione non inferiore ad una data misura stabilita per legge.

Presupposti della procedura sono:

-          la qualità di imprenditore commerciale del soggetto (persona fisica o società);

-          lo stato di insolvenza non ancora giudizialmente accertato.

Requisiti soggettivi di ammissibilità alla procedura sono:

-          l'iscrizione dell'imprenditore nel registro delle imprese almeno da un biennio; ‑ la regolare tenuta, da almeno un biennio, delle scritture contabili;

-          il non essere stato dichiarato fallito o ammesso ad altro concordato preventi­vo negli ultimi cinque anni;

-          il non esser stato condannato per bancarotta o reati contro il patrimonio, la fede pubblica, l'economia e l'industria.

Requisito oggettivo di ammissibilità alla procedura è che il debitore offra di pagare i debiti, per l'intero ai creditori privilegiati e per una percentuale non inferiore al 40% ai creditori chirografari, con serie garanzie reali o personali (concordato remissorio); ovvero offra ai creditori tutti i suoi beni, la cui valuta­zione faccia presumere che i creditori stessi saranno soddisfatti in misura non inferiore a quella indicata (concordato per cessione dei beni).

 

A) La procedura

La procedura di concordato preventivo si realizza mediante i seguenti organi:

-          il Tribunale

-          il giudice delegato

-          il commissario giudiziale

-          l'assemblea dei creditori.

La procedura di concordato inizia con la domanda di ammissione, che consiste in un ricorso sottoscritto dall'imprenditore e diretto al Tribunale del luogo in cui si trova la sede principale dell'impresa. Il Tribunale, accertata la sussistenza dei requisiti, ammette il debitore alla procedura, con decreto, nominando il giudice delegato ed il commissario giudiziale, ordinando la convocazio­ne dei creditori nei trenta giorni e stabilendo il termine, non superiore agli otto giorni, entro cui il debitore deve versare le somme che si presumono necessarie per far fronte alla procedura stessa. Alla deliberazione e all'approvazione della proposta di concordato è rivolta l'adunanza dei creditori. Il Tribunale controlla la legittimità ed il merito del concordato approvato dai creditori e se, sussistendo tutte le condizioni di legge, ritiene il concordato opportuno e conveniente, lo omolo­ga con sentenza; altrimenti lo respinge dichiarando d'uscio il fallimento. Il concordato omologato è obbligatorio per tutti i creditori anteriori all'apertura della proce­dura: i crediti chirografari vengono così ridotti nella percentuale prevista.

 

B) Effetti del concordato

Per effetto del concordato omologato:

-          il creditore non perde l’amministrazione dei suoi beni, mala esercita sotto la vigilanza del commissario giudiziale; egli può compiere tutti gli atti relativi alla gestione dell'impresa, ma deve essere autorizzato dal giudice delegato: la mancata autorizzazione comporta la inefficacia degli atti compiuti e la dichiarazione automatica del fallimento;

-          i creditori non possono iniziare o proseguire azioni esecutive individuali contro il debitore, né acquistare diritti di prelazione;

-          i debiti scadono tutti e vengono computati, ai fini del concorso, secondo le 3 norme del fallimento;

-          i contratti in corso di esecuzione mantengono la loro efficacia, a differenza di quanto accade in caso di fallimento.

Il concordato può essere:

-          risolto, in caso di inadempimento degli obblighi con esso assunti;

-          annullato, se sia scoperta una esagerazione dolosa del passivo o sottrazione o dissimulazione dell'attivo.

Alla risoluzione o all'annullamento consegue la dichiarazione di fallimento, che deve esser pronunciala, d'ufficio, dal Tribunale contemporaneamente alla sentenza che annulla o risolve il concordato.

 

10. L'AMMINISTRAZIONE CONTROLLATA

Con l'amministrazione controllata si concede al debitore in temporanea difficoltà (non quindi, in stato di insolvenza) la possibilità di evitare la di­chiarazione di fallimento, sempreché esistano comprovate possibilità di ri­sanare l'impresa.

Anch'essa, come il concordato, è un accordo giudiziale con cui i creditori concedono al debitore una dilazione per l'estinzione integrale dei debiti, in un termine non superiore a due anni, mentre l'impresa continua la sua attività sotto la gestione del debitore, controllata da un commissario e diretta dal giudice. L'amministrazione controllata, pertanto, a differenza del concordato pre­ventivo:

-          tende a garantire il pagamento integrale dei debiti, senza alcuna decurta­zione;

-          comporta una dilazione nel tempo dei pagamenti stessi;

-          presuppone una temporanea difficoltà dell'imprenditore e la risanabilità dell'impresa e non un più grave stato di dissesto.

L’amministrazione controllata, a differenza del concordato, non presuppo­ne lo stato di insolvenza dell'imprenditore, ma una sua temporanea difficoltà a far fronte ai pagamenti. Mentre, infatti, l'insolvenza è una situazione irreversibile, nel senso che l'imprenditore non è più in grado definitivamente di far fronte ai propri debiti, la temporanea difficoltà è, invece, una situazione reversibile, nel senso che attualmente il debitore non può far fronte regolarmente (cioè puntualmente) ai propri creditori, malo potrà fare in seguito, se gli viene concessa una dilazione per superare la momentanea crisi.

La L. 391/1978 ha introdotto come ulteriore presupposto della procedura l'esistenza di comprovate possibilità di risanare l'impresa, escludendo così la concessione del beneficio quando tale risultato si prospetti come incerto o improbabile.

Le condizioni di ammissibilità nonché la procedura sono sostanzialmente identiche a quelle del concordato preventivo.

Anche gli organi sono gli stessi del concordato preventivo ed hanno funzio­ni analoghe; in più vi è il comitato dei creditori, organo consultivo che assiste il commissario giudiziale.

 

11. LA LIQUIDAZIONE COATTA AMMINISTRATIVA

Per determinate categorie dì imprese, la legge ha previsto una procedura in parte analoga alla procedura fallimentare, di competenza, però, delle autorità amministrative che sulle imprese stesse hanno la vigilanza: la liquidazione coatta amministrativa.

Tali imprese, a mero titolo esemplificativo, sono:

-          le imprese di assicurazione in genere contro i danni e sulla vita; nonché le imprese di capitaliz­zazione e gestione fiduciaria (D.P.R. 13‑2‑1959, n. 449);

-          le imprese di credito (L. 7‑3‑1938, n. 141);

-          le cooperative esercenti attività commerciale;

-          i consorzi di cooperative ammessi ai pubblici appalti e le associazioni di cooperative eretti in enti morali (R.D.L. 13‑8‑1926, n. 1554);

-          le società di intermediazione mobiliare (D.Lgs. 23‑7‑1996, n. 415);

-          le società di gestione dei fondi comuni di intervento (L. 23‑3‑1983, n. 77); ‑ le società di investimento a capitale variabile (D.Lgs. 25‑1‑1992, n. 84).

La liquidazione coatta amministrativa non presuppone necessariamente lo stato d'insolvenza dell'impresa, che può essere sottoposta alla procedura an­che in presenza di irregolarità di funzionamento, o di violazioni di legge e di norme amministrative. Le singole leggi speciali dettagliano tassativamente le varie ipotesi. Regola generale è che la liquidazione coatta amministrativa esclude il falli­mento. Vi sono, tuttavia, imprese per le quali le varie leggi speciali prevedono anche la possibilità, accanto alla liquidazione coatta, del fallimento; in tal caso vale il principio di prevenzione, e cioè fra i due istituti prevale quello che sia stato richiesto per primo (art. 196 L.F ): l'apertura della liquidazione coat­ta preclude la dichiarazione di fallimento, e questa preclude la prima.

 

A) Organi

Sono organi della liquidazione coatta:

‑ il commissario liquidatore.

Questi è un pubblico ufficiale che ha funzioni e poteri sostanzialmente analoghi a quelli del curatore fallimentare; ad esso infatti spetta:

-          amministrare il patrimonio e gestire l'impresa durante la liquidazione;

-          ricevere in consegna il patrimonio sulla base dell'inventario;

-          procedere alle operazioni di liquidazione;

- l'autorità di vigilanza.

Tale organo esercita le stesse funzioni del giudice delegato e del Tribunale nel fallimento, salvo quelle affidate al commissario. In particolare:

-          nomina e revoca il commissario liquidatore;

-          autorizza il liquidatore a compiere quegli atti per i quali la legge richiede l'autorizzazio­ne;

-          fissa le direttive cui deve attenersi il commissario;

-          sovrintende alle operazioni di liquidazione in senso stretto;

‑ il comitato di sorveglianza.

Tale comitato è costituito da tre o cinque membri scelti tra le persone esperte nel ramo di attività esercitata dall'impresa, possibilmente creditori ed è organo prettamente consultivo assolvendo ai compiti che nel fallimento spettano al comitato dei creditori (artt. 205, 206 e 210 L.F.).

 

B) Disciplina

La liquidazione coatta è disposta sempre dalla pubblica amministrazione, con decreto che deve essere inserito integralmente nella Gazzetta Ufficiale entro 10 giorni dalla sua emanazione. La P .A. provvede altresì con esso, o con altro provvedimento successivo, alla nomina del commissario liquidatore e del comitato di sorveglianza. La circostanza che un'impresa sia assoggettata a liquidazione coatta amministrativa non vieta, però, che venga accertato giudizialmente lo stato d'insolvenza dell'impresa medesima. Anzi, il legislatore ha espressamente previsto la possibilità di detto accertamento, proprio per consentire la soddisfazione dei creditori con gli stessi mezzi predisposti per il concorso fallimentare. L’accertamento giudiziario dello stato d'insolvenza può essere sia anteriore che successivo al provvedimento di liquidazione. Le fasi della liquidazione coatta sono:

-          l'accertamento del passivo, che è compiuto dal commissario liquidatore sulla base delle scrit­ture contabili e dei documenti dell'impresa. Se in tale fase, sorgono controversie, la loro riso­luzione è rimessa al Tribunale, nelle forme stabilite per le opposizioni e le impugnazioni dei creditori in sede di fallimento: si ha, così, l'inserimento di una vera e propria fase giurisdizio­nale nella fase prettamente amministrativa di accertamento del passivo, allo scopo di fornire una adeguata tutela ai diritti dei creditori opponenti e del debitore;

-          la liquidazione dell’attivo, che spetta, ugualmente, al commissario liquidatore, il quale ha tutti i poteri, salvo il caso di vendita in blocco di tutti i mobili o gli immobili, per la quale occorre il parere favorevole del comitato di sorveglianza e l'autorizzazione dell'autorità di vigilanza;

-          il riparlo finale del ricavato è attuato nei modi stabiliti dalla legge fallimentare: sono ammessi riparti parziali.

La liquidazione coatta amministrativa produce, per espresso rinvio di leg­ge, gli stessi effetti del fallimento salvo per quanto riguarda gli atti pregiudi­ziali ai creditori e la revocatoria fallimentare nonché per l'inapplicabilità al­l'imprenditore messo in stato di liquidazione delle incapacità personali di di­ritto pubblico che colpiscono il fallito e della relativa iscrizione nel registro dei falliti.

 

12. L'AMMINISTRAZIONE STRAORDINARIA DELLE GRANDI IMPRE­SE

L'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi è stata intro­dotta con il D.L. 30‑1‑1979, n. 26, convertito nella L. 3‑4‑1979, n. 95 (c.d. Legge Prodi), e successivamente integrato da numerosi interventi legislativi. Quest'ultima legge è stata poi abrogata e sostituita dal D.Lgs. 8‑7‑1999, n. 270.

La nuova procedura concorsuale è nata per realizzare finalità non rag­giungibili con le procedure tradizionali, in quanto tende a conciliare il soddi­sfacimento dei creditori dell'imprenditore insolvente con il salvataggio del com­plesso produttivo e del livello occupazionale.

Il primo aspetto sul quale la nuova disciplina è intervenuta è quello che riguarda i requisiti delle imprese per poter accedere ai benefici di tale proce­dura. In particolare è necessario che le imprese non piccole e di natura priva­ta:

‑ abbiano un numero di dipendenti pari o superiore a 200 unità (in luogo delle 300 richieste dalla previgente normativa);

‑ che abbiano una esposizione debitoria pari almeno ai due terzi dell’attivo patrimoniale e dei ricavi provenienti dalle vendite e dalle prestazioni del­l'ultimo esercizio (in precedenza il requisito dell'esposizione debitoria era stabilito annualmente in cifra fissa dal Ministero delle attività produttive); ‑ che per esse venga accertata, da parte del commissario giudiziale, sentito il Ministro delle attività produttive, la sussistenza di concrete possibilità di recupero dell'equilibrio economico.

 

A) Procedimento

Il procedimento per l'accertamento dei presupposti soggettivi ed oggettivi del nuovo istituto è delineato dalla legge con riferimento a quanto disposto dall'art. 195 L.F in relazione all'accertamento giudiziale dello stato d'insol­venza anteriore alla liquidazione coatta amministrativa. Però, mentre alla dichiarazione d'insolvenza anteriore alla liquidazione coatta si può pervenire solo su richiesta di uno o più creditori, la dichiarazio­ne giudiziale dei presupposti per l'amministrazione straordinaria non è colle­gata soltanto all'iniziativa dei creditori, potendosi pervenire alla stessa per richiesta del medesimo debitore, del pubblico ministero o di ufficio. L'im­prenditore che chiede la dichiarazione del proprio stato di insolvenza deve esporre nel ricorso le cause che lo hanno determinato, segnalando gli elemen­ti utili per la valutazione della sussistenza dei requisiti e delle condizioni per l'ammissione alla procedura. Il Tribunale provvede respingendo il ricorso (con decreto motivato, contro il quale è proponibile reclamo alla Corte d'Appello); ovvero accogliendolo con sentenza dichiarativa dello stato d'insolvenza; competente ad emanare tale prov­vedimento è il Tribunale del luogo ove l'impresa ha la sua sede principale. Con la sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza, che è provvisoriamente esecutiva, il Tribunale:

-          nomina il giudice delegato per la procedura;

-          nomina uno o tre commissari giudiziali, in casi di eccezionale rilevanza e complessità della procedura;

-          ordina all'imprenditore (se questi non vi abbia già provveduto) di depositare entro due giorni in cancelleria le scritture contabili e i bilanci;

-          assegna ai creditori e ai terzi che vantano diritti reali mobiliari su beni in possesso dell'im­prenditore, un termine non inferiore a 90 giorni e non superiore a 120 giorni dalla data dell'affissione della sentenza per la presentazione in cancelleria delle domande di ammissione alpassivo e di rivendicazione, restituzione e separazione delle cose mobili;

-          stabilisce il luogo, il giorno e l'ora dell'adunanza in cui, nel successivo termine di 30 giorni, si procederà all'esame dello stato passivo davanti al giudice delegato;

-          stabilisce se la gestione dell'impresa debba essere lasciata all'imprenditore insolvente o affidata al commissario giudiziale, fino a quando non si provveda alla dichiarazione di aper­tura della procedura di amministrazione straordinaria ovvero alla dichiarazione di falli­mento.

Il Tribunale, con la sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza (o con successivo decreto) adotta i provvedimenti conservativi opportuni nell'interesse della procedura (art. 21, D.Lgs. 270/ 1999). Contro la sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza può essere propo­sta opposizione da qualunque interessato, davanti al Tribunale che l'ha pro­nunciata, nel termine di 30 giorni.

 

B) Gli organi preposti all'amministrazione straordinaria

Sono organi di amministrazione straordinaria:

a) Il Tribunale

Il Tribunale dichiara lo stato di insolvenza e adotta gli altri provvedimenti previsti dal D.Lgs. 270/1999 in composizione collegiale. Il Tribunale che ha dichiarato lo stato di insolvenza è competente a co­noscere di tutte le azioni che ne derivano, qualunque ne sia il valore, fatta eccezione per le azioni reali immobiliari, per le quali restano ferme le norme ordinarie di competenza. Appartiene pure alla competenza del Tribunale che ha dichiarato l'insolvenza la cognizione delle azioni revocatorie falli­mentari proposte dal commissario straordinario ai sensi dell'art. 49, D.Lgs. 270/1999.

b) Il giudice delegato

Il giudice delegato adotta i provvedimenti di sua competenza con decreti e questi sono impugnabili nei modi consentiti per i decreti del giudice delegato al fallimento (art. 14, D.Lgs. 270/1999).

c) Il commissario giudiziale

Il commissario giudiziale, per quanto attiene all'esercizio delle sue funzio­ni, è pubblico ufficiale. In caso di nomina di tre commissari giudiziali, gli stessi deliberano a mag­gioranza. Il regime della responsabilità e la possibilità di revoca sono disciplinati con richiamo alle norme degli artt. 37 e 38, 1° e 2° comma, L.F. Contro gli atti di amministrazione del commissario giudiziale chiunque vi abbia interesse può proporre reclamo al giudice delegato, che decide con decre­to motivato, impugnabile alla stregua degli altri provvedimenti emessi da tale organo (art. 17, D.Lgs. 270/1999).

 

C) Effetti dell'apertura della amministrazione straordinaria

L'apertura dell'amministrazione straordinaria comporta il verificarsi di una serie di effetti nei riguardi dello stesso debitore assoggettato alla procedura, dei creditori, nonché relativamente ai rapporti giuridici preesistenti. Nei confronti del debitore il decreto che dispone l'amministrazione stra­ordinaria determina:

-          la perdita dell'amministrazione e della disponibilità dei «beni esistenti»;

-          il venir meno della capacità processuale per ogni controversia relativa a rapporti di diritto patrimoniale dell'impresa;

-          la cessazione (o, secondo alcuni autori, la sospensione) delle funzioni delle assemblee e degli organi di amministrazione e di controllo delle società.

Per quanto riguarda, poi, gli effetti dell'apertura dell'amministrazione stra­ordinaria nei confronti dei creditori, essi si sostanziano nel divieto di azioni esecutive individuali. La procedura di amministrazione straordinaria può attuarsi mediante un programma di cessione dei complessi aziendali, con finalità liquidatorie e della durata massima di un anno, oppure mediante un programma di ri­strutturazione aziendale, con finalità conservative e della durata massima di due anni. In caso di esito negativo della procedura, alla scadenza del termine presta­bilito ovvero in qualunque momento risulti che la stessa non può essere util­mente proseguita, il Tribunale dispone con decreto la conversione dell'ammi­nistrazione in fallimento.

In caso di esito positivo la procedura potrà concludersi:

-          con il raggiungimento del fine, e cioè con la ristrutturazione totale o par­ziale dell'impresa anche mediante liquidazione dei rami aziendali ritenuti secchi;

-          con la ripartizione ai creditori delle somme ricavate anche attraverso la cessione a terzi dei complessi aziendali risanati;

-          con un concordato, proposto dagli amministratori e deliberato dall'assem­blea della società, strutturato secondo lo schema di cui all'art. 214 L.F.

 

 

 

1. IL DIRITTO DI FAMIGLIA: GENERALITA’

Il diritto di famiglia comprende l'insieme delle norme che hanno per ogget­to gli status familiari (coniuge, figlio, padre etc.) e i rapporti giuridici che si riferiscono alle persone che costituiscono la famiglia. Le relazioni che sorgono in tale ambito presentano caratteri del tutto particolari in quanto nella famiglia il diritto, più che tutelare esclusivamente l'interesse individuale dei singoli compo­nenti, prende in considerazione l'interesse superiore dell'intero gruppo familiare. Ciò spiega per­ché il diritto di famiglia:

  • si distacca dalle rimanenti branche del diritto privato, in quanto tutela un interesse collettivo (della famiglia) e non un interesse del singolo, avvicinandosi maggiormente alla ratio delle discipline di diritto pubblico;
  • è regolato da numerose norme di ordine pubblico (come tali inderogabili). Così, per esempio, un soggetto è libero o meno di sposarsi, ma se contrae matrimonio deve accettare in loto le norme che regolano l'istituto senza potervi apporre termini, condizioni etc.;
  • le norme che fanno capo a tale diritto, pur dettando dei precetti, spesso sono prive di sanzione;
  • si parla nel diritto di famiglia di rapporti costituiti da diritti‑doveri reciproci e di uguale conte­nuto: così l'educazione dei figli rappresenta allo stesso tempo un diritto ed un dovere incom­bente su chi esercita la potestà parentale.

Dai rapporti familiari derivano, in capo ai componenti della famiglia, dei diritti soggettivi, che presentano caratteristiche del tutto particolari; tali diritti, infatti, sono: assoluti, indisponibili, imprescriltibili, personalissimi, oggetto di una particolare tutela penale (cfr. artt. 556‑574 c.p.), di ordine pubblico.

 

2. LA RIFORMA DEL DIRITTO DI FAMIGLIA

Con la legge 19 maggio 1975, n. 151 il legislatore, rifacendosi al principio dell'uguaglianza giuridica dei coniugi (art. 29 Cost.), ha modificato la disciplina relativa ai rapporti familiari, abrogando numerose disposizioni del codice civile in aperto contrasto con la Costituzione e dan­do attuazione alla impostazione già in precedenza delineata dalla Corte costituzionale. Punti qualificanti della riforma sono:

a)     la completa parità giuridica (oltre che morale) dei coniugi (art. 143 c.c.);

b)     il riconoscimento ai figli naturali riconosciuti di identici diritti successori rispetto ai figli legit­timi (art. 566 c.c.);

c)     un più incisivo intervento del giudice nella vita della famiglia (artt. 145 e 155 C.C.);

d)     la scomparsa dell'istituto della dote e del patrimonio familiare;

e)     l'istituzione della comunione legale dei beni fra i coniugi (art t. 159 ss. c.c.) come regime patri­moniale legale della famiglia (in mancanza di diversa convenzione);

f)       l'introduzione della potestà genitoria attribuita collettivamente e nella stessa misura ad en­trambi i genitori, in luogo della patria potestà precedentemente attribuita esclusivamente al padre;

g)     la qualifica di erede, e non più di usufruttuario ex lege, conferita al coniuge superstite (artt. 581 ss. C.C.).

 

3. IL CONCETTO DI «FAMIGLIA»

Il codice civile non dà una definizione della famiglia. La Costituzione (art. 29) si limita ad affermare che «la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio». In tal senso si può dire che la famiglia è una formazione sociale fondata sul matrimonio, con i caratteri del­la esclusività, della stabilità e della responsabilità.

Sotto il profilo storico nella società industriale si è avuto il tramonto della ed. famiglia in senso ampio (o famiglia parentale) progressivamente disintegratasi in singoli nuclei familiari per lo più costituiti da genitori e figli minori. In tal modo alla famiglia parentale si è venuta sostituen­do la cd. famiglia in senso stretto (o famiglia nucleare).

Alla famiglia fondata sul matrimonio ‑ o famiglia legittima ‑ si contrap­pone la cd. famiglia naturale o di fatto, costituita da persone di sesso diverso che convivono more uxorio. La rilevanza giuridica di questa, tuttavia, è di­scussa.

A tale riguardo vanno considerati tre aspetti:

a) i rapporti tra i conviventi di fatto: hanno, nel nostro ordinamento, scarsa rilevanza. Infatti, tra i conviventi di fatto non vi sono diritti e doveri reci­proci alla coabitazione, all'assistenza morale e materiale, alla fedeltà, così come tra i coniugi: piuttosto, la reciproca assistenza materiale è considerata adempimento di un'obbligazione naturale e la collaborazione lavorativa (non a carattere subordinato) è assistita da presunzione di gratuità;

b) i rapporti tra i genitori e i figli (cd. figli naturali): sono equiparati a quelli intercorrenti nella famiglia legittima. In particolare, i genitori hanno il di­ritto e l'obbligo di mantenere, istruire ed educare anche i figli nati fuori del matrimonio (art. 30 co. 1° Cost.);

c) i rapporti con i terzi: il familiare di fatto, secondo un orientamento, ha dirit­to al risarcimento dei danni nei confronti del terzo che abbia illecitamente causato la morte del convivente; a favore del convivente di fatto è prevista la successione nel contratto di locazione; il coniuge divorziato perde il diritto agli alimenti o al mantenimento se riceve assistenza materiale dal familiare di fatto.

 

4. CONIUGIO, PARENTELA, AFFINITÀ

Quanto ai rapporti che legano fra di loro i componenti della famiglia di­stinguiamo:

-          il rapporto di coniugio, che lega marito e moglie;

-          il rapporto di parentela, che costituisce, invece, un legame di sangue tra persone che discendono da un comune capostipite (genitori e figli, fratelli e sorelle, zii e nipoti etc.) riconosciuto fino al sesto grado. Il grado di parentela si calcola contando le persone fino allo stipite comune senza calcolare il capostipite. Così, ad esempio, i fratelli sono parenti di secondo grado [fratello, padre (che non si conta), fratello], i cugini di quarto grado [cugino, zio, nonno (che non si conta), zio, cugi­no]. Si distingue poi tra parentela in linea relta (se le persone discendono le une dalle altre, come padre e figlio) e parentela in linea collaterale (se le persone, pur avendo uno stipite comune, non discendono le une dalle altre, come i fratelli);

-          il rapporto di affinità, che lega tra loro il coniuge ed i parenti dell'altro coniuge (così suocero e genero sono affini di primo grado, il marito è affine di secondo grado col fratello di sua moglie e viceversa etc.). Nessun rapporto, invece, lega gli affini di un coniuge con quelli dell'altro coniuge (es.: consuoceri).

 

5. IL REGIME PATRIMONIALE LEGALE E LE CONVENZIONI MATRI­MONIALI

A) Cenni sul regime patrimoniale legale

In seguito alla riforma del diritto di famiglia, che ha equiparato la posizione dei coniugi anche sul piano patrimoniale, il regime legale dei rapporti patrimoniali tra i coniugi, in mancanza di diversa convenzione, è costituito dalla comu­nione dei beni (detta comunione legale), che importa la contitolarità e la coge­stione dei beni acquistati anche separatamente in costanza di matrimonio. La legge, tuttavia, ammette che i coniugi possano, mediante una apposita convenzione, accordarsi per un regime di separazione dei beni, di comunio­ne convenzionale (il cui regolamento sia determinato convenzionalmente in maniera, almeno parzialmente, diversa da quello della comunione legale), ovvero per la costituzione di un fondo patrimoniale, costituito da taluni de­terminati beni sui quali incombe un vincolo di destinazione.

I’autonomia dei coniugi incontra però i seguenti limiti:

-          il divieto di derogare ai diritti e ai doveri previsti dalla legge per effetto del matrimonio (art. 160 c.c.): tale divieto si riferisce specificamente ai doveri patrimoniali previsti dagli artt. 143 c.c. (dovere di contribuire ai bisogni della famiglia), 147 c.c. (dovere di mantenere i figli) e 148 c.c. (dovere di concorrere al mantenimento dei figli in proporzione alle rispettive sostan­ze e secondo la propria capacità di lavoro professionale o casalingo);

-          il divieto di costituzione di dote (art. 166bis c.c.): è nulla ogni convenzione che tenda alla costituzione di beni in dote;

-          l'inderogabilità in caso di modifica della comunione legale, delle norme relative all'amministrazione dei beni della comunione e all'uguaglianza delle quote (cfr. Part. 210 c.c.).

 

B) Le convenzioni matrimoniali

Le parti possono derogare al regime legale di comunione mediante un ne­gozio giuridico, la convenzione matrimoniale, che deve essere stipulata per atto pubblico a pena di nullità (art. 162 1° comma, c.c.). Le convenzioni possono essere stipulate in ogni tempo, anteriormente o successivamente alla celebrazione del matrimonio, e sono in qualsiasi mo­mento modificabili col consenso di tutte le persone che sono state parti nelle convenzioni medesime o dei loro eredi e devono essere annotate a margine dell'atto di matrimonio. La scelta del regime di separazione può anche essere dichiarata nell'atto di celebrazione del matrimonio.

 

6. LA COMUNIONE LEGALE

In mancanza di diversa convenzione, i rapporti patrimoniali tra i coniugi sono disciplinati secondo le regole della comunione legale.

 

A) Oggetto della comunione legale

Costituiscono oggetto della comunione (artt. 177 e 178 c.c.):

a)     gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali;

b)     i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati allo scioglimento della comunione;

c)     i proventi dell'attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non sono stati consumati;

d)     le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio. Qua­lora si tratti di aziende appartenenti ad uno dei coniugi anteriormente al matrimonio ma gestite da entrambi, la comunione concerne solo gli utili e gli incrementi;

e)     i beni destinati all'esercizio dell'impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio, se sussistono al momento dello scioglimento della comu­nione (art. 178 c.c.); f) gli incrementi derivanti dall'esercizio dell'impresa di uno dei coniugi costi­tuita prima del matrimonio, se sussistono al momento dello scioglimento della comunione (art. 178 c.c.).

Non cadono in comunione e sono beni personali di ciascun coniuge (art. 179 c.c.):

a)     i beni acquistati dal coniuge prima del matrimonio;

b)     i beni acquistati successivamente al matrimonio per effetto di donazione o successione, quando nell'atto di liberalità o nel testamento non è specifica­to che essi siano attribuiti alla comunione;

c)     i beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge (gli abiti, l'orologio, etc.) ed i loro accessori;

d)     i beni che servono all'esercizio della professione del coniuge (gli strumenti di lavoro, che possono essere anche beni immobili: si pensi infatti ad uno studio professionale), tranne quelli destinati alla conduzione di un'azienda facente parte della comunione;

e)     i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno, nonché la pensione atti­nente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa;

f)       i beni acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali o col loro scambio.

L'acquisto di beni immobili o mobili registrati effettuato dopo il matrimo­nio è escluso dalla comunione ai sensi delle lettere c), d) ed f), quando tale esclusione risulti dall'atto di acquisto se di esso sia stato parte anche l'altro coniuge.

 

B) L'amministrazione dei beni della comunione

L’amministrazione del patrimonio in comunione spetta ad entrambi i co­niugi, in applicazione del principio di uguaglianza. Occorre però distinguere:

a) gli atti di ordinaria amministrazione possono essere compiuti da ciascu­no dei coniugi disgiuntamente: si tratta di quegli atti di utilizzazione, con­servazione o manutenzione di beni che riguardano i bisogni ordinari della famiglia;

b) la rappresentanza in giudizio per gli atti di cui sopra è riconosciuta di­sgiuntamente a ciascun coniuge: anche uno solo di essi può validamente compiere gli atti processuali;

c) gli atti di straordinaria amministrazione (nonché la stipula dei contratti con i quali si acquistano diritti personali di godimento e la rappresentanza in giudizio per le relative azioni) spettano congiuntamente ad entrambi i coniugi, salva la possibilità, in caso di rifiuto del coniuge a prestare il con­senso, di ottenere dal giudice l'autorizzazione al loro compimento, ove ri­sulti necessario nell'interesse della famiglia o dell'azienda coniugale, o in caso di impedimento.

Gli atti compiuti senza il consenso necessario dell'altro coniuge sono: annullabili, se concer­nono i beni immobili o mobili registrati, ma l'azione di annullamento può essere proposta dal coniuge non consenziente solo entro un anno dalla data di conoscenza; validi, se concernono beni mobili, ma è il coniuge che ha agito senza il consenso dell'altro ad essere tenuto a reintegra­re lo stato della comunione.

 

C) La comunione di fronte ai creditori

La comunione risponde delle obbligazioni elencate all'ars. 186: i creditori possono soddisfar­si sui beni personali dei coniugi, in via sussidiaria, nella misura della metà del credito, se i beni della comunione sono insufficienti; i creditori personali dei coniugi possono soddisfarsi sui beni della comunione solo dopo aver escusso i beni personali, solo fino al valore del coniuge obbligato e solo dopo che siano stati soddisfatti i creditori della comunione.

 

7. SCIOGLIMENTO DELLA COMUNIONE

La comunione legale si scioglie in presenza di una delle seguenti cause:

  • morte di uno dei coniugi;
  • sentenza di divorzio;
  • dichiarazione di assenza o di morte presunta di uno dei coniugi;
  • annullamento del matrimonio;
  • separazione personale;
  • separazione giudiziale dei beni (art. 193), che può essere ottenuta:

a) in caso di interdizione o inabilitazione di uno dei coniugi;

b) in caso di cattiva amministrazione;

c) quando uno dei coniugi non contribuisce ai bisogni della famiglia in misura proporziona­le alle proprie sostanze e capacità di lavoro;

d) quando il disordine degli affari di uno dei coniugi o la condotta da questi tenuta nell'amministrazione dei beni mette in pericolo gli interessi dell'altro o della comunione o della famiglia;

-          mutamento convenzionale del regime patrimoniale: quando, mediante con­venzione i coniugi attuano un regime patrimoniale diverso dalla comunione;

-          pronuncia di fallimento di uno dei coniugi.

L'azienda coniugale può essere sciolta per accordo dei coniugi, da stipula­re con atto pubblico a pena di nullità (art. 191, 2° comma c.c.).

Verificatasi una delle cause anzidette, lo scioglimento produce i seguenti effetti:

-          fa cessare la comunione legale;

-          conduce alla divisione del patrimonio comune.

La divisione dei beni della comunione legale si effettua ripartendo in parti uguali l’attivo e il passivo (artt. 194 e ss. c.c.).

 

 

8. I REGIMI PATRIMONIALI CONVENZIONALI

A) La comunione convenzionale

I coniugi possono, mediante convenzione, modificare il regime della comu­nione legale, dando luogo ad una comunione convenzionale (v art. 210 c.c.). Le convenzioni possono escludere alcuni beni dalla comunione o include­re dei beni che non sarebbero compresi nella comunione legale, purché non si tratti di beni di uso personale o beni che servono per la professione o beni otte­nuti per risarcimento del danno o pensione. Possono, dunque, formare oggetto di comunione, per effetto di un contrat­to tra le parti, i beni acquisiti prima del matrimonio, quelli ricevuti in dona­zione o per successione e quelli acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali. Con la convenzione i coniugi non possono derogare le norme per l’ammini­strazione della comunione, né evitare l'uguaglianza delle quote relativamente ai beni che sarebbero oggetto di comunione legale.

 

B) La separazione dei beni

I coniugi, con espressa convenzione, possono pattuire che ciascuno di essi conservi la titolarità esclusiva dei beni acquistati durante il matrimonio. Ciascun coniuge ha il godimento e l'amministrazione dei beni di cui è tito­lare esclusivo e i redditi derivanti da tali beni, se posseduti in regime di sepa­razione, sono attribuiti esclusivamente al coniuge che ne risulta titolare. La scelta del regime di separazione che viene attuata con una convenzione.

 

C) Il fondo patrimoniale

I coniugi possono conferire dei beni immobili, mobili registrati ovvero dei titoli di credito in un fondo destinato a far fronte ai bisogni della famiglia. Il fondo patrimoniale va costituito con atto pubblico e i beni che ne fanno parte possono essere:

-          di proprietà di entrambi i coniugi;

-          di proprietà in tutto o in parte di uno solo di essi (il coniuge che costituisce il fondo patrimoniale può riservarsene la proprietà ovvero attribuirla vo­lontariamente all'altro coniuge);

-          di proprietà di un terzo nel caso in cui l'atto di costituzione sia stato com­piuto da un terzo che si sia riservata la proprietà dei beni costituenti il fondo.

I frutti del fondo, comunque, devono essere impiegati per i bisogni della famiglia e amministrati secondo le regole della comunione legale (art. 168 c.c.). Dispone, inoltre, l'art. 170 c.c. che l'esecuzione forzata sui beni del fondo e sui frutti di essi non può avere luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia. Per quanto concerne l'alienazione dei beni del fondo l'art. 169 c.c. distingue due ipotesi:

-          se vi sono figli minori: è necessaria l'autorizzazione del tribunale, da accordarsi solo in caso di necessità od utilità evidente;

-          se non vi sono figli minori: l'alienazione è subordinala solo al consenso di entrambi i coniugi, salvo che i beni siano stati già dichiarati alienabili all'atto della costituzione del fondo patri­moniale.

LE SUCCESSIONI PER CAUSA DI MORTE E LE DONAZIONI

 

1. NOZIONE E AMBITO DI APPLICAZIONE

In generale, si ha successione in un rapporto giuridico quando questo, pur restando inalterato nei suoi elementi oggettivi, viene trasmesso da un sogget­to ad un altro. La successione comporta pertanto il subingresso di un soggetto ad un altro nella titolarità di uno o più rapporti giuridici: fermo il rapporto, ne muta il titolare. In particolare, la successione si qualifica mortis causa ‑ cioè a causa di morte ‑ quando trova il suo presupposto essenziale e caratterizzante nella morte di un soggetto, nei cui rapporti si tratta di succedere. Il principio fondamentale è che, con la morte, i diritti patrimoniali di una persona si trasmettono (salvo eccezioni) ad altri soggetti. Costoro possono essere designati o dal titolare del patrimonio (detto de cuius), mediante testa­mento o dalla legge. Il fenomeno successorio non investe tutti i rapporti giuridici del defunto.

Formano oggetto di successione soltanto:

  • i rapporti patrimoniali di natura reale e le relative azioni, tranne quelli per­sonalissimi, come l'usufrutto, l'uso, l'abitazione, che si estinguono con la morte del loro titolare;
  • i rapporti potestativi;
  • i rapporti patrimoniali personali (cioè i diritti di credito), purché non fondati sull'intuitus personae in cui non rilevino, cioè le qualità personali delle par­ti (si estinguono, quindi, con la morie del soggetto il diritto agli alimenti e si sciolgono alcuni contratti: di mandato, di lavoro etc.);
  • i rapporti inerenti all'azienda, di cui il de cuius fosse titolare, i quali non si estinguono se non in casi particolari;
  • i rapporti in formazione, nei casi in cui la proposta nei confronti del de cuius non cade a seguito della sua morte. '

Tutti i rapporti non patrimoniali, sia personalissimi (es.: diritti della perso­nalità), che familiari (matrimonio, potestà parentale) si estinguono con la mor­te del titolare.

 

2. SUCCESSIONE A TITOLO UNIVERSALE E A TITOLO PARTICOLARE: DISTINZIONE FRA EREDITA’ E LEGATO

Si ha successione a titolo universale quando un soggetto (erede) succede indistintamente nell'universalità o in una quota di beni (patrimonio ereditario) da solo o in concorso con altre persone. Si ha, invece, successione a titolo particolare quando un soggetto (legatario) succede in uno o più rapporti determinati, che non vengono considerati come quota dell'intero patrimonio (art. 588 c.c.). L’erede, in quanto successore a titolo universale nei rapporti attivi e passivi del de cuius (in toto, o per quota), subentra al defunto anche nel possesso, fin dall'apertura della successione, con gli stessi caratteri che aveva rispetto al defunto (buona o mala fede, vizi etc.: art. 1146, 1° comma, c.c.). II legatario, invece, non subentra nel possesso; inizia un nuovo possesso al quale può «unire quello del suo autore per goderne gli effetti» (art. 1146, 2° comma, c.c.) (accessione del possesso). L'erede, poiché subentra nell'insieme dei rapporti giuridici del de cuius, risponde dei debiti del defunto anche coi propri beni, salvo che abbia accetta­to con la formula del beneficio d'inventario.

Il legatario, poiché succede in uno o più determinati rapporti attivi, non è tenuto a pagare i debiti ereditari, a meno che il defunto non gli abbia posto a carico espressamente il pagamento di qualche debito (in tal caso, però, il lega­tario non è vincolato al di là dei limiti del valore del legato ricevuto). La successione a titolo universale richiede un atto di volontà del successo­re: occorre, infatti, l'accettazione per l'acquisto dell'eredità (art. 459 c.c.). La successione a titolo particolare, invece, si realizza senza un apposito atto di volontà del destinatario dell'attribuzione, ed opera ipso iure cioè di diritto (salvo la possibilità di rinuncia).

 

3. IL PROCEDIMENTO DI ACQUISTO DELL'EREDITÀ

A) L'apertura della successione (art. 456 c.c.)

L’apertura della successione segna il momento in cui il patrimonio del de­funto rimane privo del titolare.

Essa avviene:

-          al momento della morte del de cuius;

-          nel luogo in cui il defunto aveva l'ultimo domicilio (e non già nel luogo in cui è avvenuta la morte).

La morte (sia accertata nei modi consueti che indiziariamente con la dichiara­zione di morte presunta) costituisce pertanto l'evento fondamentale che dà luogo all'apertura della successione. Essa va intesa sia come momento cronologico al qua­le si riporta la successione, che come fatto giuridico cui la successione si ricollega. Altro presupposto essenziale dell'apertura della successione è la sopravvi­venza del chiamato.

 

B) La vocazione

La vocazione è una fase del fenomeno successorio, più esattamente è il suo fondamento: vocazione è, infatti, la designazione del successibile.

La vocazione può aversi:

a)     per testamento, ossia per atto di volontà del de cuius, il quale dispone delle proprie sostanze per il tempo in cui avrà cessato di vivere (successio­ne testamentaria);

b)     per legge, quando, mancando il testamento, l'eredità è devoluta ai soggetti indicati dalla legge, ossia al coniuge e ai parenti entro il sesto grado (suc­cessione legittima o ab intestato).

È esclusa, pertanto, la validità dei c.d.patti successori, cioè di patti con i quali la persona:

a)     disponga o si vincoli a disporre dei propri beni, in vista della morte, a favore dell'uno o dell'al­tro successibile (patti costitutivi);

b)     disponga o si obblighi a disporre con un successivo negozio di diritti che eventualmente gli possono spettare su una futura successione (palli dispositivi);

c)     rinunzi o si obblighi a rinunziare con un successivo atto a successioni non ancora aperte (patti abdicativi).

 

C) La delazione (art. 457 c.c.)

La delazione è l'attribuzione (offerta), in favore del chiamato, del diritto a succedere, sul fondamento della vocazione. Essa costituisce l'aspetto dinamico della vocazione, normalmente coincidente con essa, tranne casi particolari.

La delazione può essere:

-          successiva (c.d.devoluzione): se per effetto di un'unica chiamata, i due sog­getti sono destinati a succedere l'uno dopo la morte dell'altro; è il fenome­no che si ha nella sostituzione fedecommissaria;

-          solidale: ciascun successore è chiamato per l'intero, in concorso con altri; è il fenomeno che si ha nell'accrescimento;

-          condizionata: se l'istituzione di erede è fatta sotto condizione sospensiva o risolutiva (v art. 633 c.c.); può farsi rientrare in tale ipotesi la delazione nella sostituzione ordinaria; ‑ indiretta: essa si ha nella rappresentazione; infatti il rappresentante acqui­sta la medesima posizione del rappresentato.

 

4. L'ACQUISTO DELL'EREDITÀ

A) Il diritto di accettazione (art. 459 c.c.)

Diritto di accettazione è il diritto del chiamato di acquistare l'eredità: eser­citando tale diritto il semplice chiamato si trasforma in erede.

a) Prescrizione e decadenza del diritto di accettazione (artt. 480 e 481 c.c.)

La prescrizione del diritto di accettazione è quella ordinaria decennale, il cui termine decorre dal giorno dell'apertura della successione (art. 480 c.c.). II termine, in particolare, è stabilito affinché non resti incerta l'appartenenza dei patrimoni. Ad esso si applicano i principi generali sulla sospensione e sull'interruzione. La decadenza dal diritto di accettazione (art. 481 c.c.) ricorre nel caso in cui l'Autorità Giudiziaria, su istanza degli interessati, abbia fissato un termine entro il quale il chiamato avrebbe dovuto accettare o rinunziare. Trascorso tale termine senza alcuna dichiarazione, il chiamato perde il diritto di accet­tare.

 

b) Trasmissione del diritto di accettazione (art. 479 c.c.)

Se il chiamato all'eredità muore senza avere accettato l'eredità, il diritto di accettare si trasmette ai suoi eredi. Ciò, perché il diritto di accettare entra a far parte dell'asse ereditario del de cuius (trasmittente) e si trasmette come uno dei suoi elementi. La differenza fra trasmissione del diritto di accettazione e rappresentazione è nel fatto che: il rappresentante succede direttamente al «de cuius» e nulla rileva che il rappresentante sia indegno o incapace a succedere nei confronti del rap­presentato ovvero abbia rinunziato alla sua eredità; l’rede del trasmittente, invece, succede direttamente al trasmittente (e mediatamente al de cuius), ren­dendosi necessaria, da parte sua, l'accettazione preventiva dell'eredità del tra­smittente.

 

B) L'accettazione

L’accettazione è la dichiarazione di volontà unilaterale del chiamato di­retta all'acquisto dell'eredità. L'art. 459 c.c. dispone che l'effetto dell'accettazione risale al momento in cui si è aperta la successione. L’erede diviene titolare del patrimonio ereditario fin dal momento della morte del de cuius, anche se l'accettazione interviene in un momento successivo. L’accettazione non può essere subordinata a termine o a condizione, non può essere parziale (art. 475 c.c.) ed è irrevocabile.

Quanto alle modalità l'accettazione può essere:

-          pura e semplice: in tal caso produce i seguenti effetti:

-          confusione tra il patrimonio del defunto e quello dell'erede;

-          responsabilità «ultra vires» dell'erede per i debiti ed i legati ereditari (l'erede, cioè, risponde dei debiti e dei legati ereditari anche se essi su­perano il patrimonio ereditario);

-          con beneficio d'inventario.

Quanto alla forma, l'accettazione può essere:

-          espressa: quando, in un atto pubblico o in una scrittura privata, il chiamato dichiara di accettare l'eredità ovvero assume il titolo di erede (art. 475 c.c.);

-          tacita: quando il chiamato all'eredità compie uno o più atti che presuppongono necessariamente la sua volontà di accettare e che egli non avrebbe il diritto di fare se non nella qualità di erede (art. 476 c.c.), sempre che però egli sia capace di agire (es.: l'esercizio dell'azione di riduzione, la domanda giudiziale di divisione dell'eredità etc.);

-          presunta o legale: si ha quando il chiamato pone in essere atri di disposizio­ne che sono considerati, con presunzione assoluta, atti di implicita accetta­zione. Sono tali le c.d.manifestazioni di volontà legalmente determinate come, per esempio, la donazione, vendita o cessione a vantaggio di uno o più coe­redi (art. 478 c.c.). Sono, invece, ipotesi di acquisto senza accettazione quel­le a seguito di possesso dei beni ereditari senza redazione dell'inventario (art. 485 c.c.) e di sottrazione di beni ereditari (art. 527 c.c.). Altro acquisto senza accettazione è quello da parte dello Stato quale ultimo successibile del de cuius.

 

C) L'accettazione con beneficio d'inventario (artt. 484‑511 c.c.)

L'accettazione con beneficio d'inventario ricorre quando l'erede impedi­sce la confusione tra il suo patrimonio e quello del de cuius, per circoscrivere le conseguenze economiche negative di una successione onerosa (cioè, di una successione le cui passività superino le attività) al solo patrimonio del de cuius. In questo caso, infatti, l'erede risponde delle obbligazioni trasmessegli dal de cuius solo nei limiti del valore del patrimonio ereditario. L’accettazione beneficiata è una facoltà per ogni chiamato, nonostante even­tuali divieti del testatore (art. 470 c.c.). L'accettazione beneficiata costituisce, invece, un obbligo indefettibile per alcuni soggetti determinati dalla legge: incapaci assoluti e relativi (artt. 471 e 472 c.c.) e persone giuridiche (art. 473 c.c.).

 

D) Separazione dei beni del defunto da quelli dell'erede

Non soltanto l'erede ha interesse a mantenere distinto il patrimonio del defunto dal proprio. Qualora l'erede sia oberato di debiti, la confusione del patrimonio col suo patrimonio personale rappresenta infatti un evento pre­giudizievole per i creditori del defunto, i quali sono costretti a subire, sui beni ereditari, la concorrenza dei creditori personali dell'erede. Per tutelare le loro ragioni, nonché quelle dei legatari, la legge (artt. 512 ss. c.c.) prevede il rime­dio della separazione del patrimonio del de cuius da quello dell'erede. I soggetti legittimati a chiedere la separazione (c.d.separatisti) sono i creditori del defunto ed i legatari. La separazione ha per effetto l'attribuzione di una ragione di preferenza nel soddisfacimento sui beni ereditari, a favore dei creditori e legatari separatisti, nei confronti dei creditori dell'erede e dei creditori e legatari non separatisti. La separazione giova solo a chi l'ha promossa; il creditore separatista conserva, inoltre, la possibilità di far valere la sua pretesa anche sui beni personali dell'erede.

 

5. LA RINUNCIA ALL'EREDITÀ (artt. 519‑527 c.c.)

La rinunzia all'eredità è un negozio unilaterale tra vivi, non recettizio, con il quale il chiamato dichiara di non voler acquistare l'eredità. È un vero e proprio atto dismissivo che ha per oggetto il diritto di accettare l'eredità. Con quest'atto egli fa cessare gli effetti della delazione verificatasi nei suoi confronti a seguito dell'apertura della successione e rimane, pertanto, com­pletamente estraneo alla stessa, con la conseguenza che nessun creditore po­trà rivolgersi a lui per il pagamento di debiti ereditari, né egli potrà esercitare alcuna azione ereditaria o acquisire alcun bene dell'asse.

Per ciò che concerne caratteri e forma si ricordi che:

-          la rinunzia può farsi validamente solo in un momento successivo all'aper­tura della successione, stante il limite dell'art. 458 c.c. (vedi ante) sul divie­to dei patti successori;

-          la rinunzia è atto solenne e, come tale, deve risultare da una dichiarazione resa dal chiamato (o da un suo rappresentante) ad un notaio o al cancellie­re del Tribunale territorialmente competente ed inserita nel registro delle successioni;

-          la rinunzia è actus legitimus: è, cioè, invalida se fatta sotto condizione o a termine (art. 520 c.c.);

-          la rinunzia non può essere parziale;

-          è negozio limitatamente revocabile.

La rinunzia è revocabile, purché:

-          non sia decorso il termine di prescrizione del diritto (10 anni, ex art. 480 c.c.);

-          non vi sia stata accettazione da parte di altri eredi.

 

6. CONCETTO E IPOTESI DI SUCCESSIONE LEGITTIMA

A) Generalità

L'espressione successione legittima, o intestata, significa successione per volontà di legge e non per effetto di volontà privata espressa mediante testa­mento.

Presupposti sono:

-          morte del de cuzus senza testamento;

-          esistenza di un testamento privo di disposizioni patrimoniali, o nullo, o an­nullato, o revocato;

-          esistenza di un testamento che dispone solo per alcuni dei beni del de cuius: in questo caso, si avrà coesistenza di successione testamentaria e di suc­cessione legittima.

Sono successori legittimi: il coniuge, i discendenti (legittimi, legittimati, adottivi e naturali), gli ascendenti legittimi, i collaterali e gli altri parenti fino al sesto grado (art. 565 c.c.). Se questi successori mancano, l'eredità è devolu­ta allo Stato (art. 586 c.c.).

 

B) Successione dei parenti legittimi (artt. 566‑572 c.c.)

Al padre ed alla madre succedono, innanzitutto, i figli legittimi e naturali in parti uguali (art. 566 c.c.). Ai figli legittimi sono equiparati i legittimati e gli adottivi. La categoria dei discendenti esclude tutti gli altri parenti ad eccezione del coniuge.

Se non vi sono discendenti, succedono i genitori, o gli ascendenti legittimi, o gli adottanti: in tal caso l'ascendente più prossimo esclude i remoti (es.: il genitore esclude il nonno). I genitori o gli ascendenti concorrono con il coniuge superstite e con i fra­telli e sorelle del de cuius, escludendo tutti gli altri collaterali. I fratelli o sorelle unilaterali (consanguinei o uterini) conseguono la metà della quota spettante ai germani (figli dello stesso padre e della stessa madre).

Si ricordi che:

-          consanguinei: sono i fratelli nati dallo stesso padre, ma da madre diversa;

-          uterini: quelli nati solo dalla stessa madre, ma di padre diverso.

Qualora manchino le suddette categorie di successibili, subentrano gli altri parenti fino al sesto grado (il più vicino esclude gli altri).

 

C) Successione del coniuge superstite (artt. 581‑585 c.c.)

Il coniuge, in particolare, può rivestire la qualifica di:

-          erede, acquistando l'intera eredità, quando il defunto non lasci figli, ascen­denti o fratelli;

-          coerede, quando concorre con i figli legittimi, legittimati, adottivi o naturali del de cuius, con gli ascendenti, o con i fratelli del defunto.

Il divorzio fa perdere ai coniugi il reciproco diritto successorio, se la mor­te avviene dopo l'annotazione della relativa sentenza nei registri di stato civi­le. Identici effetti produce la separazione con addebito sempre che la senten­za sia passata in giudicato. La separazione coniugale, quando non è stata addebitata al coniuge su­perstite ex art. 151, 2° comma, c.c., con sentenza passata in giudicato, non importa diminuzioni di diritti successori. Nei casi di divorzio e di .separazione con addebito, al coniuge spetta un assegno vitalizio com­misurato alle sostanze ereditarie ed alla qualità e al numero degli eredi (legittimi), se al momento dell'apertura della successione godeva degli alimenti a carico del coniuge deceduto (l'assegno non può mai essere superiore alla prestazione alimentare goduta) (art. 548 c.c. e L. 1‑8‑1978, n. 435).

 

D) Successione dello Stato (art. 586 c.c.)

Il presupposto di tale successione è la vacanza dell'eredità, cioè l'assenza di un successibile appartenente alle categorie indicate innanzi che possa ac­quistare l'eredità di un defunto cittadino italiano. II fondamento, invece, risiede nell'interesse generale a che vi sia, in ogni caso, un titolare del patrimonio ereditario, il quale provveda all'amministrazione dei beni del de cuius ed al pagamento dei debiti ereditati, continuando così i rapporti patrimoniali che facevano capo al defunto.

Le caratteristiche della successione dello Stato, sono:

-          l’acquisto dello Stato ha luogo di diritto, senza necessità di accettazione per il solo fatto della mancanza di altro successibile e decorre dall'apertura della successione;

-          lo Stato è l'unica figura di erede necessario del diritto successorio italiano e, come tale, non può rinunciare;

-          lo Stato non risponde mai dei debiti ereditari e dei legati oltre il valore dei beni acquistati.

 

7. NOZIONE E CONTENUTO DEL TESTAMENTO

II testamento è l'atto revocabile col quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse (art. 587 c.c.). Il testamento è atto mortis causa, in quanto mira a disciplinare situazioni che sorgono per effetto della morte della persona ed è destinato ad avere effet­ti a causa della morte e dopo la morte.

 

A) Il contenuto «tipico» del testamento

È un contenuto di natura patrimoniale; sotto tale aspetto, il testamento può contenere:

-          sia l'istituzione di uno o più eredi, cioè di soggetti che siano destinatari dei beni, a titolo universale;

-          che l'attribuzione di uno o più legati. Qualora questo sia l'unico contenuto del testamento, è la legge che designa gli eredi legittimi.

 

B) Il contenuto «atipico» del testamento

Il testamento può contenere anche disposizioni di carattere non patrimo­niale (art. 587, 2° comma, c.c.), destinate ad avere efficacia dopo la morte del loro autore. Tali disposizioni, che costituiscono il c.d.contenuto atipico del testamento,

sono efficaci anche se manchino disposizioni patrimoniali. Ad esempio, mediante testamento si può riconoscere un figlio naturale (in tal caso, il riconoscimento resta valido anche se il testamento è stato revocato: art. 256 c.c.), designare il tutore per il proprio figlio che resti orfano (v. art. 348 c.c.), riabilitare un indegno (anche in tal caso la revoca non toglie effetto alla riabilitazione) etc.

 

8. LE FORME DEL TESTAMENTO IN GENERALE

La legge distingue i testamenti in:

testamenti ordinari: che si dividono, a loro volta, in:

-          testamento olografo;

-          testamento per atto di notaio (che può ancora essere pubblico o segreto);

testamenti speciali (artt. 609‑619 c.c.): sono forme particolari di testa­mento pubblico riconosciute solo per determinate situazioni o circostanze eccezionali: testamenti redatti in occasioni di malattie contagiose, calami­tà pubbliche, infortuni; testamenti in navigazione marittima o aerea; testa­menti dei militari o assimilati in tempo di guerra. L'efficacia dei testamenti speciali è limitata nel tempo; essi perdono efficacia dopo tre mesi dal ritorno della situazione normale.

 

A) Il testamento olografo (art. 602 c.c.)

È il testamento redatto, datato e sottoscritto di pugno del testatore: costitui­sce, quindi, la forma più semplice di negozio testamentario. I singoli requisiti formali del testamento olografo sono:

-          autografia: il testamento deve essere interamente scritto a mano dal testa­tore. L’autografia è necessaria per stabilire l'autenticità del documento; è perciò invalido un testamento scritto a macchina o a stampatello, anche se sia sottoscritto;

-          data: l'indicazione del giorno, mese ed anno, in cui il testamento fu scritto. Essa può essere sostituita da forme equipollenti (per es.: Natale 1986) e serve ad accertare la capacità del testatore nel momento della redazione e l'eventuale revoca di disposizioni incompatibili, nel caso di due o più testa­menti stilati dallo stesso soggetto;

-          sottoscrizione: ha, innanzitutto, la funzione di individuare il testatore, ma serve anche ad attestare che la volontà manifestata nello scritto è divenuta definitiva. Essa comprende di regola il nome e il cognome, ma è comunque valida quando individua con certezza la persona del testatore (es.: la firma «il tuo papà» in un testamento redatto in forma di lettera). La sottoscrizio­ne deve essere posta in calce alle disposizioni: eventuali aggiunte non sotto­scritte sono perciò prive di valore.

Se manca l'autografia (perché ad esempio il documento è stato redatto a macchina o con l'intervento anche parziale della scrittura di un terzo) ovvero la sottoscrizione, il testamento è nullo. Se, invece, manca la data (ovvero è incompleta o impossibile) il testamento è annullabile (art. 606 c.c.).

 

B) Il testamento pubblico (art. 603 c.c.)

Il testamento pubblico è un documento redatto con le richieste formalità da un notaio, dopo che il testatore gli ha esposto le sue ultime volontà davanti a due testimoni: esso fa piena prova, fino a querela di falso, delle dichiarazioni del testatore. I requisiti formali del testamento pubblico sono:

  • la dichiarazione di volontà orale al notaio, previo accertamento dell'identità personale del testatore da parte del notaio;
  • la presenza di almeno due testimoni (di regola o, talvolta, quattro);
  • la redazione per iscritto della volontà testamentaria a cura del notaio;
  • la lettura dell'atto al testatore ed ai testimoni ad opera del notaio;
  • la sottoscrizione del testatore, dei testimoni e del notaio;
  • la data, comprensiva anche dell'ora;
  • la menzione dell'osservanza delle formalità enunciate.

 

C) Il testamento segreto (art. 604 c.c.)

Il testamento segreto consiste nella consegna solenne di una scheda con­tenente le disposizioni testamentarie al notaio, che la riceve e la conserva tra i suoi atti. La scheda non deve essere necessariamente autografa (può anche essere scritta da un terzo), ma deve essere sempre sottoscritta dal testatore o, se questi non sa scrivere, deve dichiarare al notaio di aver letto il testamento e di approvarlo e la causa per la quale non ha apposto la firma. Il testatore deve consegnare la scheda, alla presenza di due testimoni, al notaio che, se non sigillata, provvede a sigillarla personalmente e redige o sullo stesso involto che contiene la scheda, o su un altro, appositamente pre­parato l'atto di ricevimento. L'atto di ricevimento deve essere sottoscritto dal testatore, dai testimoni e dal notaio.

 

9. CAPACITÀ DI TESTARE E DI RICEVERE PER TESTAMENTO

A) Capacità ed incapacità di testare (art. 591 c.c.)

Possono disporre per testamento tutti coloro che non sono dichiarati inca­paci di testare. La capacità di testare costituisce perciò la regola, mentre i casi di incapa­cità sono eccezionali.

Sono incapaci di testare:

-          il minore (chi non ha compiuto gli anni 18);

-          l'interdetto (giudiziale) per infermità di mente;

-          colui che al momento della redazione del testamento era incapace di intendere e di volere (c.d.incapace naturale).

In questi tre casi il testamento è annullabile su richiesta di chiunque vi abbia interesse (annullabilità assoluta) e l'onere di fornire la prova dell'incapacità grava su colui che, affermando tale incapacità, impugni il testamento.

 

B) Capacità ed incapacità di ricevere per testamento

La capacità di ricevere per testamento è più ampia della capacità di rice­vere per successione in generale: infatti, possono essere chiamati a succedere per testamento anche i nascituri concepiti, le persone giuridiche, gli enti non riconosciuti.

I casi di incapacità a ricevere sono determinati da ragioni di incompatibi­lità tra la qualità d'istituito e la funzione esercitata nei confronti del testatore o la partecipazione avuta in sede di formazione del testamento. Sono, quindi, nulle le disposizioni testamentarie a favore di:

-          tutore (dell'interdetto o del minore), se le disposizioni sono state fatte pri­ma dell'approvazione del conto della tutela; ‑ notaio e testimoni intervenuti nel testamento pubblico;

-          persona che ha scritto l’altrui testamento segreto e notaio che abbia ricevuto lo stesso in plico non sigillato.

 

10. PUBBLICAZIONE ED ESECUZIONE DEL TESTAMENTO

A) La pubblicazione del testamento

La pubblicazione del testamento ha la funzione di rendere possibile la co­noscenza del contenuto di esso da parte del chiamato alla successione e dei fami­liari del defunto, ed anche da parte dei creditori ereditari e dei creditori dell'ere­de, a tutela dei rispettivi diritti, nonché di renderne possibile l'esecuzione.

a) Forme e procedimento di pubblicazione

La pubblicazione del testamento olografo: il I ° comma dell'art. 620 c.c. impone a chiunque sia in possesso del testamento olografo di un defunto di presentarlo ad un notaio alfine della pubbli­cazione, appena venga a conoscenza della morte del testatore. La pubblicazione del testamento segreto: il testamento segreto deve essere aperto e pubblicato dal notaio, appena gli pervenga notizia della morte del testatore. Tale pubblicazione ha luogo con le medesime modalità relative alla pubblicazione del testamento olografo. Il testamento pubblico, a differenza degli altri, ha sempre valore di atto pubblico; non è, quin­di, prevista per esso una pubblicazione in senso tecnico.

 

b) Comunicazione dei testamenti al Tribunale

Il notaio deve trasmettere alla cancelleria del Tribunale, nella cui giurisdizione si è aperta la successione, copia in carta libera dei verbali di pubblicazione del testamento olografo o segreto, nonché copia del testamento pubblico, qualora di questo tipo di testamento si tratti. Tale comunicazione rafforza la pubblicità che viene data al testamento, in quanto qualsiasi soggetto, anche se ignora quale notaio abbia proceduto alla pubblicazione, recandosi presso il Tribunale del luogo in cui è morta la persona della cui eredità egli si interessa, può prendere visione del suo testamento.

 

c) Comunicazione agli eredi e legatari

Il notaio che ha ricevuto un testamento pubblico, appena gli è nota la morte del testatore, o ‑nel caso di testamento olografo o segreto ‑ dopo la pubblicazione, comunica l'esistenza del testamento agli eredi o legatari di cui conosce il domicilio o la residenza.

 

d) Iscrizione nel registro generale dei testamenti

La legge 25‑5‑1981, n. 307 all'art. 5 obbliga il notaio a trasmettere all'Archivio Notarile, entro 10 giorni dalla redazione del verbale di pubblicazione, le informazioni necessarie per l'iscrizione nel R.G.T

 

B) Esecuzione del testamento

Consiste nell'attuazione della volontà testamentaria. II compito di eseguire le disposizioni di ultima volontà del de cuius è riser­vato normalmente all'erede. La legge, però, consente al testatore di nominare un esecutore testamenta­rio (art. 700 c.c.), il quale, in tal caso, prende il posto dell'erede nel curare l'esecuzione di tutte le clausole del testamento. Può avvenire, infatti, che il testatore abbia particolari ragioni di sfiducia nei confronti dell'erede istituito soprattutto quando l'interesse di quest'ultimo potrebbe essere in contrasto con alcune disposizioni a titolo particolare. L’esecutore nominato dal testatore può anche non accettare il suo ufficio. La dichiarazione di accettazione non può essere sottoposta a condizione o a termine (art. 702 c.c.). La durata dell'esecutore nell'ufficio è a tempo indeterminato; l'ufficio è gratuito, tuttavia il testatore può stabilire una retribuzione a carico dell'eredi­tà.

I compiti dell'esecutore sono diversi:

-          deve amministrare la massa ereditaria (art. 703 c.c.), prendendo possesso dei beni che ne fanno parte (tranne che il testatore non abbia espresso una contraria volontà);

-          ha la rappresentanza processuale, attiva e passiva, nelle azioni relative all'eredità (art. 704 c.c.);

-          ha l’obbligo di far apporre i sigilli e di far redigere l'inventario dei beni ereditari con particolari cautele quando tra i chiamati all'eredità vi sono minori, assenti, interdetti o persone giuridiche (art. 705 c.c.);

-          deve rendere conto della sua gestione al termine di essa, o, se questa si prolunga oltre l'anno dalla morte del testatore, anche dopo un anno da questo evento, fermo restando l'obbligo del rendiconto finale (art. 709 c.c.).

 

11. LA SUCCESSIONE DEI LEGITTIMARI

La successione dei legittimari è quella in favore di alcune categorie di suc­cessibili, ai quali la legge attribuisce il diritto intangibile ad una quota del pa­trimonio indipendentemente dalle disposizioni del testatore. La successione dei legittimari è una specie di chiamata legale all'eredità, che opera non in via suppletiva ma in via correttiva di disposizioni testamenta­rie (e più in generale di attribuzioni a titolo gratuito) subordinatamente alla iniziativa del legittimario leso nei suoi diritti successori. Le norme sulla successione dei legittimari sono norme di ordine pubblico, quindi cogenti ed inderogabili.

Esse, infatti, per assicurare la quota di loro spettanza (c.d.legittima o quota di riserva) ai legittimari, limitano il diritto di disporre del testatore, correggendo o neutralizzando l'effetto delle disposizioni testamentarie e delle donazioni fatte in vita; si tratta di norme eccezionali e quindi di stretta interpretazione.

Sono legittimari:

-          il coniuge superstite;

-          i figli legittimi (compresi i legittimati e gli adottivi) ed i loro discendenti (in quanto succedono per appresentazione);

-          i figli naturali (o i loro discendenti);

-          gli ascendenti legittimi.

 

12. L'AZIONE DI RIDUZIONE

A) Nozione, effetti e soggetti

L’azione di riduzione è l'azione che ha per scopo la reintegrazione della legittima, mediante la riduzione delle disposizioni testamentarie e delle donazio­ni eccedenti la quota di cui il testatore poteva disporre.

Soggetti legittimati all'azione di riduzione, sono:

-          il legittimario leso;

-          il legittimario pretermesso dal testatore: l'acquisto della qualità di erede è appunto subordinata all'esercizio vittorioso della azione di riduzione;

-          l'erede del legittimario (se il legittimario muore prima di avere accettato l'eredità o vi rinunzia: ossia per trasmissione o per rappresentazione);

-          l'avente causa del legittimario: ad es. il compratore dell'eredità o cessionario di essa.

Se la domanda di riduzione è accolta, si procede in tal modo:

-          innanzitutto si riducono le disposizioni testamentarie proporzionalmente (tranne diversa volontà del testatore);

-          successivamente si riducono le donazioni, cominciando dall'ultima che ha provocato la lesione e risalendo a quelle precedenti.

L’azione è soggetta alla prescrizione ordinaria decennale, decorrente dal­l'apertura della successione. Dopo l'apertura della successione il legittimario può rinunziare all'azione di riduzione e l'atto è irrevocabile.

 

B) L'azione di restituzione

L'azione di riduzione non ha natura recuperatoria; l'effetto reale è, invece, collegato all'azione di restituzione. Il legittimario, che ‑ mediante l'azione di riduzione ‑ abbia fatto dichia­rare inefficace la disposizione lesiva, può ottenere quindi la restituzione del­l'immobile oggetto di tale disposizione (art. 561 c.c.) e lo riceve libero da ogni peso o ipoteca.

Sono tenuti alla restituzione anche eventuali terzi acquirenti dell'immobi­le a titolo oneroso.Se oggetto delle disposizioni lesive sono beni mobili, si reputano salvi gli acquisti fatti in buona fede dal terzo possessore.

 

13. LA SUCCESSIONE A TITOLO PARTICOLARE: IL LEGATO

A) Nozioni e distinzioni

Il legato è una disposizione mortis causa a titolo particolare, in base alla quale un soggetto, legatario, succede in uno o più rapporti determinati, che non vengono considerati come quota dell'intero patrimonio. Si ricordi, inoltre, che si ha sublegato quando il soggetto che è tenuto alla prestazione oggetto del legato è, anziché l'erede, un altro legatario.

È, invece, prelegato il legato del quale beneficiario sia uno dei coeredi. Co­stui, pertanto, cumula (a carico di tutta l'eredità) le due qualità di coerede e di legatario. Eart. 661 c.c. dispone che il prelegato è considerato legato per l'inte­ro ammontare, che grava su tutta l'eredità, e cioè anche sulla quota dello stes­so legatario quale erede.

 

B) L'acquisto del legato

L’acquisto del legato ha luogo di diritto, senza che occorra accettazione (art. 649 c.c.): pertanto, a differenza che nell'acquisto dell'eredità, delazione ed acquisto del diritto coincidono logicamente e cronologicamente.

 

C) La rinunzia al legato

La rinunzia al legato è un atto abdicativo: infatti, opera rispetto ad un diritto già acquistato e porta, quindi, non ad un mancato acquisto, ma alla perdita di un acquisto già fatto. La rinunzia al legato non tollera l'apposizione né di termini né di condizio­ni (art. 520 c.c.).

 

14. COMUNIONE E DIVISIONE DELL'EREDITA

A) La comunione ereditaria

Si ha comunione ereditaria quando al de cuius succedono più eredi, i quali diventano comproprietari dei beni che fanno parte dell'eredità. Alla comunione ereditaria sono applicabili i principi sanciti in tema di co­munione ordinaria.

Ogni coerede può cedere la propria quota, ma, comunque, deve notificare la pro­posta di alienazione ed il prezzo agli altri coeredi, i quali hanno il diritto, se a loro conviene, di essere preferiti a parità di prezzo (art. 732 c.c.) (c.d.diritto di prelazione). Se il coerede cede la propria quota a terzi e non compie la preventiva noti­ficazione ai coeredi, questi hanno il diritto di riscattare dall'acquirente la quota alienata (c.d.retratto successorio).

 

B) La divisione (artt. 713‑768 c.c.)

La comunione ereditaria cessa con la divisione. In seguito alla divisione il diritto che ha ogni coerede su tutto il patrimonio ereditario in ragione di una quota aritmetica, si converte in diritto esclusivo su beni determinati. La divisione cui non partecipano tutti i coeredi è nulla.

Abbiamo i seguenti tipi di divisione:

-          divisione amichevole o contrattuale, che ha luogo, nell'esercizio del potere di autonomia privata, con le modalità stabilite dagli stessi coeredi, sulla base dell'unanimità dei consensi;

-          la divisione giudiziale (artt. 713 ss. c.c.), che è quella deliberata ed attuata dall'autorità giudiziaria quando, mancando l'unanimità dei consensi, i coe­redi (o un coerede) abbiano promosso l'azione di divisione ereditaria;

-          la divisione testamentaria (art. 734 c.c.), che è quella operata personalmen­te e direttamente dal testatore. Tale divisione può comprendere anche la quota legittima, ma il testatore deve comunque rispettare i diritti dei legittimari. La divisione testamentaria è nulla quando il testatore nell'effettuar­la abbia omesso qualcuno dei legittimari o degli eredi istituiti.

 

C) Rimedi contro la divisione

La divisione contrattuale può essere impugnata per nullità. Il contratto di divisione può essere annullato per violenza o dolo, ad istanza di ciascuno dei coeredi; è esclusa, invece, l'azione di annullamento per errore (art. 761 c.c.). Se per errore sono stati omessi dei beni, vi è un apposito rimedio: il supplemento di divisione (art. 762 c.c.): se, invece, vi è stato errore nella stima dei beni, è prevista una particolare impugnazione: la rescissione per lesione (art. 763 c.c.).

 

D) La divisione dei debiti e pesi ereditari (artt. 752‑756 c.c.)

a) Divisibilità dei debiti ereditari

Al riguardo si deve distinguere:

-          nei rapporti interni, cioè tra coeredi, vige il principio per cui i debiti eredita­ri si dividono fra di loro in proporzione della rispettiva quota ereditaria; è fatta salva, però, una diversa volontà del testatore che potrebbe addossare il pagamento dei debiti ad un solo coerede o ripartire l'onere dei debiti non proporzionalmente;

-          nei rapporti esterni, cioè nei confronti dei creditori, opera in assoluto il prin­cipio della divisibilità: anche quando il testatore abbia previsto una re­sponsabilità non proporzionale tra i coeredi, il creditore può chiamare in giudizio ogni coerede in proporzione alla sua quota.

b) Eccezionali ipotesi di indivisibilità dei debiti ereditari

Ricorrono quando:

-          uno dei coeredi possegga il singolo bene oggetto del debito (art. 1315 c.c.);

-          l'oggetto del debito sia indivisibile (art. 1316 c.c.);

-          il debito sia garantito da ipoteca gravante su un bene ereditario; in tal caso sarà tenuto al pagamento quel coerede cui è toccato il bene gravato da ipo­teca, salva l'azione di rivalsa.

 

c) La divisibilità dei pesi ereditari

Si definiscono pesi ereditari gli oneri che sorgono come effetto necessario dell'apertura della successione (imposta di successione; spese giudiziali di in­ventario e di divisione; spese funerarie etc.) ed i legati.

 

15. LA COLLAZIONE (artt. 737‑751 c.c.)

A) Nozione e funzione

La collazione è l'atto con il quale i figli o i discendenti legittimi, legittima­ti, adottivi e naturali, ed il coniuge del de cuius, che concorrono alla succes­sione, devono conferire alla massa attiva del patrimonio ereditario tutti i beni che sono stati loro donati in vita dal defunto, in modo da dividerli con gli altri coeredi in proporzione delle rispettive quote.

La collazione, dunque, svolge la funzione di mantenere tra alcuni coeredi del de cuius quella proporzionalità di quote che è stabilita nel testamento o nella legge. La collazione opera a favore solo degli stessi soggetti che vi sono tenuti, non a favore di eredi estranei. Essa può essere effettuata mediante il materiale conferimento alla massa ereditaria del bne avuto in donazione, oppure addebitando alla propria quota il valore del bene ricevuto in donazione.

 

B) Oggetto

Oggetto della collazione sono le donazioni dirette ed indirette. Non sono soggette a collazione, tuttavia:

-          le spese di mantenimento, educazione, malattia;

-          le spese ordinarie per abbigliamento, nozze, istruzione artistica o professionale;

-          le liberalità fatte in occasione di servizi resi o in conformità agli usi;

-          le cose donate, perite per causa non imputabile al donatario; ‑ le donazioni di modico valore fatte al coniuge (art. 738 c.c.).

 

16. LA DONAZIONE

L’art. 769 c.c. definisce la donazione come un contratto, col quale una parte (donante), per spirito di liberalità, arricchisce l’altra (donatario), senza ricavarne un corrispettivo. La donazione è caratterizzata da:

-          spirito di liberalità del donante: esso consiste nella coscienza di compiere un atto che arricchisce gratuitamente il donatario senza esservi tenuto, nemmeno in adempimento di un dovere morale o sociale;

-          arricchimento del donatario (cioè l'incremento del suo patrimonio) che può realizzarsi sia disponendo a suo favore un diritto (donazione reale) che as­sumendo verso di lui un'obbligazione (donazione obbligatoria).

Si ricordi che, proprio in considerazione di tale arricchimento, il donatario ha sempre l'obbli­go di fornire gli alimenti al donante che in seguito venga ad averne bisogno, purché non si tratti di donazione rimuneratoria o di donazione obnuziale (fatta, cioè, in vista del futuro matrimonio). Il donatario, però, non è tenuto oltre il valore della donazione tuttora esistente nel suo patri­monio (artt. 437 e 438 c.c.).

 

17. IL CONTRATTO DI DONAZIONE

A) Capacità

Quanto alla capacità, distinguiamo:

capacità di donare:

-          per le persone fisiche si richiede la piena capacità di disporre. La dona­zione è atto personale che non consente rappresentanza: è ammessa solo la procura speciale con espressa indicazione del donatario e dell'og­getto della donazione (art. 778 c.c.);

-          per le persone giuridiche, vi è capacità se è ammessa dal loro statuto o dall'atto costitutivo;

capacità di ricevere:

-          per le persone fisiche non vi sono limiti particolari (si ricordi che può farsi donazione anche in favore di un nascituro, sia pure non concepito, purché figlio di una determinata persona vivente al tempo della dona­zione: artt. 784 e 321 c.c.);

-          per le persone giuridiche, si ricordi che l'accettazione non è più subordi­nata all'autorizzazione governativa (a seguito dell'abrogazione dell'art. 17 c.c. effettuata dall'art. 13, L. 12711997). Per gli enti non riconosciuti si ricordi che la loro accettazione non è più subordinata alla richiesta di riconoscimento.

 

B) Oggetto e forma della donazione

Oggetto della donazione può essere qualunque bene che si trovi nel patri­monio del donante: non può essere un bene altrui, né un bene futuro (v art. 771 c.c.). La donazione deve essere fatta per atto pubblico, con la presenza di testi­moni a pena di nullità (art. 782 c.c.), qualunque sia l'oggetto (mobile o immo­bile) della liberalità. Se, però, ha per oggetto cose mobili di modico valore (da valutare anche in rapporto alle condizioni economiche del donante), l'atto pubblico non è ne­cessario, ma occorre l'effettiva consegna della cosa (art. 783 c.c.).

 

C) L'invalidità del contratto di donazione

La disciplina dell'invalidità diverge da quella stabilita per gli atti tra vivi e si avvicina a quella del testamento:

-          l'onere illecito o impossibile rende nulla la donazione se ne ha costituito il motivo determinante;

-          l'errore sul motivo della donazione è causa di annullabilità, se il motivo risulta dall'atto e sia il solo che ha determinato il donante a compiere la liberalità (art. 787 c.c.);

-          l'illiceità del motivo rende nulla la donazione quando il motivo è stato determinante (a compiere la liberalità) e risulta dall'atto (art. 788 c.c.);

-          la donazione nulla è convalidabile mediante conferma espressa o esecuzione volontaria, dopo la morte del donante (art. 799 c.c.).

 

 

18. LA REVOCA E LA RIVERSIBILITA DELLA DONAZIONE (artt. 800-­809 c.c.)

La legge prevede che la donazione possa revocarsi in presenza di due gravi ragioni:

-          ingratitudine del donatario (art. 801 c.c.);

-          sopravvenienza dei figli (art. 803 c.c.).

La revoca è, quindi, giustificata da motivi di ordine etico‑sociale.

Essa rappresenta l'esercizio del diritto potestativo di togliere efficacia alla donazione, che si attua con domanda giudiziale.

La sentenza che pronuncia la revoca condanna il donatario alla restituzione dei beni; non pregiudica, però, i terzi che hanno acquistato diritti anterior­mente alla domanda di revoca, salvi gli effetti della trascrizione. Se il donatario ha alienato i beni, deve restituirne il valore con riguardo al tempo della domanda. Si ricordi, infine, che la revoca per ingratitudine può essere chiesta entro un anno dal fatto (ingrato) o dalla notizia di esso; mentre la revoca per sopravvenienza di figli può essere chiesta entro cinque anni dalla nascita dell'ultimo figlio. Per ciò che riguarda, invece, la riversibilità, essa consiste nella possibilità da parte del donante di stabilire nell'atto di donazione che, qualora il donata­rio muoia prima di lui, i beni donati tornino a far parte del suo patrimonio. Il patto di riversibilità risolve tutte le alienazioni dei beni donati, che ritor­nano al donante liberi da ogni limitazione o peso.

 

 

 

I TRIBUTI NEL SETTORE IMMOBILIARE

1. L'IMPOSTA DI REGISTRO

A) Evoluzione storica e natura giuridica

L'imposta di registro ha origini molto antiche, essa nasce dall'esigenza sor­ta da parte dello Stato di attribuire data certa agli atti sottoposti a registrazio­ne per assicurare la più totale intangibilità degli stessi. Originariamente, dunque, veniva considerata come una tassa corrisposta ogni qual volta l'atto presentato per la registrazione veniva annotato in un registro cronologico. Con l'andar del tempo si sono attenuati i motivi cosiddetti sociali del tribu­to, che è venuto ad acquisire, via via, natura di imposta, mentre è mutata l'originaria natura giuridica. Se infatti, formalmente rientra tra le imposte, so­stanzialmente ha una natura promiscua. In alcuni casi, infatti, l'imposta di registro è applicata in misura proporzionale al valore dell'atto registrato (con­figurandosi come un'imposta), mentre in altri casi si applica in misura fissa (e, pertanto, si configura come una tassa). La struttura del tributo quale risultò sin dalla riforma, attuata nel 1972 col D.P.R. 634, e quale emerge dalla disciplina del vigente Testo Unico 26 aprile 1986, n. 131 prevede una duplice serie di obblighi:

a)    sottoporre alla formalità di registrazione gli atti scritti di qualsiasi natura (negoziale, amministrativa, giudiziaria), produttivi di effetti giuridici, non­ché alcuni atti stipulati verbalmente che vanno sottoposti a registrazione nei casi e con criteri determinati dalla legge;

b)    pagare il tributo liquidato dall'ufficio.

Sarà comunque l'ufficio locale dell'Agenzia delle Entrate o l'ufficio del re­gistro a provvedere alla registrazione di tali atti ed alla riscossione dell'impo­sta dovuta.

 

B) Presupposto dell'imposta

L'imposta di registro è un'imposta reale indiretta sugli affari. Essa colpisce con aliquote, in prevalenza proporzionali, la capacità contributiva che si de­duce da atti di scambio della ricchezza, nonché da atti giuridici negoziali di vario genere, in occasione della loro registrazione che può essere obbligatoria o volontaria.

La registrazione può essere:

a) a termine fisso se è stabilito un termine dalla formazione dell'atto entro cui si è obbligati a chiedere la registrazione. Tale termine é di 20 giorni per gli atti formati in Italia e di 60 giorni per gli atti formati alt éstero e di 30 giorni per gli atti soggetti a registrazione telematica (atti relativi a diritti sugli imponibili o autenticati da pubblici ufficiali) nonché per i contratti di loca­zione e atto di beni immobili).

Per gli atti degli organi giurisdizionali il termine è di 5 giorni da quello della pubblicazione o emanazione.

Una novità è stata introdotta, dalla L. 448/1998 per i contratti di affitto di fondi rustici non formati per atto pubblico o scrittura privata autenticata. Per questi, infatti, l'obbligo della registrazione può essere assolto presentando all'ufficio del registro, entro il mese di febbraio, una denuncia relativa ai contratti in essere nell'anno precedente.

Sono soggetti ad essa:

  • tutti gli atti scritti ‑ indicati nella tariffa allegato sub A al D.P.R. 131/1986 ‑ compiuti nel territorio dello Stato;
  • i contratti verbali di locazione e affitto di beni immobili, di trasferimento o affitto di azienda e di costituzione o trasferimento di diritti reali o di godimento su azienda;
  • le operazioni di società ed enti esteri diretti a trasferire o istituire la sede legale o amministrativa o sedi secondarie o l'oggetto principale nel territorio dello Stato oppure comportanti aumento di capitale destinati alle sedi esistenti nello Stato;
  • gli atti formati all'estero aventi ad oggetto il trasferimento di diritti reali sui beni immo­bili o aziende esistenti nello Stato (ovvero la locazione e l'affitto di tali beni);

b) in caso d'uso se l'atto deve essere registrato quando viene depositato, per essere poi acquisito presso le cancellerie giudiziarie, o presso le pub­bliche amministrazioni. Tuttavia se l'atto ha la forma di scrittura privata autenticata o atto pubblico, la registrazione va fatta in termine fisso an­che se l'oggetto dell'atto rientrerebbe tra le ipotesi di registrazione in caso d'uso. Sono soggetti a tale registrazione gli atti indicati nella parte 2' della tariffa allegata al Testo Unico, fra gli altri:

-          i contratti di locazione di beni immobili se non formati per atto pubblico o scrittura privata autenticata di durata non superiore a trenta giorni complessivi nell'anno;

-          i contratti di lavoro autonomo;

-          le scritture private non autenticate se contengono disposizioni relative ad operazioni sottoposte ad IVA etc.;

In attuazione di direttive Comunitarie e per evitare la doppia imposizione la legge ha sancito il principio dell'alternatività dell'applicazione dell'imposta di registro rispetto all'IVA; gli atti soggetti ad NA vanno pertanto registrati solo in caso d'uso e scontano l'imposta di registro in misura fissa (art. 40, D.P.R. 131/1986).

c) volontaria. Gli atti per i quali non si è obbligati alla registrazione, possono essere ugualmente registrati dal soggetto. Per questi atti l'imposta di regi­stro è determinata in misura fissa.

 

C) Soggetti passivi

Soggetti passivi dell'imposta sono coloro che pongono in essere o che si av­vantaggiano dell'atto soggetto a registrazione. Costoro, peraltro, sono i veri e propri debitori d'imposta, ma altri soggetti possono avere una serie di obblighi sia per la richiesta della registrazione che per il pagamento dell'imposta, come responsabili solidali con l'obbligato prin­cipale. Occorre dunque distinguere i soggetti obbligati a chiedere la registrazione ed i soggetti tenuti al pagamento del tributo.

Obbligati a chiedere la registrazione sono:

a)     per gli atti compiuti con l'assistenza di un pubblico ufficiale (notaio, segretario comunale etc.): il pubblico ufficiale;

b)     per gli alti compiuti senza tale assistenza o alt estero e per le scritture private autenticate: le parti;

c)     per le sentenze, i decreti e gli atti giurisdizionali: i cancellieri e i segretari;

d)     per gli atti da registrarsi d'ufficio: gli impiegati dell'Amministrazione finanziaria e gli apparte­nenti al corpo della Guardia di Finanza;

e)     per le operazioni di società o enti esteri: i loro rappresentanti o responsabili.

Tenuti ai pagamento del tributo sono:

a)     le parti solidalmente e chi si serve dell’atto per richiedere un provvedimento all'autorità giudi­ziaria;

b)     solidalmente con le parli, ma relativamente al pagamento dell'imposta principale (cioè quella dovuta al momento della registrazione) i pubblici ufficiali che hanno redatto l'atto ed i sog­getti nel cui interesse fu richiesta la registrazione;

c)     chi ha richiesto la registrazione per gli alti registrati in caso di uso, o volontariamente;

d)     nei contratti in cui è parte lo Stato, obbligata al pagamento dell'imposta è unicamente l'altra parte contraente; e) negli atti di espropriazione o di trasferimento coattivo, l'ente espropriante o acquirente (che non sia lo Stato).

 

D) Atti a titolo oneroso e gratuito e disposizioni relative a beni soggetti ad aliquote diverse

A seguito dell'abrogazione dell'imposta sulle donazioni, ad opera della L. 383/2001, è opportuno soffermarsi sulle nuove modalità di tassazione degli atti che contengono disposizioni e a carattere oneroso e a titolo gratuito. Per i primi si applicherà, infatti, semplicemente l'imposta di registro mentre per i secondi è necessario fare una distinzione:

o        se le disposizioni a titolo gratuito riguardano donazioni di beni e diritti a favore di soggetti diversi dal coniuge, dai parenti in linea retta e dagli altri parenti fino al quarto grado, laddove la quota spettante ad ognuno superi i 180.759,91 euro si applica l'imposta di registro);

o        se, invece, le disposizioni riguardano le donazioni a favore del coniuge, dei parenti in linea retta e dei parenti fino al quarto grado, non si applica alcu­na imposta.

Se invece nell'atto è inserita una disposizione onerosa di beni o diritti per i quali sono previste aliquote diverse, si applica l’aliquota più elevata, a meno che non sia stabilito un distinto corrispettivo per ogni singolo bene o diritto (art. 23, 1° comma, D.P.R. 131/1986).

 

E) Base imponibile

La base imponibile è il corrispettivo dichiarato nell'atto ovvero il valore venale dei beni o dei diritti che costituiscono l'oggetto dell’atto registrato.

In particolare la base imponibile è costituita:

  • per i contratti onerosi traslativi o costitutivi di diritti reali dal valore del bene del diritto alla data dell'atto;
  • per le permute, dal valore del bene che dà luogo all'applicazione della maggiore imposta;
  • per gli atti di donazione di beni e diritti ‑ nei confronti di soggetti diversi dal coniuge, da parenti in linea retta e dagli altri parenti fino al 4° grado (vedi supra lettera D) ‑ dal valore del bene o del diritto donato alla data dell'atto;
  • per gli atti che comportano l’assunzione di una obbligazione di fare in corrispettivo della cessione di un bene, dal valore del bene ceduto;
  • per gli atti che comportino l’assunzione di un'obbligazione che non costitui­sce corrispettivo di altra prestazione o portanti estinzione di una precedente obbligazione, dall'ammontare dell'obbligazione assunta o estinta;
  • per gli atti costitutivi di garanzie, dalla somma garantita;
  • per le cessioni di contratto, dall'ammontare delle prestazioni da eseguire e del corrispettivo di cessione;
  • per i contratti di associazione in partecipazione, dal valore dei beni apportati dall'associato;
  • per i contratti relativi sia ad operazioni soggette sia ad operazioni non sogget­te all'IVA, dal valore delle cessioni e delle prestazioni non soggette a tale imposta;
  • per tutti gli altri contratti, dall'ammontare dei corrispettivi pattuiti per l'intera durata del contratto.

In merito al valore venale l'art. 51 del Testo Unico ne fissa i criteri di deter­minazione. Innanzitutto si assume come valore venale quello dichiarato dalle parti; in mancanza o se superiore, il valore venale sarà dato dai corrispettivi pattuiti.

Nel caso in cui non si potesse far ricorso a nessuno di questi due criteri di valutazione, sarà l'ufficio a determinare il valore venale. Per quanto concerne gli immobili e le aziende, l'Ufficio del Registro, qualo­ra ritenga che il valore venale dei beni o diritti sia superiore a quello dichiarato provvede alla rettifica mediante notificazione di avviso entro due anni dal paga­mento dell'imposta principale. L’ufficio, ai sensi dell'art. 52 del Testo Unico, non procede alla rettifica se il valore degli immobili è stato dichiarato in misura non inferiore a 75 volte il reddito dominicale risultante in catasto per i terreni, a 100 volte il reddito risultante in catasto per i fabbricati rientranti nelle categorie A, B e C (esclusi A/10 e C/1), a 50 volte il reddito catastale per i fabbricati di cate­goria A/10 e D, a 34 volte il reddito catastale per i fabbricati rientranti nei gruppi C/1] ed E. Peraltro ai sensi dell'art. 3, 51° comma, L. 662/1996 per gli atti da registrare dal 1° gennaio 1997 e fino alla data di entrata in vigore delle nuove tariffe d'estimo i redditi dominicali‑ai fini dell'imposta di registro ‑vengono rivalutati del 25%. Anche per i fabbricati la legge di accompagnamento alla finanziaria 1997 ha introdotto novità: infatti, l'art. 3, 48° comma, L. 662/92 ha disposto che dal 1‑1‑1997 e fino alla data di entrata in vigore delle nuove tariffe d'estimo, il valore catastale degli immobili urbani sia riva­lutato del 5%. Il criterio sopra indicato è stato esteso anche ai trasferimenti di fabbri­cati o della sola nuda proprietà, ed ai trasferimenti e alle costituzioni di diritti reali di godimento su detti beni, dichiarati per l'accatastamento ai sensi dell'art. 56 del regolamento per la formazione del nuovo catasto edi­lizio urbano (D.P.R.  142/1949), ma non ancora censiti in catasto con pro­pria rendita.

 

F) Aliquote

La legge prevede due tipi d'imposta di registro:

  • una imposta proporzionale che varia a seconda della natura dell'atto;
  • una imposta fissa.

Mentre nel primo caso l'imposta colpisce gli atti in relazione al loro contenuto giuridico ed economico, nel secondo, il tributo funziona ‑ conformemente alle sue origini storiche ‑ quasi come corrispettivo della prestazione pubblica della conservazione nel registro. La tariffa allegata al D.PR. 131/1986 contiene nelle parti 1° e 2a l’elencazione degli atti assoggettati a tassa fissa e di quelli assoggettati ad aliquota proporzio­nale. Sia l'imposta fissa ‑ attualmente l'imposta fissa è stata individuata nella misura minima di 129,11 euro ‑che quella proporzionale, variano secondo la natura e il contenuto degli alti cui si riferiscono. Basti considerare, ad esempio, i trasferimenti di immobili, che hanno trovato sistematica ed organica collocazione nell'art. 1, parte 1 della Tariffa: l'aliquota varia dal 7% per i fabbricati, al 3% per le cessioni di beni di interesse storico, artistico, archeologico soggetti alla legge 1089/1939, al 15% per i terreni agricoli e relative pertinenze, alla misura fissa di 129,11 euro per i trasferimenti a favore dello Stato e di enti pubblici. La L. 449/1997, nell'estendere l'obbligo di registrazione a tutti i contratti di locazione e affitto con canone annuo fino a 1.291,14 euro (ad eccezione dei contratti verbali o redatti con scrittura privata autenticata di durata non su­periore a 30 giorni complessivi nell'anno), ha stabilito che l'imposta non può essere inferiore a 51,65 euro.

F.1) I casi più ricorrenti nell'applicazione dell'Imposta di registro

1) Acquisto di prima casa, con caratteristiche non di lusso (incluse le abitazioni rurali) da parte di un soggetto privato con agevolazioni

Venditore

Privato

I. di registro

I. Ipotecaria

I. Catastale

IVA

Invim

3%

euro 129,11

euro 129,11

-

soppressa

 

Venditore

Costruttore

I. di registro

I. Ipotecaria

I. Catastale

IVA

Invim

euro 129,11 

euro 129,11

euro 129,11

4%

soppressa

 

 

Venditore

Impresa non costruttrice

I. di registro

I. Ipotecaria

I. Catastale

IVA

Invim

3%

euro 129,11

euro 129,11

-

soppressa

 

 

2) Acquisto di casa di abitazione (non prima casa), con caratteristiche non di lusso (incluse le abitazioni rurali) da parte di un soggetto pri­vato senza agevolazioni

 

Venditore

Privato

I. di registro

I. Ipotecaria

I. Catastale

IVA

Invim

7%

2%

1%

-

soppressa

 

Venditore

Costruttore

I. di registro

I. Ipotecaria

I. Catastale

IVA

Invim

euro 129,11 

euro 129,11

euro 129,11

10%

soppressa

 

 

Venditore

Impresa non costruttrice

I. di registro

I. Ipotecaria

I. Catastale

IVA

Invim

7%

2%

1%

-

soppressa

 

3) Acquisto di casa di abitazione con caratteristiche di lusso da parte di un soggetto privato

 

Venditore

Privato

I. di registro

I. Ipotecaria

I. Catastale

IVA

Invim

7%

2%

1%

-

soppressa

 

Venditore

Costruttore

I. di registro

I. Ipotecaria

I. Catastale

IVA

Invim

euro 129,11 

euro 129,11

euro 129,11

20%

soppressa

 

 

Venditore

Impresa non costruttrice

I. di registro

I. Ipotecaria

I. Catastale

IVA

Invim

7%

2%

1%

-

soppressa

 

 

4) Acquisto di immobile per uso diverso da civile abitazione (Cat. A/10, B, C,D, E)

 

Venditore

Privato

I. di registro

I. Ipotecaria

I. Catastale

IVA

Invim

7%

2%

1%

-

soppressa

 

Venditore

Costruttore e altra impresa

I. di registro

I. Ipotecaria

I. Catastale

IVA

Invim

euro 129,11 

euro 129,11

euro 129,11

20%

soppressa

 

 

 

G) Il pagamento del tributo

L’imposta, se non è dovuta in misura fissa, viene liquidata dall'ufficio me­diante applicazione delle aliquote alla base imponibile. Il pagamento deve es­sere contemporaneo alla registrazione: se manca, la presentazione dell'atto e la denuncia del contratto verbale si intenderanno omesse e scatteranno, per il contribuente inadempiente, le sanzioni relative. In pratica il contribuente, nel produrre gli atti per la registrazione, ottiene dall'Ufficio il cal­colo dell'imposta da versare. Una volta effettuato il pagamento presso il concessionario della riscossione, ovvero un istituto di credito o uno sportello postale, esibisce la ricevuta all'Ufficio locale dell'Agenzia delle Entrate o all'Ufficio del registro che procede alla registrazione dell'atto. Solo per i contratti di locazione e affitto è prevista l'autoliquidazione dell'imposta a carico del contribuente. Oltre all'imposta principale, riscossa all'atto della registrazione e dovuta da chiunque sia obbligato alla registrazione (salvo il diritto di regresso nei confronti delle parti interessate), o richiesta dall'ufficio se diretta a correggere errori od omissioni effettuati in sede di autoliquidazione dell'imposta nei casi di registrazione telematica, la legge prevede altri tipi di imposta:

-          l'imposta suppletiva, richiesta successivamente alla registrazione, quan­do l'Ufficio incorre in errore od omissione sul calcolo dell'imposta dovuta;

-          l'imposta complementare, da applicarsi successivamente alla registrazio­ne, perché mancavano gli elementi utili a determinare l’effettivo importo del tributo, o perché la liquidazione era sospesa per disposizione di legge.

 

H) L'utilizzazione delle procedure telematiche per gli adempimenti in materia di registrazione

Dall'1‑7‑2000, le procedure relative alla registrazione degli atti relativi a diritti sugli immobili, alla trascrizione, all'iscrizione e all'annotazione nei re­gistri immobiliari, nonché alla voltura catastale, sono effettuate attraverso l'utilizzo di procedure telematiche. È quanto stabilisce, infatti, il D.Lgs. 9/ 2000 e il successivo D.M. 13‑12‑2000 con il quale è stato approvato il modello unico informatico, con l'obiettivo di snellire le procedure relative agli atti im­mobiliari riducendo le lungaggini burocratiche che hanno caratterizzato gli uffici del registro negli ultimi anni. Le richieste di registrazione, le note di trascrizione e d'iscrizione nonché le domande di anno­tazione e di voltura catastale, relative agli atti relativamente ai quali sarà attivata la procedura telematica, vanno presentate su di un modello unico informatico, da trasmettere telematicamente assieme a tutta la documentazione necessaria. Le formalità di rito dovranno essere espletate previo pagamento dei tributi dovuti in base ad

autoliquidazione.

 

2. LE IMPOSTE: IPOTECARIA E CATASTALE

A) Evoluzione storica e natura giuridica

Questi tributi, in origine assimilati alle imposte di registro, nel corso della loro evoluzione hanno assunto una configurazione autonoma. Sono connessi, in maniera specifica, alla pubblicità immobiliare e sono commisurati al valore dei diritti immobiliari cui si riferiscono. Quanto alla disciplina, sono quasi del tutto assimilati all'imposta di regi­stro e l'unica novità rilevante concerne la previsione di una aliquota non pro­porzionale ma stabilita in misura fissa per gli atti già soggetti ad IVA. Le imposte ipotecaria e catastale, istituite col D.P.R. 26‑10‑1972, n. 635 a seguito della Riforma Tributaria, sono state «rivisitate» dal legislatore, che ha accorpato la normativa in materia nel Testo Unico approvato con D.Lgs. 31‑10­1990, n. 347. Tale provvedimento si è limitato a riordinare le precedenti dispo­sizioni, chiarendo alcuni aspetti «oscuri», che avevano dato adito a contenzio­so, ed adottando una terminologia più aderente alla disciplina civilistica.

Successivamente, il D.L. 155/1993 (convertito nella L. 243/1993) ha ulte­riormente apportato delle innovazioni in materia disponendo l'aumento delle imposte fisse di registro e delle imposte ipotecaria e catastale. Da ultimo, Part. 16 della L. 537/1993 ha ridisegnato (con effetti a partire dall'1‑1‑1994) la tabella allegata al Testo Unico.

 

B) L'imposta ipotecaria

L’imposta ipotecaria è collegata allo svolgimento delle formalità relative all'attuazione della pubblicità immobiliare, per cui, oggetto del tributo sono le formalità di trascrizione, iscrizione, rinnovazione, cancellazione da ese­guirsi presso le Conservatorie dei registri immobiliari. Per le trascrizioni, la base imponibile è commisurata a quella determinata ai fini dell'imposta di registro o dell'imposta sulle successioni e donazioni. Per quanto concerne le iscrizioni e rinnovazioni, nel determinare la base imponibile, si tiene conto del capitale e degli accessori per i quali è iscritta o rinnovata l'ipoteca.

L’aliquota dell'imposta ipotecaria può essere, secondo gli atti, proporzio­nale o fissa. L’aliquota d'imposta, è stata determinata nella misura fissa di 129,11 euro o proporzionale, variabile dallo 0,50% al 2%. I soggetti passivi sono gli stessi soggetti obbligati al pagamento dell'impo­sta di registro o che erano obbligati al pagamento dell'imposta sulle succes­sioni, vale a dire i pubblici ufficiali che hanno ricevuto o autenticato l'atto soggetto a trascrizione e coloro che richiedono le formalità oggetto dell'imposta. Sono anche obbligati solidalmente tutti coloro nel cui interesse è stata fatta la richiesta, inoltre sono obbligati i debitori contro i quali è stata iscritta o rinnovata l'ipoteca nel caso di iscrizione e di rinnovazioni.

 

C) L'imposta catastále

L’imposta catastale colpisce l'esecuzione delle volture catastali e quindi i trasferimenti di tutti i beni inseriti nel catasto.

Il processo di assimilazione alle imposte di registro è, per l'imposta cata­stale, ancor più netto che per l'imposta ipotecaria. Prova ne è che sia il D.P.R. 635/1972, istitutivo di esse, sia il D.Lgs. 347/1990, rinviano interamente alle disposizioni in materia di imposta di registro, per quanto concerne l'accerta­mento e la riscossione dell'imposta catastale.

L’imposta catastale è commisurata al valore dei beni immobili rustici ed urbani accertato agli effetti delle imposte di registro o di quelle sui trasferi­menti a titolo gratuito. L’aliquota risulta essere attualmente del 10 per mille. Per alcuni atti l'im­posta è invece determinata nella misura fissa di 129,11 euro. Sono soggette all'imposta fissa le volture in dipendenza di atti che non comportano trasferi­menti di immobili o di diritti reali immobiliari, di atti di fusione di società, di conferimenti di aziende o di complessi aziendali, di atti soggetti all'imposta sul valore aggiunto e di atti di regola­rizzazione di società di fatto. inoltre, con il collegato fiscale 2000 (L. 342/2000) è stato stabilito che le imposte ipotecaria e catasta­le sono applicate in misura fissa anche per i trasferimenti di immobili non di lusso e per la costituzione o il trasferimento di diritti immobiliari relativi alle stesse, derivanti da successioni o donazioni sempre­ché sussistano in capo al beneficiario i requisiti previsti per l'acquisto della prima abitazione a norma dell'art. 1, 1° comma, della tariffa, parte prima, del D.PR 131/1986 in materia di imposta di registro.

 

D) Disposizioni comuni alle due imposte in materia di accertamento e riscossione

L’accertamento e la riscossione vengono effettuate presso il concessionario, nella cui circoscrizione ha sede l'ufficio finanziario competente, o gli istituti di credito. Le tasse ipotecarie vengono invece versate mediante conto corrente postale; solo in alcuni casi, sono competenti le Conservatorie dei registri immobiliari nella cui circo­scrizione sono situati i beni (per le formalità relative ad atti che non importino trasferimenti di immobili o trasferimenti o costituzioni di diritti reali su tali beni).

 

E) L'autoliquidazione delle imposte ipotecaria e catastale

L’art. 11 del D.L. 79/1997 ha introdotto, a decorrere dal 29‑3‑1997, il mec­canismo di autoliquidazione per le imposte ipotecaria e catastale, per il bollo e per l'imposta sostitutiva dell'INVIM. Il versamento va effettuato mediante delega bancaria ovvero direttamente al concessionario per la riscossione en­tro 6 mesi dall'apertura della successione. Il prospetto di liquidazione delle imposte va allegato alla denuncia di successione. Per le successioni aperte prima del 29‑3‑1997, è prevista l'applicazione di un regime transitorio in base al quale si applicano regole diverse secondo che a tale data sia stata effettuata o meno la liquidazione. Da ultimo, con l'introduzione del modello unico informatico, attraverso il quale vanno presentate le richieste di registrazione, le note di trascrizione e di iscrizione nonché le domande di annotazione e di voltura catastale, è prevista l'autoliquidazione dei tributi di cui sopra per poter espletare telematicamente le suddette formalità.

 

3. L'ABROGATA IMPOSTA SULLE SUCCESSIONI E DONAZIONI E LA NUOVA TASSAZIONE DELLE LIBERALITA’

A) Evoluzione dell'imposizione

L'imposta sulle successioni e sulle donazioni era disciplinata nel D.P.R. 26‑10­1972, n. 637, ed in alcune leggi modificative ed integrative. L’intera normativa è stata, successivamente, raccolta nel Testo Unico che accorpa tutte le disposizioni in materia e che è stato approvato con decreto legislativo 31‑10‑1990, n. 346. Il tributo in esame colpiva, secondo quanto enuncia l'art. 1 del D.Lgs. 346/ 1990, i trasferimenti di beni e diritti per successione a causa di morte ed i trasferimenti a titolo gratuito di beni e diritti tra vivi. Il Testo Unico in parola è stato più volte modificato fino all'emanazione della L. 342/2000 che aveva fortemente modificato le imposte in esame preve­dendo l'abolizione della quota d'imposta commisurata al valore globale netto dell'asse ereditario, stabilendo che la franchigia andasse riferita alle singole quote ereditarie, innalzando in certi casi tale franchigia da 350 milioni a 1 miliardo di lire e stabilendo aliquote molto più basse che in passato, non più a carattere progressivo. Tuttavia la riforma operata dalla L. 342/2000 è stata ritenuta insufficiente: di conseguenza si è giunti con gli artt. 14‑17 della L. 383/2001 alla soppressio­ne delle due imposte.

 

B) Il sistema impositivo previgente alla L. 383/2001

Prima di esaminare le innovazioni introdotte dalla L. 383/2001 per quanto attiene alle imposte dovute dai contribuenti in caso di successione o donazione, è opportuno fornire qualche cenno sul precedente meccanismo operante per effetto delle modifiche introdotte dalla L. 21‑11‑2000, n. 342. Per le successioni, la norma tributaria collegava il presupposto d'imposta alla semplice aper­tura della successione, a prescindere dall àccetlazione dell'eredità, o del legalo da parte dell'erede o legatario. In quest'ottica, venivano considerati eredi ‑ a differenza di quanto previsto dalle nor­me civilistiche ‑lupi i chiamati che non avevano rinuncialo all'eredità. Per le donazioni, il presupposto era costituito dalla stipula dell’atto, mentre, per le dichiara­zioni di assenza esso consisteva nell'immissione nel possesso lemporaneo. Infine, per la morte presunta, il presupposto poteva essere costituito dall'immissione nel possesso dei beni o in mancanza di questo dall'eseguibilità della sentenza di morte presunta. I soggetti passivi erano gli eredi (o meglio i chiamati all'eredità), i legalali (limitatamente ai beni loro legati) o donatari, i beneficiari di altre liberalità tra vivi, i tutorie curatori degli eredi e dei legatari, gli esecutori testamentari ed i curatori dell’eredità, coloro che .succedevano a seguito di dichiarazione di morte presunta, gli immessi nel possesso dei beni dell'assente. Nei confronti dello Stato, ciascun erede era solidalmente obbligato al pagamento dell'impo­sta complessivamente dovuta e risponde anche per la quota dei legatari. La base imponibile su cui calcolare l'imposta sulle successioni era costituita dal valore delle quote ereditarie e dei legati, dato dalla differenza tra il valore dei beni e dei diritti (alla data di apertura della successione) che componevano la singola quota o il singolo legato, e l'ammontare delle passività e degli altri oneri ammessi in deduzione in ragione della quota di spettanza di ognuno.In caso di fallimento del defunto, si teneva conto esclusivamente delle attività pervenute agli credi o legatari a seguito della chiusura della procedura concorsuale. Ai soli fini della verifica della franchigia godibile, la quota ereditaria o il legato andavano aumentati delle donazioni eventualmente ricevute dallo stesso defunto. Il valore dell'eredità o delle quote ereditarie era determinato al netto dei legati e degli altri oneri che eventualmente le gravano. Analogamente, gli oneri gravanti sui legati ne andavano a ridurre il valore. Dalla base imponibile rimanevano esclusi, oltre ai beni c diritti elencati negli artt. 12 e 13 del D.P R 346/1990, anche quelli per i quali il defunto aveva provveduto ai pagamento dell'imposta in vita. Nelle donazioni, la base imponibile cui commisurare l'imposta era rappresentata dal valore globale dei beni o diritti oggetto della donazione o ‑ nel caso di dichiarazione a favore di più soggetti o di più donazioni a favore di soggetti diversi comprese nello stesso atto ‑ al valore della quota spettante o dei beni o diritti spettanti a ciascuno di essi, al netto degli oneri che gravavano sul donatario. In riferimento alle successioni l'imposta si determinava applicando, sulla parte del valore della quota di eredità o del legato che eccedeva i 350 milioni di lire, le seguenti aliquote:

 4% nei confronti di:

-          coniuge;

-          dei parenti in linea retta;

6% nei confronti di:

-          altri parenti fino al quarto grado;

-          degli affini in linea retta;

-          degli affini in linea collaterale fino al terzo grado;

8% nei confronti degli altri soggetti.

Quindi per valori inferiori o pari alla suddetta franchigia di 350 milioni di lire (elevata a 1 miliardo se l'erede o il legatario era un discendente in linea retta minore d'età o soggetto portato­re di grave handicap) l'imposta non trovava applicazione. Nel caso in cui l'erede o il legatario aveva già beneficiato di donazioni effettuate dallo stesso defunto, la franchigia doveva essere ridotta per la parte di cui avesse già usufruito. Le suddette aliquote erano ridotte di un punto percentuale in relazione a beni e diritti per i quali il defunto aveva provveduto al pagamento in vita dell'imposta. All'imposta così determinata si applicavano poi le riduzioni e le detrazioni, qualora ne ricor­revano i presupposti. In riferimento alle donazioni l'imposta era calcolata applicando al valore dei beni o diritti oggetto della donazione le seguenti aliquote:

3% nei confronti di:

-          coniuge;

-          parenti in linea retta;

5% nei confronti dì:

-          altri parenti fino al quarto grado;

-          affini in linea retta;

-          affini in linea collaterale fino al terzo grado;

7% nei confronti degli altri soggetti.

L’imposta andava applicata esclusivamente alla parte della quota di ciascun donatario che superava la franchigia di 350 milioni dì lire (elevata a 1 miliardo se il donatario era un discenden­te. in linea retta minore d'età o soggetto portatore di grave handicap).

 

C) La soppressione dell'imposta di successione

Si è detto che la legge 383/2001 ha soppresso l'imposta sulle successioni e donazioni, ma ‑ di fatto ‑ il legislatore non ha ancora abrogato il D.Lgs. 346/1990: piuttosto in più di un'occasione il legislatore si rifà ai contenuti della vecchia normativa. Basti pensare, ad esempio:

-          al richiamo alle esenzioni ed agevolazioni contenute nel TU. sulle imposte sulle successioni e donazioni;

-          all'introduzione di un regime transitorio nel quale il contribuente continua a presentare in certi casi la dichiarazione di successione.

L’abolizione dell'imposta di successione, a differenza di quanto accade per quella sulle donazioni, rappresenta una perdita netta per l'erario, dal momento che non è prevista alcuna tassazione sostitutiva per i trasferimenti mortis causa.

Le uniche imposte dovute per la successione, inerenti beni immobili e di­ritti reali sono ora quelle ipotecarie (2%) e quelle catastali (1 %). Già prima dell'entrata in vigore della legge 383/2001 non era più dovuta l'imposta sostitutiva dell'INVIM, per effetto della specifica abrogazione con­tenuta nella L. 342/2000. Le nuove disposizioni si applicano alle successioni aperte alla data di en­trata in vigore della legge n. 383 del 18 ottobre 2001 e cioè dal 25 ottobre.

 

LA DICHIARAZIONE DI SUCCESSIONE EX L. 383/2001

Adempimenti e tributi a carico dei beneficiari

(coniuge, parenti in linea retta, parenti entro i14° grado e altri soggetti)

 

Natura del bene

Obbligo di dichiarazione

Imposta di

successione

Imposta

 ipotecaria

Imposta

catastale

 

Immobili

2%

1%

Prima casa

misura fissa

€ 129,11

misura fissa

€ 129,11

Terreni

2%

1%

Denaro/gioielli

No

-

-

-

Crediti

No

-

-

-

Partecipazioni e titoli di Stato

No

-

-

-

 

D) La soppressione dell'imposta sulle donazioni e la nuova tassazione delle liberalità

Diversamente da quanto previsto per le successioni, l'abrogazione dell'im­posta sulle donazioni non ha eliminato del tutto la tassazione degli atti di donazione e le altre liberalità tra vivi. AI contrario il legislatore ha operato una netta distinzione, stabilendo che i trasferimenti di beni e diritti per atto di donazione o altra forma di liberalità, ivi incluse le rinunzie pure e semplici:

a)     se effettuati in favore di coniuge, parenti in linea retta e altri parenti fino al quarto grado non scontano le imposte sui trasferimenti. Ovviamente devo­no essere comunque corrisposte ‑ in caso di atti che hanno ad oggetto immobili o diritti reali immobiliari ‑ le imposte ipotecarie e catastali;

b)     se effettuati nei confronti di soggetti diversi da quelli indicati nella prece­dente lettera a) e di importo non superiore a 180.759,91 euro, non sconta­no le imposte sui trasferimenti. Anche in questo caso sono dovute le impo­ste ipotecarie e catastali in presenza di donazioni di immobili o diritti reali immobiliari;

c)     se effettuati nei confronti di soggetti diversi da quelli indicati nella prece­dente lettera a) e di importo superiore a 180.759,91 euro, scontano le nor­mali imposte sui trasferimenti determinate per le cessioni a titolo oneroso.

Le donazioni effettuate nei confronti di soggetto diverso da quelli indicati nella citata lettera a), che sia portatore di handicap grave, sono esenti da im­posta sui trasferimenti fino alla soglia di 516.456,90 euro.

 

TASSAZIONE DELLE DONAZIONI E DELLE ALTRE LIBERALITÀ EX L. 383/2001

Coniuge, parenti in linea retta e parenti entro il 4° grado

 

Natura del bene

Imposta sulle donazioni

Imposta sui
trasferimenti

Imposta
ipotecaria

Imposta

catastale

Immobili

-

-

2%

1%

Prima casa

-

-

Misura fissa

€ 129,11

Misura fissa

€ 129,11

Terreni

-

-

Tassa fissa

€ 129,11

Tassa fissa

€ 129,11

Denaro/gioielli

-

-

-

-

Partecipazioni e titoli di Stato

-

-

-

-

 

 

Soggetti diversi dal coniuge, dai parenti in linea retta e dagli altri parenti entro il 4° grado

Natura del bene

Imposta sulle donazioni

Imposta sui
trasferimenti

Imposta
ipotecaria

Imposta

catastale

Immobili

-

7% con la franchigia

di € 180.759,91

 

Misura fissa

€ 129,11

Misura fissa

€ 129,11

Prima casa

-

3% con la franchigia

di € 180.759,91

Misura fissa

€ 129,11

Misura fissa

€ 129,11

Terreni

-

8% (edificabili)

15% (non edificabili) con la franchigia di

€ 180.759,91

2%

1%

Denaro/gioielli

-

3% con la franchigia

di € 180.759,91

-

-

Partecipazioni e titoli di Stato

-

-

-

-

 

 

4. L'INVIM

L’INVIM, istituita con il D.P.R. 26‑10‑1972, n. 643 si applicava sull'incre­mento di valore degli immobili siti nel territorio dello Stato quando:

-          veniva a qualunque titolo trasferito o conferito il diritto di proprietà sul bene ovvero veniva trasferito o costituito su esso un diritto reale diverso dalla ser­vitù. Si noti che il trasferimento poteva avvenire indifferentemente a titolo gratuito o a titolo oneroso, per atto tra vivi o a causa di morte o per usuca­pione;

-          si verificava l'utilizzazione edificatoria delle aree fabbricabili;

-          quando erano passati dieci anni di ininterrotto possesso del bene da parte di società ed enti di ogni tipo.

Il gettito di quest'imposta ‑ affluito per molti anni ai Comuni dal 1993 è confluito nelle casse erariali. La Finanziaria 2002 (L. 448/2001) ha previsto la soppressione dell'imposta comunale sull'incremento di valore degli immobili. Per cui, è necessario, per l'ultima volta, pagare l'imposta sugli immobili per i quali si realizzano i pre­supposti fino al 31 dicembre 2001 (alienazione a titolo oneroso e decorso dal decennio). In verità l'INVIM era stata già abolita dal decreto legislativo 504/1992 (isti­tutivo dell'ICI) ‑ che aveva fissato un regime transitorio di applicazione di questa imposta, limitatamente all'incremento di valore maturato fino al 31 dicembre 1992, qualora i presupposti impositivi (alienazione a titolo oneroso, acquisto a titolo gratuito e decorso del decennio) si fossero manifestati nell'arco temporale l ° gennaio 1993 ‑ 31 dicembre 2002. II legislatore quindi, con questo intervento normativo, ha anticipato di un anno l'abolizione dell'INVIM.

E’ da tener presente che la L. 342/2000, stabilendo l'inapplicabilità dell'INVIM agli immobili trasferiti con successioni aperte dal 1° luglio 2000 e donazioni effettuate dal 1° gennaio 2001, aveva già sostanzialmente anticipato l'abrogazione di questa imposta.

 

5. L'IMPOSTA COMUNALE SUGLI IMMOBILI (ICI)

A) Presupposti d'imposta

Dal 1° gennaio 1993 è entrata in vigore l'ICI ‑ imposta comunale sugli immobili ‑ istituita dal D.Lgs. 504/1992, in attuazione della legge delega 421/ 1992. L’ICI è un'imposta a base reale con gettito destinato ai Comuni. II presupposto dell'imposta è dato dal possesso di fabbricati, aree fabbrica­bili o terreni agricoli siti nel territorio dello Stato qualunque sia la loro destina­zione.Per fabbricato si intende l'unità immobiliare iscritta o che deve essere iscritta nel catasto urbano comprensiva delle pertinenze. L’area fabbricabile è definita come quella «utilizzabile a scopo edificatorio in base agli stru­menti urbanistici generali o attuativi ovvero in base alle possibilità effettive di edificazione». I terreni agricoli sono individuabili in quei terreni adibiti ad attività agraria (coltivazione, silvicoltura, allevamento di animali, attività di trasformazione) ex art. 2135 c.c.

 

B) Esenzioni

Ai sensi dell'art. 7 del D.Lgs. 504/1992 sono esenti da imposta:

a)     gli immobili destinati all'uso istituzionale dello Stato, degli Enti locali, del­le Comunità montane, di consorzi tra gli enti precedenti, delle ASL, delle istituzioni sanitarie pubbliche, delle Camere di Commercio. I Comuni pos­sono, tuttavia, disporre con proprio regolamento l'esenzione anche per immobili destinati a scopi istituzionali;

b)     i fabbricati delle categorie E (fabbricati a destinazione particolare);

c)     i fabbricati con destinazione a usi culturali esenti dall'IRPEF, IRPEG ed ILOR;

d)     i fabbricati destinati all'esercizio del culto e quelli di proprietà della Santa Sede esenti a norma del Trattato Lateranense;

e)     i fabbricati degli Stati Esteri e dì organizzazioni internazionali esenti da ILOR;

f)       i fabbricati dichiarati inagibili o inabitabili e recuperati per attività assistenziali di cui alla L. 104/1992, per il periodo di impiego secondo tali finalità;

g)     i terreni agricoli ricadenti in aree montane o in collina;

h)     gli immobili utilizzati da enti non commerciali e destinati allo svolgimento di attività assistenziali, didattiche, ricreative, culturali, sportive e ricettive;

i)        gli immobili posseduti dai Comuni, anche con destinazione diversa da quella istituzionale, purché la loro superficie si trovi prevalentemente o interamente sul territorio comunale.

L'esenzione spetta per il periodo dell'anno per il quale sussistano le condi­zioni prescritte.

 

C) Soggetti passivi

L’art. 3 del D.Lgs. in esame stabilisce che soggetti passivi dell'imposta sono i proprietari di immobili ovvero i titolari del diritto di usufrutto, uso, abi­tazione, enfiteusi, superficie sugli stessi, anche se non residenti nel territorio dello Stato o se non hanno ivi la sede legale o amministrativa o non vi esercitano l’attività. Per gli immobili concessi in locazione finanziaria soggetto passivo è il lo­catario. Nell'ipotesi in cui si tratti di fabbricati classificabili nel gruppo catastale D, non iscritti in catasto, il locatario assume la qualifica di soggetto passivo a partire dal 1 ° gennaio dell'anno successivo a quello nel corso del quale è stato stipulato il contratto di locazione. Nel caso di concessione su aree demaniali soggetto passivo è il concessio­nario. Nell'ipotesi di trasferimento di proprietà durante l'anno oppure di inizio o fine dell'usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi o superficie nel corso dell'anno, il carico fiscale verrà ripartito fra gli interessati in proporzione della durata dei rispettivi diritti. Nel caso di comproprietà, invece, debitore dell'imposta è ciascun compro­prietario per la sua quota.

 

D) Base imponibile ed aliquota

La base imponibile è costituita:

- per i fabbricati, iscritti in catasto, dalle rendite catastali, calcolate moltiplicando le tariffe d'estimo:

a)     per un coefficiente pari a 100 se si tratta di abitazioni, alloggi collettivi e fabbricati a destinazione varia (gruppi catastali A, B, C ad eccezione delle categorie A/ 10 e C/ 1);

b)     per un coefficiente pari a 50 se si tratta di uffici e studi privati e altri fabbricati a destinazione speciale (gruppi catastali A/10 e D);

c)     per un coefficiente pari a 34 se si tratta di negozi e botteghe (gruppo catastale C/1);

d)     per i fabbricati non iscritti in catasto il valore è determinato con riferi­mento alla rendita dei fabbricati simili già iscritti.

per le aree fabbricabili, dal valore commerciale dell'immobile al 1° gennaio dell'anno di imposizione;

per i terreni agricoli, dal reddito dominicale vigente al 1 ° gennaio dell'anno di imposizione moltiplicato per.75.

L'imposta si calcola applicando all'imponibile un'aliquota variabile dal 4 al 7 per mille.

Entro tali limiti i Comuni potranno differenziare le aliquote con riferimen­to a (art. 6, D.Lgs. 504/1992):

-          immobili diversi dalle abitazioni;

-          immobili adibiti ad abitazione principale da parte di persone fisiche;

-          immobili posseduti da enti senza scopo di lucro;

-          fabbricati posseduti in aggiunta dell'abitazione principale;

-          unità immobiliari locate a soggetti che la utilizzano come abitazione principale.

È tuttavia accordata la facoltà ai comuni di fissare aliquote agevolate an­che inferiori al 4 per mille, a favore di proprietari che eseguono interventi volti al recupero di unità immobiliari inagibili o inabitabili; recupero di im­mobili di interesse artistico localizzati nei centri storici; realizzazione di auto­rimesse o posti auto anche pertinenziali; utilizzo di sottotetti.

L’imposta da versare si calcola applicando l'aliquota ICI alla base imponi­bile e deducendo le eventuali detrazioni o riduzioni spettanti.

 

E) Detrazioni ed agevolazioni

Gli artt. 8 e 9 del D.Lgs. 504/1992 prendono in esame alcune ipotesi di detrazioni nonché riduzioni dell'ICI relativamente all'abitazione principale, ai fabbricati inagibili o inabitabili ed ai terreni agricoli condotti direttamente. In particolare per l'abitazione principale dell'obbligato, oltre alla aliquota ridotta prevista dall'art. 4 D.L. 437/96, è riconosciuta una detrazione d'impo­sta di 103,29 euro, rapportata al periodo dell'anno in cui l'immobile è stato effettivamente utilizzato come abitazione principale. A decorrere dall'1‑1‑1997 i Comuni possono, per le abitazioni principali:

-          ridurre l'imposta fino al 50%;

-          elevare la detrazione fino a 258,23 euro.

Le agevolazioni suddette possono essere applicate, previa delibera comu­nale, anche ad anziani e disabili residenti in istituti di ricovero o sanitari a condizione che l'abitazione non risulti locata. Nel caso in cui l'abitazione sia utilizzata da più soggetti passivi la riduzio­ne è ripartita in proporzione tra gli stessi. Per i fabbricati dichiarati inagibili o inabitabili e di fatto non utilizzati, l'imposta è ridotta del 50%. L'inagibilità o inabitabilità è accertata dall'ufficio tecnico comunale con perizia a carico del proprietario oppure con autocertificazione dello stesso. Il comma 2° dell'art. 8 in relazione ai fabbricati realizzati per la vendita e rimasti invenduti consente l'applicazione a carico delle imprese edili dell'ali­quota minima del 4 per mille per un periodo non superiore a 3 anni. E accresciuta potestà regolamentare riconosciuta agli enti locali dal D.Lgs. 446/1997, istitutivo dell'IRAP, ha inoltre dato facoltà ai Comuni di:

-          considerare abitazioni principali (con conseguente applicazione delle age­volazioni) anche quelle concesse in uso gratuito a parenti in linea retta o collaterale;

-          stabilire riduzioni dell'imposta superiori a 258,23 euro fino al 100% dell'importo del tributo per le prime case. In questa ipotesi, però, il Comune non potrà stabilire aliquote maggiorate per le cd. seconde case.

Ulteriore facoltà è concessa ai Comuni dall'art. 4, 2° comma, L. 431/1998 alfine di agevolare la stipula di contratti protetti (di cui all'art. 2 della medesima legge) da definire a livello locale fra le organizzazioni delle proprietà edilizie e le organizzazioni dei conduttori maggiormente rap­presentative. Tale riduzione è applicabile solo per gli immobili destinati ad abitazione principale dei conduttori.

A coltivatori diretti dei terreni agricoli sono riconosciute particolari agevo­lazioni. Per essi la base imponibile è costituita dal valore del terreno che supe­ra i 25.822,84 euro; inoltre, l'imposta viene ridotta percentualmente in rela­zione al valore dei terreni. Limposta si calcola come segue:

-          sui primi 25.822,84 euro di valore: aliquota 0%;

-          oltre 25.822,84 euro fino a 61.974,83 euro di valore: riduzione al 30%;

-          oltre 61.974,83 euro e fino a 103.291,38 di valore: riduzione al 50%;

-          oltre 103.291,38 euro e fino a 129.114,22 euro di valore: riduzione al 75%.

 

F) Dichiarazioni e sistema di versamento

La dichiarazione iniziale, redatta su moduli approvati dall'Agenzia delle Entrate, va presentata da tutti i contribuenti soggetti ad ICI, congiuntamente alla dichiarazione dei redditi, relativamente all'anno in cui ha avuto inizio il possesso.

La denuncia di modificazione va presentata allorquando intervengano cambiamenti nel patrimonio immobiliare del contribuente, rispetto alla di­chiarazione iniziale, per acquisti o vendite o donazioni o espropriazioni, per riunione o separazione del diritto di usufrutto, uso od abitazione. La denun­cia dovrà essere presentata entro il termine della dichiarazione dei redditi relativa all'anno in cui la modifica è avvenuta. Il sistema di versamento dell'ICI, che è un'imposta annuale, prevede un acconto e un saldo. L'acconto va versato nel mese di giugno in misura del 50% dell'imposta dovuta calcolata sulla base dell'aliquota e delle detrazioni dei dodici mesi del­l'anno precedente. Il saldo, invece, va versato dal 1 ° al 20 dicembre e consiste nell'ammontare dell'imposta dovuta per l'intero anno, con eventuale conguaglio sull'acconto versato. L’art. 1 del D.Lgs. 51811993 ha, tuttavia, introdotto la possibilità di versare in un'unica soluzione, entro il termine di scadenza della prima rata, l'imposta dovuta per l'anno in corso, così come era previsto per le persone fisiche non residenti in Italia: il versamento unico per l'intero anno deve essere effettuato entro il 20 dicembre con una maggiorazione del 3% per interessi.

 

6. L'IMPOSTA DI BOLLO

L’imposta di bollo, introdotta dal D.P.R. 642/72, ha nature mista, in quanto a volte si configura come un'imposta e a volte come una tassa. Viene assolta principalmente mediante l'acquisto di valori bollati da ap­porre su determinati atti e da ciò la definizione di imposta cartolare. Un Decreto ministeriale del 1992 ha rimodellato il sistema tariffario e ha accorpato alcune operazioni soggette a bollo in voci omogenee, abolendo quelle che sembravano, per i tempi, del tutto superate.

 

A) Presupposto dell'imposta

L'imposta di bollo si applica su tutti gli atti civili e commerciali, giudiziali e stragiudiziali, sugli scritti, sugli avvisi, sui manifesti, sui disegni e sui regi­stri indicati dalla tabella allegata al D.P.R. 642/72. I documenti e atti soggetti a bollo si distinguono in tre categorie:

-          atti soggetti fin dall'origine all'imposta: sono quelli su l'imposta deve essere pagata tassativamente e sono gli atti civili, amministrativi e giudi­ziali;

-          atti soggetti solo in caso d'uso: sono gli atti che devono essere acquisiti dalle cancellerie giudiziarie o dalle pubbliche amministrazioni (es.: con­tratti di locazione non superiori a 30 giorni, contratti di lavoro autonomo, scritture private non autenticate ecc.);

-          atti esenti in modo assoluto: tra questi ricordiamo gli atti legislativi dello Stato, Regioni, Provincie e Comuni, gli atti e i documenti elettorali ecc.

Possiamo notare delle analogie tra l'imposta di registro e l'imposta di bol­lo, ma la differenza consiste nel fatto che la prima si riferisce al contenuto giuridico dell'atto, mentre la seconda investe la forma scritta del negozio, sen­za riferimento al contenuto.

 

B) Soggetti passivi

Per quanto attiene ai soggetti passivi, la legge non è così specifica nel deter­minarli, per ogni singolo atto, ma individua dei soggetti che hanno l'obbligo solidale di assolverla e cioè tutti coloro che possano avere o hanno una deter­minata relazione col presupposto d'imposta.

 

C) Imponibile e aliquote

Quasi sempre l'imposta prescinde dal valore dell'atto che colpisce, ma im­ponibile è l'atto in sé.

L’imposta può essere:

-          proporzionale: è commisurata al valore dell'atto (es.: cambiale 12 per mille);

-          fissa: colpisce in misura fissa gli atti qualunque sia il loro valore. A partire dal 1°‑1‑1996 l'imposta fissa è pari a lire 20.000, oggi pari a euro 10,33, su qualsiasi atto su cui è dovuta nonché sui contratti relativi ad operazioni e servizi bancari. Con D.Lgs. 9/2000 è stata anche stabilita l'imposta di bollo nella misura forfettaria di euro 165,27 sugli atti relativi a diritti sugli im­mobili sottoposti a registrazione con procedure telematiche.

 

D) Modalità di pagamento

Il pagamento può avvenire in modo:

-          ordinario: facendo uso di carta bollata (può essere disponibile quella ordinaria, per cambiali o per atti giudiziari);

-          straordinario: mediante l'uso di marche da bollo, visto per bollo e il bollo a punzone;

-          virtuale: se il pagamento avviene direttamente all'ufficio del registro e ad altri uffici autoriz­zati, oppure con versamento in c/c postale.

 

7. L'IVA NEL SETTORE IMMOBILIARE

 

A) Operazioni soggette al 4% di IVA

Sono soggette a tale aliquota:

-          le cessioni effettuate da parte di imprese costruttrici, di costruzioni rurali destinate ad uso abitativo del proprietario del terreno o di altri addetti alle coltivazioni dello stesso;

-          cessione effettuate da parte di imprese costruttrici di case di abitazioni non di lusso, a condizione che l'acquirente dichiari che si tratti di prima casa;

-          assegnazione, anche in godimento, di case di abitazione non di lusso, fatte ai soci da parte di cooperative edilizie e loro consorzi;

-          contratti di appalto per la costruzione di immobili destinati a «prima casa».

 

B) Operazioni soggette al 10% di IVA

Sono soggette a tale aliquota:

-          le cessioni di fabbricati su cui siano stati effettuati interventi di recupero da parte delle imprese che hanno realizzato detti interventi;

-          le cessioni effettuate da parte di imprese costruttrici di case di abitazione non di lusso, se l'acquirente non le acquista come prima casa;

-          le locazioni di fabbricati ad uso civile effettuate da parte delle imprese che hanno costruito tali immobili;

-          quasi tutte le prestazioni di servizi aventi ad oggetto la realizzazione di interventi di recupero.

 

C) Operazioni soggette al 20% di IVA

Sono soggette a tale aliquota, definita «ordinaria», tutte le altre operazioni diverse da quelle comprese nelle lett. A) e B).

 

8. I PRINCIPALI ADEMPIMENTI CIVILI E FISCALI DELEAGENTE IM­MOBILIARE

A) Adempimenti iniziali

L’agente immobiliare, entro 30 giorni dall'inizio dell'attività, ha l'obbligo di effettuare i seguenti adempimenti:

-          l'iscrizione al Registro delle Imprese presso la Camera di commercio;

-          la denuncia all'INPS nella gestione previdenziale dei commercianti;

-          la comunicazione presso l'Ufficio territoriale delle entrate dell'inizio del­l'attività, ai fini IVA;

-          la comunicazione all'Ufficio Tributi del Comune della superficie del locale, ai fini della determinazione della Tassa sullo smaltimento dei rifiuti solidi urbani;

-          la denuncia all'Ufficio Tributi del Comune di eventuali manifesti, insegne o targhe, ai fini della determinazione dell'imposta di pubblicità;

-          l'iscrizione al Ruolo degli Agenti di Affari in Mediazione o a titolo indivi­duale o come amministratore di società aventi per oggetto l'intermediazio­ne immobiliare.

 

B) Altri adempimenti:

         deposito dei moduli e formulari presso la Commissione Provinciale della CCIAA di competenza;

         iscrizione all'INPS e all'INAIL di eventuali dipendenti;

          applicazione della 626/1994 in materia di «Sicurezza dei lavoratori nei luo­ghi di lavoro»;

      comunicazione e notifica al «Garante per la protezione dei dati personali» in base alla L. 675/1996.

 

C) La fattura dell'Agente immobiliare

Come ogni imprenditore anche l'Agente immobiliare deve emettere un documento fiscale per giustificare, ai fini delle imposte sui redditi e dell'IVA, le provvigioni percepite. La fattura, da emettere al momento della riscossione delle provvigioni, mai dopo, oltre ai dati identificativi dell'agente (Ditta, Sede, Codice Fiscale, Parti­ta IVA) e del suo destinatario (nome, cognome e indirizzo; la Partita IVA non è obbligatoria), deve contenere i seguenti elementi:

-          l'indicazione e il calcolo dell'IVA nella misura del 20%;

-          la ritenuta d'acconto sulle provvigioni ai fini Irpef, che è pari al 23% sul 50% della base imponibile se l'agente opera da solo; oppure l'aliquota è pari al 23% sul 20% della base imponibile se l'agente si avvale di collaboratori.

 

D) Contributo INPS «Gestione separata»

Il contributo previdenziale del 10% o del 14% per i redditi di lavoro auto­nomo afferente alla «Gestione separata» dell'INPS non interessa l'agente im­mobiliare, a meno che non si tratti di:

1)      compensi di amministratore di società di intermediazione immobiliare;

2)      collaborazioni a giornali e riviste;

3)      compensi gettoni di presenza nelle Commissioni Provinciali;

4)      docenze a corsi preparatori;

5)      gettoni presenza per gli esami di mediatori;

6)      consulenza immobiliare (pratiche mutui, finanziamenti ecc.).

Nei casi suindicati, dunque, l'agente può addebitare in ciascuna fattura emessa un 4% di contributo previdenziale per tale gestione contributiva.

 

 

 

DISCIPLINA URBANISTICA ED EDILIZIA

 

1. IL DIRITTO URBANISTICO E LE SUE NORME

Il diritto urbanistico è quella branca del diritto amministrativo che regola la facoltà di edificare, ossia di costruire nuovi edifici soprattutto nei centri abitati. L'esigenza di regolare lo sfruttamento del territorio nacque in età moderna per organizzare in maniera razionale l'ampliamento delle città industriali e i fenomeni di urbanizzazione di vaste zone di campagna ad esse limitrofe. Fu­rono così emanate le prime norme destinate a disciplinare le condizioni igieni­che ed estetiche degli edifici urbani (sia di carattere residenziale che industria­le e commerciale), nonché le norme di sicurezza statica delle costruzioni. Pur risalendo già al Medioevo, il diritto urbanistico ha acquistato fonda­mentale importanza solo nel secolo XX, agli inizi del quale prese il via quel fenomeno di emigrazione della popolazione dalle campagne alle città, chia­mato urbanesimo. Nell'ambito del diritto urbanistico rientra anche la materia edilizia: urba­nistica ed edilizia, anche se riguardano entrambe il governo del territorio, van­no però tenute distinte, pur essendo la seconda compresa nella prima.

L’urbanistica consiste nell'attività di programmazione e di pianificazione delle modifiche del territorio (i piani urbanistici stabiliscono se è possibile costruire o meno su un determinato territorio). L’edilizia stabilisce, invece, le modalità attraverso cui può realizzarsi la tra­sformazione territoriale ammessa dal piano (necessità di concessione o meno, caratteristiche dell'edificio, qualità tecniche etc.). Per attività edilizia in particolare si intende la costruzione di manufatti stabili destinati a soddisfare bisogni abitativi o produttivi. La distinzione tra urbanistica ed edilizia è oggi ancora più evidente: mentre fino ad ora, infatti, esse erano sovrapposte, con l'introduzione del nuovo Testo unico in materia edilizia (D.PR. 6 giugno 2001, n. 380), la materia edilizia trova per la prima volta organica ed autonoma discipli­na. In particolare, il Testo unico riunisce e riordina tutte le norme in materia edilizia (sia quelle relative alle forme di assenso degli interventi edilizi che la normativa tecnica) nel tentativo di ricondurre ad unità organica il complesso materiale normativo sparso nei numerosi provvedi­menti emanati dal 1942 ad oggi. L:urbanistica si propone, dunque, di assicurare, pur promovendo lo svi­luppo edilizio delle città, lo sfruttamento razionale di tutto il territorio naziona­le, non solo quello urbano, al fine di contenere gli effetti più deleteri di esso (sovraffollamento, inquinamento, alterazioni dell'assetto idrogeologico della zona, inadeguatezza dei servizi etc.). In Italia la prima disciplina urbanistica di carattere generale è stata posta dalla legge 17 agosto 1942, n. 1150 (legge urbanistica), che per quasi 60 anni è stata il testo base della materia. Questa legge però presen­tava alcune lacune e venne letteralmente travolta dalla ricostruzione eco­nomica e industriale del dopoguerra, che si svolse in maniera disorganica e incontrollata, finalizzata esclusivamente al profitto e alla speculazione fondiaria; le città crebbero così nel disordine, con un progressivo abban­dono dei centri storici e uno sconsiderato ampliamento di periferie infor­mi e degradate. Fu così necessario emanare una successiva legge (legge ponte) del 6 ago­sto 1967, n. 765, che nacque però come normativa parziale e provvisoria nella prospettiva di un'imminente riforma urbanistica, che ancora oggi non è stata attuata. Altra legge fondamentale è quella del 28 gennaio 1977, n. 10 conosciuta anche come legge sui suoli, che ha sancito l'onerosità della concessione edilizia. Altra importante disposizione è la legge 28 febbraio 1985, n. 47 desti­nata a contrastare il dilagante fenomeno dell'abusivismo edilizio, che ha pre­visto anche un'ampia sanatoria delle costruzioni abusive (primo condono edilizio). In Italia, infatti, sono sempre state numerose le violazioni urbanistiche, tanto che in alcuni periodi è diventato impossibile perseguire tutti i colpe­voli di abuso edilizio; lo Stato ha così preferito prevedere procedure di sa­natoria generalizzate (condoni), in seguito alle quali tutte le costruzioni abusive, realizzate prima di una certa data, dovevano considerarsi lecite qualora il proprietario pagasse un'oblazione, cioè una somma di danaro fissata dalla legge. In Italia vi sono stati due condoni: uno nel 1985 e l'altro nel 1994. Quelli citati sono solo alcuni dei testi normativi che regolano il diritto urbanistico: la discipli­na è, infatti, molto frammentata e ha subito numerose modifiche non solo da parte di provvedi­menti normativi successivi, ma anche di numerose sentenze della Corte Costituzionale.

Tra i provvedimenti normativi sono da ricordare:

la legge 5 agosto 1978, n. 457 (piano decennale per l'edilizia) che ha definito le tipologie di interventi urbanistici;

la legge 2.5 marzo 1982, n. 94, che disciplina alcuni tipi di piani urbanistici;

la legge 4 dicembre 1993, n. 493 che regolamenta la procedura di rilascio della concessione  edilizia;

l’art. 39 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, che ha previsto il secondo condono edilizio;

la legge 23 dicembre 1996, n. 662 che ha modificato il procedimento di denuncia di inizio attività e la legge 15 maggio 1997, n. 127 (Bassanini bis) che ha attribuito ai dirigenti degli enti locali i poteri in materia urbanistica ed edilizia, che prima erano di competenza del Sindaco; ‑ il D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (modificato dal D.Lgs. 29 ottobre 1999, n. 443) che disciplina in modo chiaro i compiti e le funzioni che, dallo Stato, sono passati alle Regioni ed agli enti locali;

il D.Lgs. 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo unico sui beni culturali e ambientali);

il D.PR. 6 giugno 2001, n. 380, ossia il Testo unico in materia edilizia.

 

2. IL TESTO UNICO IN MATERIA EDILIZIA

Come abbiamo già detto, il D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 ha introdotto il Testo unico in materia edilizia che ha avuto, già prima della sua entrata in vigore, una vita particolarmente tormentata. Vediamo perché.

Secondo l'art. 138, il Testo unico sarebbe dovuto entrare in vigore il 1° gennaio 2002. Prima di questa data, però, è stata approvata la legge 21 dicem­bre 2001, n. 443 che disciplina la denuncia di inizio attività in maniera sostan­zialmente difforme dal Testo unico. Ciò ha imposto una sospensione della sua entrata in vigore (che, dopo vari rinvii, è ora fissata al 30 giugno 2003): nello stesso tempo il Governo è stato delegato a modificare il Testo unico per adattarlo alle norme della legge n. 443/2001. Tale provvedimento di modifica è stato emanato con D.Lgs. 27‑12­2002, n.301. Nonostante il Testo unico in materia edilizia riordini la vecchia disciplina per permetterne una più semplice leggibilità e applicabilità, contiene però numerose novità che qui riassumiamo brevemente, e di cui parleremo nei prossimi paragrafi:

la novità più rilevante è la riduzione degli atti che permettono di costruire a due soltanto. Mentre prima il privato che volesse realizzare un intervento edilizio poteva trovarsi a dover richiedere la concessione edilizia o l'auto­rizzazione gratuita, o in alcuni casi per le opere di minor impatto urbani­stico, a dover presentare la denuncia di inizio attività, il Testo unico preve­de solo il permesso di costruire (nuova denominazione della concessione edilizia) e la denuncia di inizio attività, con conseguente soppressione dell'autorizzazione gratuita;

nell'ottica di semplificazione dei procedimenti imposta dalla riforma Bas­sanini, è stata snellita la procedura per il rilascio del permesso di costruire ed è stato istituito lo sportello unico dell'edilizia.

Lo sportello unico dell'edilizia è una delle novità più importanti del T.U. in materia edilizia. Esso è un ufficio che ha il compito di seguire tutte le pratiche concernenti le autorizzazioni per la realizzazione di interventi in materia edilizia. Esso garantisce trasparenza e celerità delle proce­dure in quanto permette al cittadino di relazionarsi con un unico interlocutore, invece di passare da un ufficio all'altro per le varie autorizzazioni. II Testo unico abroga anche molte delle vecchie norme, in particolare:

gran parte degli articoli della legge urbanistica del 1942;

molti articoli della legge Bucalossi (legge 28 gennaio 1977, n. 10);

quasi tutta la legge n. 47/1985.

Ovviamente tali norme potranno dirsi abrogate solo dal momento in cui il predetto Testo unico entrerà finalmente in vigore.

 

3. PROPRIETÀ PRIVATA E DIRITTO DI COSTRUIRE

Per proprietà privata si intende il diritto di godere e di disporre in modo pieno ed esclusivo di un bene: in particolare, il diritto di godere e di disporre in modo pieno di un bene significa che il proprietario ha il diritto di fare tutto quello che crede della sua cosa (può distruggerla, può venderla o donarla, può usarla e se si tratta di un fondo, potrebbe anche decidere di costruirvi sopra un fabbricato).

La facoltà di godimento e di disposizione dei propri beni non è però illimi­tata: l'art. 832 del codice civile stabilisce, infatti, che essa deve essere esercita­ta entro i limiti e con 1 osservanza degli obblighi stabiliti dall'ordinamento giuri­dico. Tra i limiti più rilevanti vi è soprattutto quello che concerne la facoltà di edificare. II proprietario non è, infatti, libero di costruire sul suo fondo, ma deve chiedere l'autorizzazione del Comune per la realizzazione di quasi tutti gli interventi edilizi.

Cart. 31 della legge urbanistica del 1942 introdusse per la prima volta l'obbligo per il proprie­tario, che intendesse eseguire nuove costruzioni, ampliare o demolire quelle esistenti, di ottenere dal Comune una licenza edilizia. Con tale autorizzazione, l'autorità amministrativa riconosceva il diritto del proprietario di costruire (jus aedificandi), rimuovendo il limite imposto dalla legge. Il proprietario cioè aveva sì il diritto di costruire, ma fin quando non avesse ottenuto la licenza, questo gli era provvisoriamente impedito.

La legge n. 10 del 1977 ha sostituito la licenza edilizia con l'istituto della concessione edili­zia, per tutte le attività che comportano la trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale. Trattandosi di una concessione, per sua caratteristica essa attribuisce al destinatario un dirit­to creato ex novo, un diritto cioè che prima egli non aveva: si è ritenuto così che la legge del 1977 avesse addirittura voluto sottrarre al proprietario del suolo il diritto di costruire‑che è una delle facoltà più pregnanti del proprietario di un bene immobile ‑, attribuendolo solo alla Pubblica Amministrazione che attraverso la concessione poteva «concederlo», in alcuni casi, ai privati.

Questa interpretazione non è stata però accolta dalla Corte Costituzionale, la quale ha affer­mato che il diritto di edificare continua ad essere compreso nelle facoltà del proprietario, con la conseguenza che l'uso del termine «concessione» non è del tutto corretto, visto che non si indivi­dua un nuovo diritto che la concessione edilizia verrebbe a creare a favore del privato. L’orienta­mento della Corte Costituzionale sembrerebbe essere stato confermato dal Testo unico in materia edilizia che ha sostituito la concessione edilizia, con il permesso di costruire: lo Stato non «conce­de», dunque, più nulla.

Il privato non subisce solo le limitazioni dei vincoli urbanistici imposti dai piani. Molte leggi, infatti, dispongono ulteriori limitazioni al diritto di proprietà che vengono indicati come vincoli speciali.

Sono vincoli speciali quelli imposti dalle leggi a tutela del paesaggio o dei beni storico‑artisti­ci o a garanzia delle cosiddette zone di rispetto.

Il vincolo speciale può limitare o addirittura annullare il diritto di edificare di un privato: ad esempio per poter realizzare degli interventi edilizi su un bene con vincolo storico‑artistico, non basta ottenere la concessione comunale ma è necessario il rilascio del nullaosta della Sovrinten­denza.

 

4. LA PIANIFICAZIONE URBANISTICA

I piani urbanistici costituiscono il principale strumento di controllo e di indirizzo urbanistico: essi hanno lo scopo di determinare l'assetto e l'incremen­to edilizio dei centri abitati e l'ordinato sviluppo urbanistico del territorio.

La legge urbanistica del 1942 ‑ che anche se in parte abrogata dal Testo unico in materia edilizia rappresenta ancora il testo fondamentale in tema di pianificazione ‑ prevede due livelli dì pianificazione: il primo livello (pianifi­cazione di direttive) ha ad oggetto ampie porzioni del territorio nazionale ed ha lo scopo di fornire direttive generali, cui devono ispirarsi ì piani urbanistici del secondo livello; questi strumenti urbanistici sono adottati da Regioni, Pro­vince o da enti locali con competenza territoriale più vasta, e hanno valore a tempo indeterminato.

Il secondo livello di pianificazione (pianificazione di attuazione) è, invece, di competenza comunale e riguarda i singoli aggregati urbani: esso ha lo sco­po di dare attuazione ai piani sovraordinati.

In sintesi, la legge urbanistica prevede un sistema gerarchico di stru­menti pianificatori: in primo luogo, i piani urbanistici programmatici (il piano regolatore generale e il programma di fabbricazione) per la discipli­na dell'intero territorio; in secondo luogo, i piani attuativi (piani particola­reggiati e altri) per la progettazione specifica delle singole aree urbane; in terzo luogo, il regolamento edilizio per la disciplina puntuale delle distan­ze, delle altezze, dell'ornato e delle altre prescrizioni costruttive dei singoli edifici.

Facendo ricorso ad uno schema largamente esemplificativo, può dirsi che la legislazione vigente prevede i seguenti tipi principali di piano:

a) piani territoriali di coordinamento regionali e provinciali, che indiriz­zano la programmazione e la pianificazione urbanistica degli enti locali, al fine di coordinare gli interventi urbanistici ed edilizi in un ambito territo­riale più vasto di quello comunale;

b) piani regolatori generali comunali, che traducono le direttive generali in prescrizioni più precise con riferimento alla totalità del territorio di un Comune.

Il piano regolatore generale comunale (PR.G.) è lo strumento urbanistico principale: esso fissa le direttive generali di sistemazione del territorio di un Comune.

La formazione del piano regolatore è obbligatoria per tutti i Comuni compresi in alcuni elen­chi del Ministero dei Lavori pubblici e delle Regioni; tutti gli altri Comuni hanno in ogni caso la facoltà di formare il proprio piano regolatore generale: se non lo fanno, devono provvedere all'adozione di un programma di fabbricazione.

Il piano regolatore generale deve contenere previsioni di localizzazione e di zonizzazione.

Per quanto riguarda le localizzazioni, il piano deve contenere la localizzazione della rete delle principali vie di comunicazione stradali, ferroviarie e navigabili; la individuazione delle aree destinate a formare spazi di uso pubblico (ad esempio, un parco pubblico), nonché delle aree da riservare ad edifici pubblici (uffici, ospedali, scuole etc.) ovvero ad opere e impianti di interesse collettivo o sociale.

Relativamente alle zonizzazioni, il piano regolatore generale deve contenere la divisione del territorio comunale in zone omogenee (centri storici, zone in cui è necessario completare l'edificazione, zone destinate ad attività industriali o agricole etc.); l'indicazione dei vincoli da osservare nelle zone di pregio storico, ambientale e paesistico; l'individuazione delle zone degradate nelle quali si rendono opportuni interventi di conservazione e risanamento (la cui esecuzione avverrà attraverso piani di recupero; la definizione delle norme per l'attuazione del piano.

Il piano regolatore comunale ha vigore a tempo indeterminato, fino a quando non venga sosti­tuito da un altro piano successivamente approvato. Non è ammissibile pertanto una delibera del Consiglio comunale di abrogazione del piano.

Le disposizioni del piano regolatore generale sono immediatamente operative per i privati (soprattutto quando contengono prescrizioni precise e dettagliate), che hanno dunque l'ob­bligo di osservare nelle costruzioni le linee e le prescrizioni di zona che sono indicate nel piano (art. 11 L. n. 1150/1942).

I piani di attuazione (come i piani particolareggiati) devono poi attenersi fedelmente alle disposizioni del piano regolatore generale. Per cui anche gli organi comunali, nell'elaborazio­ne degli strumenti urbanistici di attuazione, sono vincolati al rispetto delle prescrizioni del piano regolatore.

Come abbiamo visto, il piano regolatore ha durata a tempo indeterminato; esso però può essere modificato attraverso successive varianti, quando sono modificate le condizioni che avevano giustificato determinate disposizioni dello strumento urbanistico.

La variante è il mezzo attraverso il quale può procedersi alla revisione di un piano urbanistico adottato, quando il piano stesso è divenuto, per il sopravvenire di nuove ragioni, totalmente o parzialmente inattuabile o obsoleto. Le varianti sono largamente usate per modificare so­prattutto il piano regolatore generale che, avendo vigore a tempo indeterminato, deve poter essere adattato alle nuove esigenze.

Fino al 19851'ammissibilità di varianti al piano era subordinata ad una preventiva autorizza­zione regionale; l'art. 25 della legge n. 47/1985 ha, invece, espressamente stabilito che le va­rianti agli strumenti urbanistici non sono soggette alla preventiva autorizzazione della Regio­ne. Le varianti devono, però, essere approvate con lo stesso procedimento seguito per la for­mazione del piano da modificare.

La variante può essere parziale se riguarda una parte del piano (nuove destinazioni di zona, singoli aspetti normativi etc.) oppure totale se riguarda l'intero piano: in questo caso si tratta in realtà di un nuovo piano regolatore.

La legge prevede anche ipotesi di varianti automatiche, riconoscendo ad alcuni piani urba­nistici di attuazione la capacità di apportare deroghe alle norme del piano regolatore genera­le. Un esempio di variante automatica si ha quando vengono approvati i progetti di opere pubbliche che ricadono su aree che inizialmente non erano destinate dal piano regolatore a servizi pubblici.

Altre varianti automatiche sono quelle per la scelta di aree conseguenti all'approvazione dei piani di zona per l'edilizia economica e popolare o per la realizzazione del programma urba­no dei parcheggi;

c) programmi di fabbricazione, che possono definirsi come elementari pia­ni regolatori dei Comuni più piccoli. Anche questi, come i piani regolatori generali, sono finalizzati alla regolamentazione operativa dell'assetto ur­banistico del territorio comunale;

d) programmi pluriennali di attuazione, che sono predisposti alla tempora­lizzazione degli interventi, cioè alla indicazione delle priorità da osservare nell'attuazione degli strumenti urbanistici vigenti, indicando, nell'ambito del territorio comunale, le zone in cui lo sviluppo edilizio dovrà indiriz­zarsi;

e) piani particolareggiati di esecuzione e piani di lottizzazione, che rappre­sentano strumenti di attuazione dei piani regolatori generali.

Il piano di lottizzazione è, come il piano particolareggiato, uno strumento di attuazione del piano generale. Per lottizzazione si intende il frazionamento di un terreno (in genere non edifi­cato) in varie porzioni (lotti) per la realizzazione di uno o più fabbricati a scopo residenziale, turistico o industriale, destinati ad essere successivamente venduti. In genere la suddivisione del territorio in lotti fabbricabili è demandata ai piani particolareggiati di esecuzione, che individua­no anche le opere di urbanizzazione da realizzare, nonché le attrezzature collettive, gli impianti sportivi etc. Qualora i Comuni non abbiano proceduto alla formazione del piano particolareggia­to, i privati che intendono apportare delle modifiche all'assetto del territorio comunale, possono presentare appositi piani di lottizzazione, contenenti prescrizioni di dettaglio sostitutive di quelle omesse dal Comune al fine di armonizzare la loro iniziativa con le scelte pianificatorie degli strumenti urbanistici generali.

All'approvazione del piano da parte del Comune segue la stipula di una convenzione di lot­tizzazione (una sorta di contratto tra Comune e privato) con cui il privato assume l'obbligo di realizzare, a proprie spese, le opere di urbanizzazione primaria e una parte delle opere di urbaniz­zazione secondaria da eseguire nel perimetro del terreno da lottizzare.

I piani urbanistici limitano fortemente il diritto del proprietario di un bene immobile: essi, infatti, dividono il territorio in aree con destinazioni diverse (ad uso agricolo, ad edilizia residenziale, ad edilizia industriale, a verde pub­blico etc.), stabilendo su quali parti del territorio è possibile edificare. Posso­no anche vietare qualsiasi tipo di intervento urbanistico: in questo caso, il proprietario viene completamente spogliato del diritto di costruire sulla sua proprietà. Senza contare che il valore di un fondo in cui non è possibile co­struire né intervenire in alcun modo, è notevolmente inferiore a quello di un fondo destinato, invece, ad un uso che ne consente uno sfruttamento edilizio.

Ciò può comportare forti disparità di trattamento tra proprietari.

Numerosi limiti alla libera attività edilizia sono previsti in determinate lo­calità vicine ad opere o luoghi soggetti ad uso pubblico, al fine di tutelare preminenti interessi pubblici (sicurezza, igiene, migliore utilizzazione dei beni demaniali etc.). Si tratta per lo più di obblighi di distanza per le costruzioni in zone prossime a tali opere o luoghi, comunemente definiti zone di rispet­to.

Le zone di rispetto non sono, dunque, imposte per regolamentare il corret­to sviluppo dell'edificazíone, ma di esse deve tenersi comunque conto anche in sede di pianificazione e le stesse devono essere riportate nei piani urbani­stici generali.

Per evitare pericoli per l'incolumità delle persone è vietato ad esempio costruire in vicinanza degli aeroporti, ciò al fine di impedire che gli edifici possano essere coinvolti in incidenti e nello stesso tempo evitare che le costru­zioni, soprattutto quelle più alte, possano costituire un pericolo durante le fasi di decollo e atterraggio.

Sono previste le seguenti zone di rispetto:

a) zone di rispetto dei cimiteri.

Lart. 338 del TU. 27‑7‑1934, n. 1265 (TU. delle leggi sanitarie) prescrive che i cimiteri debbo­no essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dai centri abitati. È inoltre vietato costru­ire nuovi edifici intorno ai cimiteri, entro il raggio di 200 metri dal perimetro dello stesso cimitero;

b) zone di rispetto delle ferrovie.

Ai sensi del D.P.R. 11‑7‑1980, n. 753 è vietato costruire, lungo i tracciati delle linee ferroviarie, ad una distanza minore di 30 metri dal limite della zona di occupazione della più vicina rotaia. Per le tranvie, ferrovie metropolitane e funicolarí su rotaia, la distanza minima è ridot­ta a 6 metri;

c) zone di rispetto del demanio marittimo (art. 55 codice navigazione);

d) zone di rispetto degli aeroporti.

Gli artt. 714‑717bis del codice della navigazione prevedono limitazioni della proprietà privata per la tutela della navigazione aerea. In particolare, nelle direzioni di atterraggio degli aeroporti non possono essere eseguite tra l'altro, costruzioni a distanza inferiore a 300 metri dal perimetro dell'aeroporto;

e) zone di rispetto delle aree doganali;

f) zone di rispetto delle acque pubbliche.

Inoltre, il nuovo codice della strada (D.Lgs. 30‑4‑1992, n. 285) ha ridisciplinato le distanze dalle strade da osservarsi fuori dei centri abitati, imponendo, altresì, fasce di rispetto ed aree di visibilità nei centri abitali.

Altra importante limitazione all'attività urbanistica ed edilizia è stata imposta dalla legge 1 marzo 1975, n. 47, modificata ed integrata dall'ari. Ibis del D.L. 30‑8‑1993, n. 332, convertito nella legge 29 ottobre 1993, n. 428. Tale legge, infatti ‑ per combattere il triste fenomeno degli incendi dolosi di boschi, finalizzati alla speculazione edilizia ‑ disponeva che nelle zone di bosco interessate da incendi fosse vietato l'insediamento di costruzioni di qualsiasi tipo. Alle zone mede­sime, inoltre, nella formazione degli strumenti urbanistici, non poteva darsi destinazione diversa da quella in alto prima dell'incendio.

La materia è attualmente disciplinata dalla legge 21‑11‑2000, n. 353, in base alla quale le zone boscate ed i pascoli i cui suoli siano stati percorsi dal fuoco non possono avere una destinazione diversa da quella preesistente all'incendio per almeno 15 anni.

Sui predetti suoli sono vietati:

per 10 anni, la realizzazione di edifici e di strutture finalizzate ad insediamenti civili e attività produttive;

per 5 anni, le attività di rimboschimento e di ingegneria ambientale sostenute con risorse

finanziarie pubbliche;

per 10 anni, il pascolo e la caccia limitatamente ai suoli percorsi dal fuoco.

 

5. L'ATTIVITA EDILIZIA

Con il termine edilizia, spesso usato in unione o in alternativa al termine urbanistica, si indica la branca del diritto urbanistico che si occupa specifica­tamente degli aspetti esecutivi dell'attività edilizia. Per attività edilizia si in­tende, inoltre, la costruzione di manufatti stabili destinati a soddisfare biso­gni abitativi (case, palazzi, strade etc.) o produttivi (fabbriche, uffici, negozi, centri commerciali, centri direzionali etc.).Come abbiamo visto, il diritto di edificare o ius aedificandi spetta al pro­prietario del suolo su cui viene costruito il manufatto e costituisce, quindi, estrinsecazione del diritto di proprietà. Tuttavia, l'attività edilizia è sottoposta al controllo della Pubblica Amministrazione, che vigila sull'assetto del territo­rio e sullo sviluppo urbanistico.

Gli strumenti attraverso i quali la PA., dopo aver provveduto alla pianifica­zione urbanistica generale, controlla e regola attualmente il concreto eserci­zio del diritto di edificare sono il permesso di costruire (che dopo il Testo Unico in materia edilizia ha preso il posto della concessione edilizia), la de­nuncia di inizio attività ed il regolamento edilizio.

Abbiamo esaminato, nelle pagine precedenti, gli strumenti urbanistici che disciplinano l'assetto del territorio: in base ad essi, il privato rimane, però,

alquanto libero dì costruire come meglio crede, per lo meno nelle zone desti­nate allo sviluppo edilizio. Le norme che disciplinano le modalità di costru­zione e le caratteristiche fondamentali che devono avere gli edifici sono, inve­ce, contenute in alcune leggi speciali ma prevalentemente nei regolamenti edilizi.

Il regolamento edilizio è lo strumento urbanistico che tutti i Comuni sono obbligati ad adottare: esso contiene norme pratiche relative all'edifica­zione, cioè all'attività di costruzione, al fine di garantire l'incolumità pubbli­ca, l'igiene, l'estetica e l'ordinato sviluppo dei centri abitati (la funzione e i contenuti di esso sono definiti dall'art. 33 della legge urbanistica fondamen­tale).

Se i piani urbanistici stabiliscono se, cosa e quando edificare, il regolamen­to stabilisce come edificare. In termini concreti, la differenza si può così sinte­tizzare:

il piano urbanistico stabilisce dove costruire;

il regolamento edilizio stabilisce come costruire.

Ai sensi dell'art. 33, L. n. 115011923, il regolamento edilizio comprende norme di vario tipo, concernenti:

l'altezza minima e massima dei fabbricati;

gli eventuali distacchi dai fabbricati vicini e dal filo stradale;

l'ampiezza e la formazione dei cortili e degli spazi interni;

le sporgenze sulle vie e piazze pubbliche;

l'aspetto dei fabbricati e il decoro dei servizi e degli impianti (come tabelle stradali, mostre e affissi pubblicitari, impianti igienici pubblici etc.);

l'igiene degli edifici;

le prescrizioni costruttive da osservare in determinati quartieri o lungo determinate piazze o vie;

l'apposizione e la conservazione dei numeri civici;

le cautele da osservare a garanzia della pubblica incolumità per l'esecuzione delle opere edilizie, per l'occupazione del suolo pubblico, per i lavori nel sottosuolo etc.;

la formazione, le attribuzioni e il funzionamento della Commissione edilizia comunale;

la presentazione delle domande di concessione di costruzione o trasformazione di fabbricati etc.

Il Testo unico in materia edilizia abroga l'art. 33 della legge urbanistica e all'articolo 4 defini­sce in maniera più sintetica i contenuti del regolamento edilizio, che attualmente disciplina le modalità costruttive, con particolare riguardo al rispetto delle normative tecnico‑estetiche, igieni­co‑sanitarie, di sicurezza e vivibilità degli immobili e delle pertinenze di essi.

Nei Comuni privi di un piano regolatore generale, nel regolamento edilizio deve essere inclu­so anche il programma di fabbricazione, che è, come abbiamo visto, uno strumento urbanisti­co (simile al piano regolatore) diretto ad assicurare quel minimo di disciplina urbanistica indi­spensabile per un ordinato sviluppo edilizio degli abitati.

 

 

 

6. LA LEGISLAZIONE SPECIALE IN MATERIA EDILIZIA

Numerose sono le leggi speciali che dettano norme in materia edilizia per meglio regolamentare l'attività edificatoria del privato. Passìamo ad analizza­re le più importanti.

 

a) Norme antisismiche

Per le costruzioni da realizzare nei Comuni siti in zone sismiche, la legge del 2 febbraio 1974, n. 64 dispone alcune norme tecniche, cui i progettisti devono attenersi per garantire la sicurezza e l'incolumità pubblica, concer­nenti l'altezza degli edifici, le distanze tra essi, gli elementi strutturali, i siste­mi costruttivi etc.

Chiunque intenda iniziare lavori edilizi in zone sismiche deve presentare una preventiva denuncia al Comune e all'ufficio tecnico della Regione; unita­mente alla domanda bisogna presentare il progetto in duplice copia firmato da un ingegnere, architetto o geometra iscritto all'albo; è necessaria inoltre (tranne che nelle zone a bassa sismicità) un autorizzazione preventiva all'ini­zio dei lavori, rilasciata dall'ufficio tecnico della Regione (Genio Civile).

Sono da evidenziare in materia antisismica anche il D.M. 16 gennaio 1996 contenente «Norme tecniche per le costruzioni in zone sismiche», e il D.M. 28 settembre 1998, n. 499 recante norme in materia di agevolazioni per i territori di Umbria e Marche colpiti da eventi sismici e per le zone ad elevato rischio sismico.

Il Testo unico in materia edilizia, nella seconda parte, contiene numerose disposizioni relative alle costruzioni in zone sismiche (artt. 83‑106), sostanzialmente conformi alle disposizioni della legge n. 6411974 che, si badi, non è stata abrogata dal predetto Testo unico.

 

b) Norme sulle opere in cemento armato

La legge 5 novembre 1971, n. 1086 disciplina le opere da realizzare in con­glomerato cementizio e strutture metalliche, per la cui esecuzione è necessa­ria una denuncia preventiva e un collaudo statico successivo. II Testo unico in materia edilizia si occupa anche delle opere in conglomera­to cementizio armato, normale e precompresso e a struttura metallica (artt. 64­81) riproducendo il disposto della vecchia normativa. Sono opere in conglomerato cementizio armato normale, quelle composte da un com­plesso di strutture in conglomerato cementizio e armature che assolvono a una funzione statica. Sono opere in conglomerato cementizio armato precompresso, quelle composte di strut­ture in conglomerato cementizio e armature nelle quali si imprime artificialmente una stato di sollecitazione addizionale di natura ed entità tali da assicurare permanentemente l'effetto statico voluto. Sono opere a struttura metallica quelle nelle quali la statica è assicurata in tutto o in parte da elementi strutturali in acciaio o in altri metalli. Queste definizioni sono date dall'art. 53 del Testo unico. La realizzazione delle opere in cemento armato deve avvenire in modo tale da assicurare la perfetta stabilità e sicurezza delle strutture e da evitare qual­siasi pericolo per la pubblica incolumità. Il progetto della costruzione deve essere redatto da un tecnico abilitato, iscritto nel relativo Albo. Le opere in cemento armato devono poi essere de­nunciate, prima del loro inizio, allo sportello unico dell'edilizia e devono esse­re sottoposte a collaudo statico. Il collaudo deve essere eseguito da un ingegnere o da un architetto esperto, iscritto all'Albo da almeno 10 anni, che non sia intervenuto in alcun modo nella progettazione e nella realizzazione delle opere.

 

c) Norme sull'igiene nell'edilizia

Il Testo unico delle leggi sanitarie del 27 luglio 1934, n. 1265 e i numerosi regolamenti comunali di igiene stabiliscono le condizioni minime di igiene nei fabbricati, affinché in tutte le abitazioni non manchino acqua e luce, vi sia un efficiente sistema di smaltimento delle acque luride senza alcun inquinamen­to del suolo; l'acqua potabile nei pozzi, nei serbatoi e nelle condutture non sia inquinata. Il contenuto dei regolamenti comunali di igiene è poi integrato dal Decreto Ministeriale 5 luglio 1975 che detta i requisiti minimi di altezza interna dei locali abitabili, le superfici minime abitabili, le norme sul riscaldamento, sul­la illuminazione naturale, sulla ventilazione e sui bagni nelle abitazioni non­ché le norme sull'isolamento acustico degli ambienti. La legge 27 maggio 1975, n. 166 prevede poi ulteriori disposizioni sui ser­vizi igienici (che possono in alcuni casi, essere privi di aerazione ed illumina­zione) e sulle scale che possono anche essere prive di finestre. Altre norme sono previste per l'igiene degli ambienti di lavoro, come il D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626 che, in attuazione di direttive CE, disciplina il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di lavo­ro.

 

d) Norme sulle barriere architettoniche

Molteplici sono i provvedimenti destinati ad assicurare l'utilizzo di tutti gli spazi e di tutti gli edifici da parte dei portatori di handicap nonché ad incentivare l'eliminazione di qualsivoglia barriera architettonica (attraverso l'abbat­timento di scale e scalini, la creazione di varchi sufficientemente larghi, l'in­stallazione di ascensori etc.). Le leggi 30 marzo 1971, n. 118 e 5 febbraio 1992, n. 104 ed il D.P.R. 24 luglio 1996, n. 503 dettano norme per facilitare l'accesso a mutilati ed invalidi in tutti i luoghi pubblici (come gli uffici comunali, le Prefetture, gli ospedali etc.) e aperti al pubblico (teatri, cinema, stadi etc.) nonché nelle scuole. Per l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati è inter­venuta la legge 9 gennaio 1989, n. 13.

 

e) Norme per la sicurezza degli impianti

La materia della sicurezza degli impianti ha trovato una organica regola­mentazione con la L. 5 marzo 1990, n. 46. Tale legge si applica agli edifici adibiti ad uso civile (abitazioni, studi professionali, sedi di enti privati come circoli, associazioni, conventi etc.). Gli impianti soggetti alla legge n. 46/1990 sono:

gli impianti di produzione, di trasporto, di distribuzione e di utilizzazione dell'energia elettrica all'interno degli edifici;

gli impianti radiotelevisivi ed elettronici in genere, le antenne e gli impianti di protezione da scariche atmosferiche (parafulmini);

gli impianti di riscaldamento e di climatizzazione;

gli impianti idrosanitari nonché quelli di trasporto, di trattamento, di uso, di accumulo e di consumo di acqua all'interno degli edifici;

gli impianti per il trasporto e l'utilizzazione di gas allo stato liquido o aeriforme all'interno degli edifici;

gli impianti di sollevamento di persone o di cose per mezzo di ascensori, di montacarichi, di scale mobili e simili;

gli impianti di protezione antincendio.

Sono abilitate alla installazione, trasformazione, ampliamento e manuten­zione degli impianti le imprese iscritte negli appositi registri o albi e in pos­sesso di specifici requisiti tecnico‑professionali. Per l'installazione, la trasformazione e l'ampliamento degli impianti è ob­bligatoria la redazione di un progetto da parte di professionisti, iscritti negli albi professionali nell'ambito delle rispettive competenze. Al termine dei lavo­ri l'impresa installatrice è tenuta a rilasciare una dichiarazione di conformità delle opere realizzate alle norme di legge. Il Comune rilascia il certificato di abitabilità dopo aver acquisito la dichiarazione di conformità o il certificato di collaudo degli impianti installati, ove previsto. Il Testo unico in materia edilizia si occupa anche della sicurezza degli im­pianti (artt. 107‑121) riproducendo e riordinando le norme della legge n. 46/ 1990. Un'importante novità è contenuta nell'art. 111, che introduce una procedu­ra semplificata per il collaudo degli impianti: qualora, infatti, il committente dichiari, prima dell'inizio dei lavori, che gli impianti da installare saranno collaudati da tecnici terzi che non abbiano partecipato in alcun modo alla progettazione, alla direzione e alla realizzazione dell'opera, potrà essere eso­nerato dall'obbligo di presentare il progetto. In questo caso, però, la certifica­zione redatta dal tecnico collaudatore dovrà essere trasmessa allo sportello unico per l'edilizia.

 

7. L'EDILIZIA RESIDENZIALE

Per garantire a tutti i cittadini (anche ai ceti meno ricchi) il diritto alla casa, lo Stato è intervenuto con numerosi provvedimenti legislativi al fine di incrementare l'edilizia pubblica, cioè l'attività di costruzione di alloggi popola­ri con finanziamenti in tutto o in parte statali. Tali provvedimenti in alcuni casi si sono limitati a favorire l'attività creditizia, ossia la concessione di mu­tui agevolati a favore delle categorie più disagiate di cittadini, in altri casi sono stati diretti ad incentivare la costruzione di case di tipo popolare, attraverso esenzioni fiscali e finanziamenti delle opere di urbanizzazione.

Il provvedimento più importante è ancora la legge 18 aprile 1962, n. 167 (modificata e integrata dalla legge 22 ottobre 1971, n. 865), che ha istituito i piani di zona per l'edilizia economica e popolare, da inquadrare nel piano regolatore generale o nel programma di fabbricazione, alfine di evitare che la programmazione dell'edilizia economica e popolare assuma il carattere di una pianificazione settoriale, dunque non in linea con la pianificazione dell'intero organismo urbano.

Tali piani furono istituiti allo scopo di evitare che l'edilizia residenziale pubblica continuasse a svilupparsi in modo disordinato e frammentario ed in zone di estrema periferia, prive di attrezzature e servizi complementari, urba­ni e sociali.

Il piano di zona (obbligatorio per tutti i Comuni tenuti a formare i pro­grammi pluriennali di attuazione) deve, dunque, individuare le aree dove co­struire case economiche e popolari, scegliendole di regola, nelle zone destina­te ad edilizia residenziale nei piani regolatori e preferibilmente in quelle di espansione dell'aggregato urbano. Qualora ciò non sia possibile, i piani di zona possono introdurre modifiche ai piani regolatori, che costituiscono vere e proprie varianti agli stessi. Il piano di zona ha efficacia per 18 anni. Tale termine, comunque, può essere prorogato dalla Regione, su richiesta del Comune, in presenza di valide e motivate ragioni. L’approvazione del piano comporta la dichiarazione di pubblica utilità di opere, impianti ed edifici in esso previsti e tutte le aree comprese nel piano vanno acquisite per espropriazione.

Una porzione di tali aree andrà a far parte del demanio comunale ed il Comune potrà soltanto cedere, a coloro che intendano promuovere iniziative costruttive, il diritto di superficie (per una durata non inferiore a 60 anni e non superiore a 99 anni). La porzione residua può essere venduta a cooperative o singoli acquirenti che siano in possesso dei requisiti previsti dalle disposizioni vigenti per l'asse­gnazione degli alloggi economici e popolari. Il legislatore (con la legge 5 agosto 1978, n. 457) è intervenuto anche per disciplinare gli interventi di recupero del patrimonio edilizio degradato, prevedendo per essi un nuovo strumen­to urbanistico, i piani di recupero. Come abbiamo già visto, le zone di recupero sono individuate nei piani regolatori generali, mentre il piano di recupero (approvato dal Comune) deve individuare i vari tipi di intervento previsti sui singoli immobili che presentano condizioni di degrado o dove sono carenti le opere di urbanizzazione primaria e secondaria; deve individuare, inoltre, le risorse economiche disponi­bili per l'attuazione del piano stesso, nonché le opere che devono essere realizzate direttamente dal Comune o dai privati.

t:individuazione delle zone di recupero può comprendere: immobili singoli, complessi edili­zi, isolati, aree ed edifici da destinare ad attrezzature, per i quali appaiono opportuni interventi di conservazione, risanamento, ricostruzione o anche solo di migliore utilizzazione.

I Comuni possono provvedervi:

in sede di formazione del piano regolatore generale o del programma di fabbricazione;

oppure, qualora tali strumenti siano già stati adottati, con apposita delibera del Consiglio comunale.

 

8. I PARCHEGGI

L'emergenza parcheggi, cioè la carenza di posti auto coperti o scoperti desti­nati alla sosta dei veicoli, è uno dei più grossi problemi che le amministrazio­ni comunali, soprattutto delle grandi città, sono chiamate attualmente ad af­frontare.

Anche in questo settore, il legislatore è più volte intervenuto dettando nor­me diverse per due tipi di parcheggio, quello pubblico e quello privato.

 

a) Parcheggi pubblici

Secondo quanto dispone il D.M. 2 aprile 1968, i Comuni nella formazione dei loro piani urbanistici devono riservare per ogni cittadino almeno 2,5 mq di superficie da adibire a parcheggio pubblico (ma tale disposizione non è quasi mai stata rispettata). La Regione può poi individuare i Comuni che devono dotarsi di un pro­gramma urbano dei parcheggi, finalizzato a favorire il decongestionamento dei centri urbani, mediante la creazione di parcheggi nonché l'imposizione di regole sulla circolazione e la sosta dei veicoli nelle aree urbane. L'approvazione del piano costituisce (come il piano particolareggiato) di­chiarazione di pubblica utilità: per cui, qualora un parcheggio pubblico venga localizzato su aree di proprietà privata, il Comune potrà procedere diretta­mente all'espropriazione delle aree medesime.

 

b) Parcheggi privati

La legge fondamentale in materia è la legge 24 marzo 1989, n. 122 (detta anche legge Tognoli, dal nome del suo promotore): essa dispone che in tutti gli edifici nuovi devono essere riservate a parcheggio delle aree, in misura non inferiore a 1 mq per ogni 10 mc di costruzione (praticamente 8 metri di par­cheggio per un mini appartamento di due vani ed accessori, con la possibilità di parcheggiare due utilitarie o un'auto più grande ed una moto). Negli edifici già esistenti, l'ari. 9 della legge n. 122/1989 consente ai pro­prietari di immobili di realizzare (nei locali siti al piano terreno o nel sotto­suolo dell'edificio) parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità im­mobiliari (ossia dei singoli appartamenti), anche in deroga agli strumenti ur­banistici ed ai regolamenti edilizi. I parcheggi da creare in edifici già esistenti, pur costituendo una pertinen­za dell'immobile principale, non possono essere ceduti separatamente dal­l'appartamento al quale sono legati (e i relativi atti di trasferimento sono nul­li). Per cui il proprietario di un box non potrà vendere, donare o dare in usu­frutto questo bene, se non insieme all'appartamento cui questo è connesso.

 

9. DALLA CONCESSIONE EDILIZIA AL PERMESSO DI COSTRUIRE

L'attività edilizia non è libera per il privato; questo, infatti, per poter ese­guire un qualunque tipo di intervento edilizio, deve ottenere l'assenso, esplici­to o implicito, dell'autorità comunale. La legge 28 gennaio 1977, n. 10 ha introdotto nel nostro ordinamento la concessione edificatoria per tutte le attività che comportano una trasforma­zione urbanistica ed edilizia del territorio comunale. La concessione edilizia viene rilasciata dal Comune dietro pagamento, da parte del privato che la richiede, di un contributo commisurato all'incidenza delle spese di urbanizza­zione ed al costo di costruzione dell'opera. La concessione edilizia è, dunque, onerosa. Sono soggette a concessione tutte le attività comportanti trasformazioni urbanistiche ed edilizie del territorio, vale a dire le nuove costruzioni, gli am­pliamenti, le modifiche o le demolizioni di quelle esistenti nonchè le opere di urbanizzazione del terreno. Sono soggette a concessione anche le opere che privati o enti pubblici (diversi dallo Stato) intendono realizzare su aree dema­niali o più in generale su tutti gli immobili di proprietà dello Stato sui quali altri soggetti (privati o pubblici) abbiano un diritto di godimento. Restano esclusi dal regime concessorio i manufatti di assoluta ed evidente precarietà, destinati cioè a soddisfare esigenze di carattere contingente e ad essere presto eliminati (es. le baracche per il ricovero delle persone e degli attrezzi di un cantiere).

Il procedimento per ottenere la concessione è alquanto articolato. Esso consta delle seguenti fasi:

presentazione della domanda di concessione da parte del privato, corredata da un regolare progetto e dai relativi disegni e planimetrie. Può presentare la domanda il proprietario del bene sul quale deve compiersi la trasformazione urbanistica o edilizia, ma anche chi è titola­re di un diritto di usufrutto o di superficie ed in generale chiunque ha, secondo le norme del diritto civile, il diritto di costruire sopra un bene altrui;

al momento della presentazione della domanda, il Comune comunica all'interessato il nome del responsabile del procedimento;

l'esame delle domande deve svolgersi secondo l'ordine di presentazione;

entro 60 giorni dalla presentazione della domanda (sono 120 giorni nel caso di Comune con più di 100.000 abitanti), il responsabile del procedimento deve redigere una relazione da cui risulti la valutazione della conformità del progetto alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie. Il responsabile del procedimento deve anche richiedere il parere della Commissione edilizia comunale, che però non è mai vincolante;

trascorsi i 60 (o 120) giorni, il responsabile del procedimento, entro 10 giorni, deve redigere un'altra relazione, in cui formula la sua opinione circa l'emanazione della concessione;

nei successivi 15 giorni il dirigente dell'ufficio tecnico del Comune deve rilasciare la concessio­ne edilizia, qualora il progetto presentato non sia in contrasto con le prescrizioni degli stru­menti urbanistici ed edilizi o con le altre prescrizioni di legge. In caso contrario deve rifiutare il rilascio della concessione;

se entro 15 giorni l'autorità comunale non provvede al rilascio (o al diniego) della concessio­ne, l'interessato può invitarla ad emanare la concessione nei successivi 15 giorni. Se anche dopo questo sollecito, il dirigente comunale non provvede, può essere chiesta alla Giunta Regionale la nomina di un commissario ad acta che provvederà all'adozione di un provvedi­mento con gli stessi effetti della concessione edilizia.

Allo scopo di evitare che una costruzione autorizzata in un determinato momento venga realizzata quando la situazione ambientale ed urbanistica è mutata, nell'atto di concessione de­vono essere fissati il termine di inizio dei lavori (non superiore ad un anno) e quello di ultimazione degli stessi (non superiore ai tre anni). Se non vengono rispettati questi termini, la concessione decade.

Come abbiamo già visto, il rilascio della concessione è subordinato al pagamento da parte del richiedente, di una somma di danaro (contributo o onere concessorio), articolata in due quote:

una commisurata alle spese che il Comune deve affrontare per le opere di urbanizzazione primaria e secondaria (per realizzare cioè strade, fognature, rete elettrica, edifici sanitari, scolastici, impianti sportivi etc.);

l'altra è proporzionalmente commisurata al costo di costruzione dell'edificio e determina­ta dalla Regione in funzione delle caratteristiche di costruzione, destinazione e ubicazio­ne.

La quota di contributo per gli oneri di urbanizzazione deve essere corrisposta al Comune all'atto del rilascio della concessione (può anche essere rateizzata); la quota di contributo commi­surata al costo di costruzione deve essere versata nel corso dell'opera e le relative modalità di pagamento vengono indicate dal Comune nell'atto di concessione.

Con il Testo unico in materia edilizia (D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380), la cui entrata in vigore è fissata al 30 giugno 2003 (salvo proroghe), la concessione edilizia è stata sostituita dal permesso di costruire. In realtà si tratta solo di una modifica terminologica, perché in sostanza l'istituto è rimasto lo stesso. In parte, invece, è cambiata la procedura.

Tra le novità introdotte dal Testo urico in materia edilizia vi è quella dell'introduzione dello sportello unico per l'edilizia destinato a semplificare la procedura di rilascio. In questo modo gli interessati non dovranno più rivolgersi a uffici diversi e presentare più domande distinte in relazione ad un medesimo procedimento.

La domanda per ottenere il rilascio del permesso di costruire va, infatti, presentata allo spor­tello unico per l'edilizia, corredata dagli elaborati progettuali nonché da un'autocertificazione circa la conformità del progetto alle norme igienico sanitarie.

Lo sportello unico, entro 10 giorni (20, nei Comuni con più di 100.000 abitanti) dalla presentazione della domanda, comunica all'interessato il nominativo del responsabile del procedimento, che entro 60 giorni (120 nei Comuni con più di 100.000 abitanti) deve curare la pratica e acquisire i necessari pareri degli uffici comunali, nonché dell'ASL e dei Vigili del Fuoco.

Entro 15 giorni dalla formulazione della proposta del responsabile del procedimento, il diri­gente o il responsabile del competente ufficio comunale deve adottare il provvedimento finale (rilascio o diniego del permesso). Trascorso inutilmente questo termine, la domanda si intende rifiutata e quindi il permesso di costruire è negato.

Possono essere realizzati solo se il Comune rilascia il permesso di costrui­re (art. 10 Testo unico) i seguenti interventi:

le nuove costruzioni, cioè la costruzione di nuovi edifici fuori terra o inter­rati, ovvero l'ampliamento di quelli esistenti all'esterno della sagoma esi­stente;

gli interventi di ristrutturazione urbanistica;

gli interventi di ristrutturazione edilizia che comportano aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle su­perfici, ovvero che limitatamente agli immobili dei centri storici, compor­tino mutamenti della destinazione d'uso.

L'articolo 3 del Testo unico definisce le varie tipologie di intervento e per la prima volta dà la definizione di nuova costruzione, che in passato aveva creato non pochi problemi a privati e Comuni per la sua individuazione.

Riportiamo il testo dell'articolo 3:

«Art. 3 (L) ‑ Definizioni degli interventi edilizi.

1. Ai fini del presente testo unico si intendono per:

interventi di manutenzione ordinaria, gli interventi edilizi che riguardano le opere di ripara­zione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici e quelle necessarie ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti;

interventi di manutenzione straordinaria, le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico­sanitari e tecnologici, sempre che non alterino i volumi e le superfici delle singole unità immobi­liari e non comportino modifiche delle destinazioni di uso;

interventi di restauro e di risanamento conservativo, gli interventi edilizi rivolti a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'organismo stesso, ne consen­tano destinazioni d'uso con essi compatibili. Tali interventi comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli elementi accesso­ri e degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso, l'eliminazione degli elementi estranei all'orga­nismo edilizio;

interventi di ristrutturazione edilizia, gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi ele­menti ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisi­smica;

interventi di nuova costruzione, quelli di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti. Sono comunque da considerarsi tali:

e. 1) la costruzione di manufatti edilizi fuori terra o interrati, ovvero l'ampliamento di quelli esistenti all'esterno della sagoma esistente, fermo restando, per gli interventi pertinenziali, quan­to previsto alla lettera e.6);

e.2) gli interventi di urbanizzazione primaria e secondaria realizzati da soggetti diversi dal comune;

e.3) la realizzazione di infrastrutture e di impianti, anche per pubblici servizi, che comporti la trasformazione in via permanente di suolo inedificato;

e.4) l'installazione di torri e tralicci per impianti radio‑ricetrasmittenti e di ripetitori per i servizi di telecomunicazione;

e.5) l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulotte, camper, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee;

e.6) gli interventi pertinenziali che le norme tecniche degli strumenti urbanistici, in relazione alla zonizzazione e al pregio ambientale e paesaggistico delle aree, qualifichino come interventi di nuova costruzione, ovvero che comportino la realizzazione di un volume superiore al 20% del volume dell'edificio principale;

e.7) la realizzazione di depositi di merci o di materiali, la realizzazione di impianti per attività produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione per­manente del suolo inedificato;

interventi di ristrutturazione urbanistica, quelli rivolti a sostituire l'esistente tessuto urbani­stico‑edilizio con altro diverso, mediante un insieme sistematico di interventi edilizi, anche con la modificazione del disegno dei lotti, degli isolati e della rete stradale.

2. Le definizioni di cui al comma 1 prevalgono sulle disposizioni degli strumenti urbanistici generali e dei regolamenti edilizi. Resta fermala definizione di restauro prevista dall'articolo 34 del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo unico sui beni culturali e ambientali)».

Per alcuni tipi di intervento, non è necessaria la concessione edilizia, ma è sufficiente ottenere dal Comune un'autorizzazione gratuita, per la quale è prevista anche una procedura più semplice di rilascio che non prevede il pa­gamento di alcun contributo concessorio.

Possono essere realizzati in base ad autorizzazione gratuita:

gli interventi di manutenzione straordinaria, cioè quegli interventi che non sono diretti alla conservazione e al mantenimento dell'immobile, ma inci­dono direttamente su parti (anche strutturali) dell'edificio, come la realizzazione di scale, il rifacimento di solai etc.;

gli interventi di restauro e di risanamento conservativo diretti al recupero abitativo di edifici preesistenti;

le opere costituenti pertinenze o impianti tecnologici al servizio di edifici già esistenti;

le occupazioni di suolo mediante deposito di materiale o esposizione di merci a cielo libero; le opere di demolizione; i reintegri e gli scavi;

gli interventi finalizzati al superamento e all'eliminazione di barriere architettoniche negli edifici privati, consistenti in rampe o ascensori ovvero in manufatti che alterino la sagoma dell'edificio;

gli interventi rivolti alla realizzazione di parcheggi privati, da effettuare (anche in deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti) nei locali siti al piano terreno ovvero nel sottosuolo dei fabbricati.

L:autorizzazione gratuita è stata soppressa dal Testo unico in materia edili­zia, per il quale tutti gli interventi sono subordinati a seconda dei casi, al permesso di costruire o alla denuncia di inizio attività.

Per accelerare la procedura di autorizzazione degli interventi edilizi di mi­nor impatto, la legge n. 662/1996 ha previsto la possibilità di realizzare alcune opere presentando una semplice denuncia di inizio attività. Tale denuncia (accompagnata dagli opportuni elaborati tecnici e progetti) deve essere pre­sentata dal proprietario dell'immobile, al Comune almeno 20 giorni prima dell'inizio dei lavori, insieme ad una relazione di un progettista che accerti la conformità delle opere da realizzare, agli strumenti urbanistici e ai regola­menti edilizi, nonché il rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienico­sanitarie.

Il progettista abilitato deve emettere, inoltre, alla fine dei lavori, un certifi­cato di collaudo che attesti la conformità dell'opera al progetto presentato.

La d.i.a. ‑ che è gratuita, non comporta cioè per il privato il pagamento di alcun contributo concessorio ‑ è finalizzata a consentire il controllo dell'Am­ministrazione comunale soprattutto in ordine alla correttezza della qualifica­zione dell'intervento che si vuole realizzare e quindi in ordine all'effettivo ri­spetto della normativa urbanistica ed edilizia e delle vigenti prescrizioni tec­nico‑edilizie. Il Comune, infatti, deve verificare, nei 20 giorni concessi prima dell'inizio dei lavori, il rispetto delle leggi e degli strumenti urbanistici. Qualo­ra il progetto non rispettasse le leggi o gli strumenti urbanistici, il Comune può vietare l'inizio dei lavori.

Gli interventi che sono eseguibili presentando la semplice denuncia di ini­zio attività sono stati recentemente estesi dalla legge 21 dicembre 2001, n.443 (cd. legge obiettivo). Si tratta di interventi che spesso sono già assoggettati a concessione edili­zia o ad autorizzazione gratuita; in questo caso il proprietario può scegliere se seguire le procedure ordinarie e più complesse o procedere con la d.i.a. È ovvio che qualora si tratti di interventi per i quali la legge assoggetta a conces­sione edilizia e, quindi, per i quali è previsto il pagamento degli oneri conces­sori, la d.i.a. perde il suo carattere di gratuità: il privato si troverà a pagare gli oneri concessori anche nel caso in cui scelga il regime semplificato della d.i.a.

La legge n. 443/2001 che ha introdotto la cd. superdia ha avuto un impatto dirompente dal momento che oltre a confermare il regime semplificato per quegli interventi che già prima erano soggetti a d.i.a. (interventi edilizi minori, come opere di manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo, opere di eliminazione delle barriere architettoniche consistenti in rampe o ascensori esterni, recinzioni, muri di cinta e cancellate, opere interne di singole unità immobi­liari che non comportino modifiche della sagome e dei prospetti, realizzazione di volumi tecnici etc.), lo ha esteso anche ad altri interventi di forte impatto edilizio:

ristrutturazioni edilizie, ivi comprese la demolizione e la ricostruzione dell'edificio identico;

tutti gli interventi sottoposti a concessione edilizia (questa è veramente una rivoluzione!), alla sola condizione che gli stessi siano disciplinati specificatamente nei piani attuativi approvati dal Comune (piani regolatori, programmi di fabbricazione, piani di lottizzazione, regolamen­ti edilizi), che devono contenere precise disposizioni planovolumetriche, tipologiche, formali e costruttive. In sintesi, in questi casi il controllo del Comune sulle attività edilizie ed in particolare sulle nuove costruzioni non avviene al momento della presentazione della do­manda di concessione edilizia, ma prima, al momento della stesura ed approvazione degli strumenti urbanistici di attuazione;

i sopralzi, le addizioni, gli ampliamenti e le nuove edificazioni in diretta esecuzione di altri strumenti urbanistici e di attuazione. Attualmente, dunque, sono soggetti a denuncia di inizio attività:

gli interventi edilizi minori quali:

a) le opere di manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conser­vativo;

b) le opere di eliminazione delle barriere architettoniche in edifici esisten­ti consistenti in rampe o ascensori esterni, ovvero in manufatti che non alterino la sagoma dell'edificio;

c) recinzioni, muri di cinta e cancellate;

d) la realizzazione di aree destinate ad attività sportive senza creazione di volumetria;

e) le opere interne di singole unità immobiliari che non comportino modi­fiche della sagoma e dei prospetti e non rechino pregiudizio alla statica dell'immobile;

f) la revisione o installazione di impianti tecnologici al servizio di edifici o di attrezzature esistenti e la realizzazione di volumi tecnici che si ren­dano indispensabili, sulla base di nuove disposizioni;

g) le varianti a concessioni edilizie già rilasciate che non incidano sui pa­rametri urbanistici e sulle volumetrie, che non cambiano la destinazione d'uso e la categoria edilizia e non alterino la sagoma e non violino le eventuali prescrizioni contenute nella concessione edilizia;

h) la realizzazione di parcheggi di pertinenza nel sottosuolo del lotto su cui insiste il fabbricato;

le ristrutturazioni edilizie, comprensive della demolizione. e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma;

gli interventi sottoposti a concessione, se sono specificatamente discipli­nati da piani attuativi che contengano precise disposizioni plano-volume­triche, tipologiche, formali e costruttive;

i sopralzi, le addizioni, gli ampliamenti e le nuove edificazioni in esecuzio­ne di idonei strumenti urbanistici attuativi.

Inizialmente, il procedimento della denuncia di inizio attività non era am­messo per gli immobili vincolati (per i quali era richiesta sempre la conces­sione edilizia) o comunque compresi in zona vincolata a fini di tutela paesag­gistica, ambientale, storico‑archeologica, storico‑artistica e storico‑architet­tonica.

Oggi, invece, il T .U. sui beni culturali e ambientali (D.Lgs. 29 ottobre 1999, n. 490) prevede la procedura della denuncia di inizio attività anche pergli immo­bili vincolati; dopo aver ottenuto il parere favorevole della Sovrintendenza sull'intervento da realizzare è possibile presentare, per gli interventi di restau­ro su beni sottoposti a vincolo storico‑culturale, la denuncia di inizio attività.

Il regime che abbiamo fin qui esposto sulla denuncia dì inizio attività, cosi come regolato in seguito alla legge n. 44312001, è in contrasto con il Testo unico dell'edilizia, tanto che si è reso necessario modificarlo prima ancora della sua entrata in vigore.

Nella sua formulazione originaria, il Testo unico n. 38012001 ha eliminato, come abbiamo già detto, l'autorizzazione gratuìta quale atto che abilita a costruire e ha disciplinato (artt. 22 e 23) gli interventi edilizi realizzabili mediante denuncia di inizio attività, individuandoli in via residuale rispetto alle opere espressamente sottoposte a permesso di costruire. Ai sensi dell'art. 22 del Testo unico edilizia, cioè, sono assoggettati al regime della d.i.a. tutti gli interventi non assoggettati a permesso di costruire, esclusi ovviamente tutti gli interventi «liberi», non soggetti cioè ad alcun controllo della P.A. (manutenzione ordinaria, eliminazione di barriere architettoniche senza rea­lizzazione di opere alteranti la sagoma esterna dell'edificio, opere temporanee per attività di ri­cerca nel sottosuolo).

In base al D.Lgs. 27‑12‑2002, n. 301 che ha modificato gli articoli 22 e 23 del Testo unico in materia edilizia possono essere realìzzati mediante denuncia di inizio attìvità, in alternativa at permesso di costruire:

gli interventi di ristrutturazione;

gli interventi di nuova costruzione o di ristrutturazione urbanistica qualora siano disciplinati da piani attuativi che contengono precise disposizioni planovolumetriche, tipologiche, for­mali e costruttive;

gli interventi di nuova costruzione qualora siano ìn diretta esecuzione di strumenti urbanisti­ci generali recanti precise disposizioni plano‑volumetriche.

Il T.U. n. 380/2001 aumenta inoltre i termini della d.i.a.: il proprietario dell'immobile deve presentare la denuncia di inizio attività almeno 30 giorni (sotto il precedente regime, i giorni erano 20) dell'effettivo inizio dei lavori, accompagnata dagli opportuni elaborati progettuali e da una dettagliata relazione a firma di un progettista abilitato che asseveri la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti, nonché il rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienico sanitarie. Il progettista abilitato deve rilasciare, inoltre, un certificato di collaudo finale, che attesti la conformità dell'opera al progetto presentato.

 

10. IL CERTIFICATO DI ABITABILITA’

Una volta ultimati i lavori, le opere realizzate possono essere utilizzate solo in seguito al rilascio di un'autorizzazione da parte del Comune (L. n. 127/ 1998), chiamata licenza (o certificato) di abitabilità, se si tratta di edifici destinati ad uso abitativo, o licenza di agibilità, se si tratta di edifici ad uso non abitativo (negozi, industrie, uffici etc.). Con tale autorizzazione il Comu­ne si accerta che nelle nuove costruzioni sia garantita la salvaguardia della salute dei cittadini in ogni ambiente di vita e di lavoro.

Il proprietario di un immobile per poterlo utilizzare, deve chiedere all'au­torità comunale il certificato di abitabilità. Alla domanda devono essere alle­gati:

la richiesta del certificato di collaudo per le costruzioni in conglomerato cementizio armato ed a struttura metallica;

la dichiarazione per l'iscrizione al catasto;

una dichiarazione del direttore dei lavori che deve certificare, sotto la pro­pria responsabilità, la conformità delle opere rispetto al progetto approva­to, l'avvenuta prosciugatura dei muri e la salubrità degli ambienti.

Il Comune può disporre un'ispezione da parte degli uffici comunali per verificare l'esistenza dei requisiti richiesti per la dichiarazione di abitabilità. Il Comune, però, deve rilasciare il certificato, o rifiutarlo, entro 30 giorni dalla data di presentazione della domanda.

Trascorsi 45 giorni dalla presentazione della domanda, l'abitabilità si in­tende, comunque, attestata anche nel silenzio dell'amministrazione comunale.

Il Testo unico in materia edilizia ha abrogato tutte le disposizioni precedentemente citate e ha disciplinato il rilascio del certificato di agibilità, di cui ha provveduto a semplificare il procedi­mento.

È stata in primo luogo apportata una modifica di tipo terminologico: mentre prima, come abbiamo detto, si faceva distinzione, non senza qualche confusione, tra licenza di abitabilità per gli immobili ad uso abitativo, e licenza di agibilità per gli immobili non residenziali, il T.U. ha eliminato il duplice riferimento. Per cui con l'entrata in vigore del T.U. esiste solo il certificato di agibilità.

A norma dell'art. 25 del T.U. n. 380/2001 il soggetto titolare del permesso di costruire o il soggetto che ha presentato la d.i.a., entro 15 giorni dall'ultimazione dei lavori di finitura dell'im­mobile, deve presentare allo sportello unico comunale:

la richiesta di rilascio del certificato di agibilità;

la richiesta di accatastamento dell'edificio;

il certificato di collaudo e tutte le altre attestazioni della conformità dell'opera e degli impianti al progetto approvato e alle norme di legge.

Lo sportello unico deve comunicare al richiedente entro 10 giorni dalla ricezione dell'istanza, il nominativo del responsabile del procedimento, che può disporre anche un'ispezione. Egli pero deve rilasciare il certificato o rifiutarlo, entro 30 giorni dalla data di presentazione della doman­da.

 

11. L'ABUSIVISMO EDILIZIO E IL CONDONO

Per abusivismo edilizio si intende quel fenomeno, purtroppo in Italia quan­to mai diffuso e generalizzato, concernente la costruzione di edifici e la realiz­zazione di opere in contrasto con le leggi e i piani urbanistici emanati dai Comuni. Nonostante l'ordinamento giuridico preveda sanzioni molto severe per chi costruisce in violazione delle norme urbanistiche, si tratta di un feno­meno difficile da arginare, dal momento che nella coscienza sociale è ancora considerato un diritto intangibile del proprietario intervenire con opere edili­zie sul proprio immobile, soprattutto quando si tratta di costruire la casa per sé e per la propria famiglia. In senso stretto è abusivo l'immobile costruito in difformità o in mancanza di concessione edilizia (ora permesso di costruire). In senso più ampio può essere definito abusivo ogni immobile costruito in violazione di norme di legge come ad esempio le opere edificate in violazione dei vinco­li paesistici, storici, stradali e ferroviari; vi rientrano anche le costruzioni su suolo demaniale.

La legge 28 luglio 1985, n. 47 reprime severamente gli abusi edilizi ed urbanistici, prevedendo tre tipi principali di sanzioni: amministrative, civili e

penali.

 

a) Sanzioni amministrative

Se viene accertata un'irregolarità edilizia, il Comune deve in primo luogo ordinare la sospensione dei lavori, al fine di impedire che dalla prosecuzione dei lavori abusivi derivi un danno di maggiori dimensioni.

A seconda del tipo di violazione edilizia commessa, la legge prevede poi diversi tipi di sanzione amministrativa:

se si tratta di opere realizzate in assenza di concessione (ossia per il compi­mento di quell'opera la legge richiede la concessione edilizia che però non è stata chiesta), in totale difformità o con variazioni essenziali (ossia la con­cessione edilizia è stata chiesta ma poi è stata realizzata un'opera sostan­zialmente diversa da quella descritta nei progetti presentati al Comune), il dirigente dell'ufficio comunale deve ingiungere la demolizione dell'opera abusiva, al fine di ripristinare lo stato dei luoghi, ovvero riportare la situa­zione a quella che era prima dell'abuso. Per le opere realizzate in assenza di concessione, in totale difformità o con variazioni essenziali, si applica­no anche le sanzioni penali;

se si tratta di opere eseguite senza autorizzazione gratuita o in difformità, il responsabile dell'abuso verrà condannato al pagamento di una sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento del valore venale dell'immobile con­seguente alla realizzazione delle opere stesse e comunque in misura non inferiore a 258 euro;

nei casi in cui l'esecuzione di interventi edilizi e sul territorio poteva essere preceduta dalla denuncia di inizio attività, dovrà applicarsi una sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento del valore venale dell'immobile con­seguente alla realizzazione delle opere eseguite e comunque mai inferiore a 516 euro.

 

b) Sanzioni civili

Accanto alle sanzioni amministrative volte a colpire in modo diretto l'atti­vità abusiva di trasformazione del territorio, la legge n. 47/1985 ha previsto anche altre misure destinate ad arginare il fenomeno dell'abusivismo, preva­lentemente rivolte a limitare e ad impedire la circolazione di edifici e parti di essi illegittimamente costruiti: in sostanza chi è proprietario di un immobi­le abusivo non può venderlo o trasferirlo a terzi. Sono, infatti, dichiarati nulli gli atti di disposizione (vendita, permuta, donazione etc.) di edifici o loro parti (realizzati dopo il 1985) se in essi non sono indicati gli estremi della concessione edilizia (o del condono): ovviamente se si tratta di immobili abu­sivi, realizzati cioè senza concessione, tali estremi non potranno essere indi­cati e, dunque, gli atti saranno nulli (si ricorda che il notaio deve rifiutare la stipula di atti nulli).

 

c) Sanzioni penali

Sono ovviamente queste le sanzioni più gravi in cui può incorrere il re­sponsabile di un abuso edilizio: la realizzazione di opere abusive è, infatti, considerata reato, punito con la reclusione fino a 2 anni e con l'ammenda fino a 51645 euro (lire 100 milioni). Esse sono disposte, in aggiunta alle sanzioni amministrative, solo contro chi realizza opere senza o in difformità di conces­sione edilizia, non anche contro chi esegue opere in mancanza di autorizza­zione gratuita o denuncia di inizio attività. II Testo unico in materia edilizia ha abrogato gli articoli della legge n. 47/ 1985 sulle sanzioni contro gli abusi edilizi, mali ha sostituiti con norme del tutto identiche, per cui la disciplina fin qui esposta è rimasta invariata.

Di fronte al dilagare del fenomeno dell'abusivismo edilizio, le autorità si sono trovate nell'im­possibilità di reprimere tutti gli abusi edilizi commessi ed il legislatore è dovuto più volte interve­nire per sanare (ossia rendere legittime) molte opere realizzate in contrasto con le prescrizioni urbanistiche ed edilizie e in assenza o in difformità di concessione.

La legge n. 47/1985 dispose così la possibilità di condonare, dietro pagamento al Comune di un'oblazione, cioè di una somma di danaro, le costruzioni ultimate entro il 1° ottobre 1983 ed eseguite senza concessione edilizia o autorizzazione, ovvero in difformità dalle stesse. Fu questo il primo condono edilizio.

L’eccessivo numero di domande di condono presentate paralizzò il sistema burocratico tanto che il legislatore dovette disporre un secondo condono con l'art. 39 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, per le opere ultimate entro il 31 dicembre 1993.

Per entrambi i condoni furono previsti dei termini (ormai scaduti) entro i quali i privati avreb­bero dovuto presentare domanda per ottenere la sanatoria: tutte le opere abusive per le quali la domanda di condono non fu presentata non sono, dunque, più condonabli.

L’art. 13 della legge n. 47/1985 (corrispondente all'articolo 36 del Testo unico) prevede poi una sanatoria generale per le opere che seppur realizzate in assenza o in difformità dalla concessio­ne richiesta per la loro esecuzione, sono sostanzialmente conformi alla legge e agli strumenti urbanistici (si parla a proposito di abusi meramente formali), dietro pagamento di una somma di danaro (oblazione).

 

 

I finanziamenti

1. IL MUTUO

Il mutuo è «il contratto con il quale una parte (mutuante) consegna all'altra (mutuatario) una determinata quantità di danaro o di altre cose fungibili, e I’altra si obbliga a restituire altrettante cose della stessa specie e qualità» (1813 c.c.).

Effetto essenziale del mutuo è, quindi, il trasferimento della proprietà della cosa al mutuatario e la liberazione di quest'ultimo ha luogo se, alla scadenza stabilita, egli trasferisce al mutuante la stessa quantità di cose, dello stesso genere di quelle oggetto del mutuo.

Si tratta, in sostanza, di un prestito di consumazione, definito dagli eco­nomisti come «lo scambio tra moneta presente e la promessa di moneta futura».

 

2. DISCIPLINA

Come abbiamo già visto, incombono al mutuatario:

  • l’obbligo di restituire la cosa o la stessa quantità di cose alla stessa specie e qualità di quelle mutuate alla scadenza stabilita (1813 c.c.). Il mutuo pecuniario dà luogo a «debito di valuta», per cui vige il principio nominalistico: pertanto la quantità di moneta da restituire, pure in caso di intervenuta svalutazione monetaria, non cresce (salva la stipulazione della cal. «clausola d'oro»), né potrebbe diminuire nell'ipotesi di una rivaluta­zione monetaria;
  • l'obbligo di corrispondere gli interessi (normalmente) (1815 c.c.). È valida la pattuizione per la quale gli interessi siano dovuti in misura superiore a quella legale, purchè non in misura usuraria: se siano conve­nuti interessi usurari, la relativa clausola contrattuale è nulla e non sono dovuti interessi (1815, 2° comma, c.c., come modificato dalla L. 7‑3‑1996, n. 108). La norma originariamente sanciva la nullità della clausola contrattuale con cui si convenivano interessi usurari e l'automatica riduzione degli in­teressi dovuti al tasso legale. La nuova formulazione dell'art. 1815 c.c., in­vece, dispone che gli interessi non siano dovuti in alcuna misura e ciò al fine di costituire un più forte deterrente per il mutuante alla fissazione di interessi usurari. Inoltre, mentre in precedenza l'aleatorietà degli interessi veniva accertata sul­la base di elementi di fatto, la L. 108/1996 rende estremamente più agevole tale accertamento stabilendo che debba ritenersi usurario l'interesse il cui tasso esorbita di oltre il 50% i tassi medi effettivi praticati dalle banche e dagli intermediari finanziari rilevati trimestralmente dagli organi competenti. Il mancato pagamento degli interessi comporta la risoluzione del contratto (1820 c.c.). Nel mutuo oneroso il termine per la restituzione si presume fissato a favore di entrambe le parti (1816 c.c.): il mutuatario, perciò ‑ se il contratto non lo consente ‑ non può restituire in anticipo il danaro ricevuto (in quanto fun­zione del contratto è quella di fare guadagnare al mutuante gli interessi sul capitale dato a prestito).

 

3. IL MUTUO BANCARIO

A) Generalità

in base alla definizione di mutuo fornita dal codice civile ed alla relativa disci­plina, numerose sono le forme di prestiti a medio e lungo termine, concesse dagli istituti di credito, che potrebbero rientrare in tale tipologia contrattuale.

In realtà il mutuo bancario presenta dei connotati precisi che lo distinguo­no da ogni altra forma di prestito.

II mutuo bancario è un prestito monetario, accordato dalla banca con sca­denza differita nel tempo, in base al quale il beneficiario, ricevuta la somma in prestito (di solito in un'unica soluzione), si obbliga alla restituzione gra­duale dell'intero importo e degli interessi maturati, attraverso rimborsi perio­dici (con cadenza mensile, trimestrale, semestrale o annuale). Esso rientra nelle operazioni di credito fondiario che hanno per oggetto la concessione da parte delle banche di finanziamenti a medio e lungo termine garantiti da ipo­teca sull'immobile (art. 38, D.Lgs. 385/1993). Dunque, la costituzione di un'ipo­teca sull'immobile, è un atto necessario affinché si possa parlare di mutuo, altrimenti saremmo in presenza di un semplice prestito di denaro. La Banca d'Italia in conformità delle deliberazioni del CICR ha determinato l'ammon­tare massimo dei finanziamenti nella misura dell'8% del valore dei beni ipote­cati o del costo delle opere da eseguire sugli stessi. Il capitale mutuato può arrivare anche al 100% del valore dei beni oggetto dell'ipoteca, purché siano prestate altre garanzie quali fideiussioni bancarie, polizze fideiussorie, ces­sioni di crediti verso lo Stato, pegno su titoli di Stato.

In ogni caso la valutazione dell'istituto di credito su qualsiasi domanda di mutuo, ai fini della concessione dello stesso, tiene conto principalmente della capacità reddituale del soggetto richiedente, accertata dai modelli di dichia­razione dei redditi presentati (modello Unico, modello 730).

Inoltre il richiedente il mutuo, deve presentare, fra gli altri, i seguenti do­cumenti:

-          la relazione preliminare sull'immobile a cura del notaio;

-          l'atto di provenienza dell'immobile;

-          il contratto preliminare;

-          la relazione definitiva sull'immobile a cura del notaio.

La banca all'atto della stipula del contratto si accorda con il mutuatario sulle modalità da seguire per la restituzione di quanto da questi dovuto. Le parti concordano dunque un piano di ammortamento (solitamente proposto dalla banca e accettato dal cliente), nel quale sono stabiliti, tra l'altro, la perio­dicità e l'ammontare delle rate.

La scelta del piano di rimborso è effettuata, in genere, sulla base di due procedimenti, il primo più adatto ai mutui a tasso variabile, il secondo adotta­to maggiormente per i mutui a tasso fisso:

-          rimborso a rate posticipate decrescenti: la rata si compone di una quota capitale costante e di una quota interessi decrescente, calcolata sul debito residuo;

-          rimborso a rate posticipate costanti: la rata è comprensiva di una quota capitale che aumenta nel corso della durata del prestito e di una quota interessi decrescente.

Le componenti del costo di un mutuo sono molteplici (spese notarili, com­missioni bancarie, imposte etc.) ma tra esse un'incidenza determinante ha senza dubbio il tasso d'interesse che può essere fisso o variabile in conformità di specifici parametri di indicizzazione (tasso interbancario di riferimento, Euribor, prime rate ABI, rendimento dei titoli di Stato).

Il tasso d'interesse, praticato nelle operazioni di mutuo (così come in tutte le operazioni bancarie che prevedono un interesse), deve essere fissato nel rispetto di quanto previsto dalla L. 7‑3‑1996, n. 108 sull'usura e dai provvedi­menti concernenti la rilevazione del tasso effettivo medio ai sensi della mede­sima legge.

Tale aspetto è particolarmente delicato per i contratti di mutuo in quanto, date le peculiarità del contratto in esame, non pochi sono i casi in cui nei mutui accesi in passato sono pattuiti tassi considerati usurari in base alla disciplina vigente.

Tra le soluzioni maggiormente adottate dalle banche per regolarizzare i contratti in corso, vi sono la rinegoziazione dei mutui in questione o anche l'estinzione anticipata e la contestuale stipulazione di un nuovo contratto che preveda condizioni di tasso commisurate ai livelli dei tassi attuali.

Restando in tema di tassi vale la pena ricordare che anche il mutuo rientra fra le operazioni bancarie disciplinate dalla delibera CICR del 9‑2‑2000, re­cante disposizioni in materia di anatocismo bancario, pertanto pare oppor­tuno soffermarsi brevemente sui punti salienti della citata disciplina.

In particolare, la delibera dedica un intero articolo ai finanziamenti con piano di rimborso rateale, tra i quali il mutuo è senza dubbio il contratto maggiormente rappresentativo, in cui è stabilito che in tali forme di operazio­ni l'importo dovuto per ciascuna rata può, in caso di inadempimento, produr­re interessi a decorrere dalla data di scadenza e sino al momento del paga­mento, purché ciò sia stabilito contrattualmente.

Su questi interessi non è però consentito l'anatocismo (art. 3, 1° comma, delibera CICR 9‑2‑2000). La capitalizzazione periodica, secondo quanto pre­visto dal CICR, non è, inoltre, consentita sugli interessi maturati, in caso di risoluzione del contratto per mancato pagamento.

In tale situazione la delibera prevede, infatti, che l'importo complessiva­mente dovuto può, se contrattualmente stabilito, produrre interessi dalla data di risoluzione del contratto, ma questi a loro volta non possono produrre altri interessi.

Diverso è invece il caso in cui il pagamento delle rate avviene mediante regolamento in conto corrente, poiché in tale circostanza si applicano le di­sposizioni che la stessa delibera CICR prevede per le operazioni di conto cor­rente.

Ricordiamo che, ove previsto dal contratto, è possibile anche estinguere anticipatamente il mutuo, generalmente con l'applicazione di una penale la cui misura può variare dall'1% al 4% sul debito residuo. Inoltre nel caso peri­sca o si deteriori il bene su cui è stata costituita l'ipoteca, la banca può chiede­re la risoluzione del contratto di mutuo.

Una volta estinto il mutuo, la banca rilascia l'assenso alla cancellazione dell'ipoteca, anche se la cancellazione vera e propria non è un atto dovuto.

 

B) L'obbligazione degli interessi in particolare

Il pagamento degli interessi costituisce un'obbligazione accessoria rispet­to alla prestazione principale, commisurata ad un'aliquota di questa e che si aggiunge ad essa per effetto del decorso del tempo.

I tassi di interesse sono calcolati sulla base dell'Euribor (Euro Interbank Offered Rate) che costituisce il tasso lettera maggiormente utilizzato sul mer­cato dei depositi bancari in euro che viene calcolato con riferimento ad un gruppo di 64 banche di cui 56 europee, 6 statunitensi ed una giapponese. II tasso così determinato viene maggiorato di un'aliquota che costituisce il rica­vo della banca in una misura che, in genere, varia tra 0,45 e 1%.

I contraenti possono stipulare un mutuo:

-          a tasso fisso, se l'interesse viene pattuito in un ammontare che rimane invariabile per l'intera durata del contratto. Il tasso è tanto più alto quanto maggiore è la durata del mutuo. Con la scelta del tasso fisso il mutuatario preferisce tutelarsi dall'eventualità di rialzi del costo del denaro ed accetta il rischio che una diminuzione dei tassi di interesse faccia diventare le con­dizioni contrattuali pattuite eccessivamente onerose. In tale ultima ipotesi non potrà richiedersi il rimborso dei tassi relativi alle rate già scadute ma, in alcuni casi, come è accaduto per i mutui contratti in Ecu, le banche hanno accordato la rinegoziazione del contratto;

-          a tasso variabile, se gli interessi sono pari all'Euribor, rilevato ogni seme­stre su «Il sole 24 ore». In questo caso entrambi i contraenti assumono il rischio delle variazioni del tasso in dipendenza dell'andamento dei mercati finanziari. Le notevoli variazioni del costo del denaro verificatesi dal 1992 sino ad oggi, hanno indotto le banche alla creazione di prodotti maggiormente rispondenti alle esigenze della clientela, quali ad esempio, i mutui:

-         a tasso misto, ovvero il tasso è fisso per un periodo che varia dai due ai cinque anni con possibilità di contrattare un tasso fisso o variabile alla scadenza convenuta. In altri casi, sempre alla scadenza, viene concessa la sola possibilità di accettare il tasso del momento per un ulteriore periodo di durata eguale al precedente;

-          a tasso variabile con un cap, se il tasso è variabile ma predeterminato nel massimo. Lebanche offrono tale possibilità, di solito, per mutui di durata non superiore ai dieci anni;

-          a rata costante, se il tasso è variabile e si conviene che in caso di aumento del tasso di interesse non aumenta l'importo delle rate ma il numero delle stesse.

Nel caso di mutui indicizzati al tasso ufficiale di sconto, poiché que­st'ultimo è scomparso, insieme al Rendistato, il D.Lgs. 213/98 (decreto euro) ha autorizzato il governatore della Banca d'Italia ad individuare il tasso della BCE che, per le sue caratteristiche, più si avvicina al tasso ufficiale di sconto. In particolare, l'art. 2 del citato decreto ha previsto che a partire dal 1 ° gennaio 1999 e per un periodo massimo di cinque anni la Banca d'Italia determina periodicamente un tasso che sostituisce il Tus. Detto tasso è stato inizialmente determinato nella misura dell'ultimo tasso uffi­ciale di sconto per poi esser successivamente modificato dal Governatore della Banca d'Italia, tenendo conto delle variazioni del tasso della BCE. In base a quanto previsto dall'ultima modifica del 6‑12‑2002, adottata con provvedimento della Banca d'Italia e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, il tasso ufficiale di riferimento varia dal 3,25% al 2,75%.

All'obbligazione di pagare il tasso di interesse va aggiunto l'obbligo di corrispondere altre spese, quali le spese notarili, relative all'atto con cui il mutuo viene erogato e all'iscrizione dell'ipoteca presso la Conservatoria dei registri immobiliari, il compenso spettante alla banca per le spese di istruttoria ‑ da corrispondere in percentuale sulla somma erogata ovvero in una cifra fissa ‑ le spese per la perizia alfine della valutazione della garanzia reale che assiste il mutuo, l'imposta sostitutiva delle imposte di registro, di bollo, ipotecarie, catastali e sulle concessioni governative (la misura è dello 0,25% o del 2% se il mutuo è erogato da società finanziarie), ed infine il costo dell'assicurazione sull'incendio ed eventualmente sul furto del bene, nonché di quella legata al rischio di infortuni o morte del mutuatario.

Oltre agli interessi di cui abbiamo parlato finora, contenuti nelle rate da rimborsare, sono dovuti alla banca (in un'unica soluzione) anche gli interessi di preammortamento, cioè gli interessi calcolati sull'intera somma mutuata, dal giorno dell'erogazione fino al giorno di inizio del piano di ammortamento. Se ad esempio il piano di ammortamento prevedesse rate semestrali postici­pate (30/06 e 31/12) e il mutuo fosse erogato in data 15 marzo, gli interessi di preammortamento sarebbero calcolati dal 15/3 al 30/6, mentre la prima rata semestrale di mutuo sarebbe corrisposta il 31/12.

 

4. IL MUTUO DI SCOPO

Il mutuatario, normalmente, non è vincolato in ordine all'utilizzazione di quanto ottenuto a mutuo. In alcuni casi, però, può essere imposta allo stesso un'utilizzazione predi­sposta alla realizzazione di uno scopo determinato:

‑ dedotto dalle parti come finalità convenzionale necessaria (mutuo di scopo volontario);

possono citarsi ad esempio:

a)     il prestito per l'acquisto di merci che il mutuante è incaricato di vendere quale commis­sionario, lucrando la provvigione;

b)     il mutuo del locatore al locatario per migliorare la cosa locata;

c)     il prestito fatto al vicino per la bonifica del proprio fondo, da cui anche il fondo del mu­tuante trarrà vantaggio;

‑ ovvero correlato ad una speciale disciplina legale in vista di particolari esigenze d'ordine economico e sociale (mutuo di scopo legale);

tra le esigenze di tale tipo possono annoverarsi quelle finalizzate:

a)     alla formazione della proprietà immobiliare;

b)     all'impianto o all'esercizio di imprese;

c)     al miglioramento di aziende o di beni singoli.

In casi siffatti vengono per lo più previsti controlli ed ispezioni del mutuante, rivolti ad accer­tare l'effettivo impiego delle cose mutuate in conformità delle obbligazioni assunte, nonché spe­ciali modalità di erogazione del mutuo (ad esempio, sulla base di stati di avanzamento dei lavori ai quali esso deve servire, o ad opere compiute). La violazione dell'obbligo di destinazione può costituire giusta causa di recesso del mutuante dal rapporto.

 

5. IL MUTUO GARANTITO

La legge prevede che al mutuo possa accompagnarsi la prestazione di ga­ranzie da parte del debitore.

Si tratta di una clausola spesso presente nei contratti di mutuo bancario. La lunga durata del contratto combinata con l'elevata entità delle somme date in prestito rendono spesso difficile per la banca una valutazione sulla solvibilità del mutuatario nel medio‑lungo periodo. Ciò induce gli istituti di credito a tutelarsi attraverso la previsione nel contratto di garanzie reali, fina­lizzate a garantire, in caso d'insolvenza del mutuatario, la restituzione del­l'importo e degli interessi.

Le più comuni figure di mutuo garantito sono:

a)     mutuo pignoratizio: si ha quando l'obbligazione di restituire del mutua­tario è garantita da pegno.

b)     mutuo ipotecario: la garanzia, in tal caso, è, invece, costituita da ipoteca su un immobile (ed il mutuo è a lunga scadenza);

c)     mutuo cambiario: il mutuatario rilascia, in tal caso, delle cambiali a ga­ranzia del suo debito di restituzione oppure anche «pro solvendo», cioè in luogo dell'adempimento.

 

 

6. L'APERTURA DI CREDITO

L’apertura di credito (o fido o andamento) è il contratto col quale la ban­ca si obbliga a tenere a disposizione dell’altra parte una somma di denaro per un dato periodo di tempo o a tempo indeterminato (art. 1842 c.c.). Si tratta della più diffusa operazione di credito a breve termine: essa ha la funzione di creare una disponibilità a favore dell'accreditato, mettendo a sua disposizione una somma che, pur rimanendo nelle casse della banca, egli può utilizzare anche parzialmente e ripetutamente, con l'obbligo di restituirla alla scadenza del contratto o negli altri casi di cessazione del rapporto.

L’apertura di credito è un contratto:

-          consensuale, in quanto per la sua perfezione non si richiede la consegna della somma accre­ditata;

-          oneroso, poiché l'accreditato, come corrispettivo della disponibilità che riceve, è tenuto al pagamento di una provvigione;

-          a prestazioni corrispettive, poiché le prestazioni delle parti sono reciproche;

-          di credito, poiché la banca ha l'obbligo di prorogare nel tempo la restituzione delle somme accreditate;

-          ad esecuzione continuata, in quanto il rapporto si protrae nel tempo;

-          a tempo determinato o indeterminato;

-          a forma libera.

 

TIPOLOGIA

Le aperture di credito possono essere classificate in base a diversi elemen­ti. Se si tiene conto delle modalità di utilizzo del credito è possibile distinguere tra apertura di credito:

-          per cassa, qualora la banca si impegna al versamento di una somma di denaro che può essere utilizzata dal cliente in una o più riprese.

Le aperture di credito per cassa possono essere ulteriormente distinte in:

a)     semplici, quando l'accreditato può utilizzare il credito in una volta, o più volte, con suc­cessivi prelievi parziali. Non può, tuttavia, ripristinare la disponibilità con versamenti successivi che permettano il riutilizzo dell'apertura di credito;

b)     in conto corrente quando l'accreditato può utilizzare in più volte il credito, e con succes­sivi versamenti ripristinare la disponibilità. In mancanza di un'apposita pattuizione delle parti, l'apertura di credito s'intende in conto corrente (art. 1843 c.c.);

 

-          per firma, quando la banca mette a disposizione, attraverso la propria firma, una garanzia a favore del cliente che tecnicamente può assumere la forma dell'accettazione, dell'avallo o della fideiussione. In base alle garanzie che le assistono si può distinguere tra apertura di credito:

-          allo scoperto (o in bianco): quando la restituzione della somma utilizza­ta è assicurata esclusivamente dal patrimonio dell'accreditato; in tal caso, la concessione del credito si fonda sulla valutazione, da parte della banca, della solvibilità e della correttezza dell'accreditato;

-          garantita: quando la concessione di credito è subordinata al rilascio di garanzie reali o personali da parte dell'accreditato o di terzi graditi alla banca.

 

In base alla durata si distinguono aperture di credito:

-          a tempo determinato (nella pratica bancaria denominato «straordina­rio»), quando è fissato uno specifico termine di scadenza;

-          a tempo indeterminato (o ordinario), quando è prevista la facoltà di rece­dere dal contratto in qualsiasi momento con preavviso reciproco.

 

In base al soggetto utilizzatore del credito si distinguono aperture di credito:

  • a favore proprio, quando il beneficiario del credito è lo stesso cliente affi­dato;
  • a favore dei terzi, quando il beneficiario dell'apertura di credito è un sog­getto diverso dal cliente affidato.

 

L'UTILIZZAZIONE DEL CREDITO E LE OBBLIGAZIONI DELL'AC­CREDITATO

A) L'utilizzazione del credito

L’apertura di credito può essere a tempo determinato o indeterminato: in entrambi i casi, essa deve avere ad oggetto una somma determinata o determi­nabile. L'art. 1843 c.c. prevede che l'accreditato possa disporre delle somme «secondo le forme d'uso». I principali modi di utilizzazione che si rinvengono nella prassi bancaria sono: il prelevamento per cassa, l'assegno bancario o circolare, l'ordine di bancogiro (o giroconto), il rilascio di fideiussioni a favo­re del cliente, lo sconto di titoli di credito etc.

 

B) Le obbligazioni dell'accreditato

Al diritto dell'accreditato di utilizzare il credito fanno riscontro una serie di obbligazioni a suo carico.

In primo luogo, l'accreditato è tenuto al pagamento della provvigione di conto: tale provvigione è spesso prevista solo per il caso di mancata utiliz­zazione del credito, o per il caso in cui gli interessi non raggiungano una determinata cifra; talvolta, quando il credito è concesso per operazioni di carattere fortemente speculativo, la banca esige una commissione speciale. La provvigione non esclude il diritto della banca alle commissioni relative alle operazioni compiute in esecuzione del rapporto.

L’utilizzazione del credito determina anche l'obbligo dell'accreditato di restituire le somme utilizzate:

  • nell'apertura di credito semplice, tale restituzione determina l’estinzione del rapporto, anche se ha luogo prima della scadenza del termine per l'utilizzazione del credito;
  • nell'apertura di credito in conto corrente, invece, i versamenti dell'accreditato sul conto hanno l'effetto di ricostituire la disponibilità: il diritto della banca alla restituzione sorge quindi solo alla fine del rapporto.

 

LE GARANZIE DELL'APERTURA DI CREDITO

A) Generalità

Per rafforzare il suo diritto alla restituzione delle somme utilizzate, la ban­ca può ricorrere a diversi strumenti.

Nell'apertura di credito allo scoperto, la banca può farsi rilasciare delle cam­biali: esse non costituiscono una garanzia della restituzione (la quale dipende sempre dalla solvibilità dell'accreditato), ma servono ad agevolare il recupero o lo smobilzzo del credito. La banca, infatti, può ottenere la restituzione più facilmente attraverso l'esercizio dell'azione cambiaria, ovvero può recuperare le somme accreditate girando o scontando i titoli. Nell'apertura di credito garantita, il diritto alla restituzione può essere raf­forzato da garanzie reali o personali: poiché il diritto alla restituzione sorge solo alla fine del rapporto, si tratta di garanzia per un debito futuro. Tali garanzie non si estinguono prima della fine del rapporto, per il solo fatto che l'accreditato cessi di essere debitore della banca. Se nel corso del rapporto la garanzia diviene insufficiente, la banca può chiedere un supple­mento di garanzia o la sostituzione del garante, e se l'accreditato non ottem­pera alla richiesta, può ridurre il credito proporzionalmente al diminuito va­lore della garanzia o recedere dal contratto (art. 1844 c.c.).

 

B) Le garanzie reali

L’apertura di credito può essere garantita innanzitutto da ipoteca:

  • nell'apertura di credito semplice, essa garantisce la somma prelevata «una tantum»;
  • nell'apertura di credito in conto corrente, garantisce il saldo a debito risultante alla fine del rapporto.

Alla scadenza del contratto, la garanzia dovrebbe estinguersi: qualora però la banca conceda una proroga del termine, l'ipoteca continua a garantire l'uti­lizzazione del credito; se invece le parti procedono ad una rinnovazione del contratto, la garanzia si estingue (in quanto si verifica una novazione del rap­porto principale), salvo che le condizioni del nuovo rapporto siano le stesse di quello precedente. Quando invece l'apertura di credito è garantita da pegno le norme uniformi attribuiscono alla banca, in caso di mancata restituzione delle somme utilizza­te, il diritto di far vendere le cose date in garanzia, con preavviso scritto di almeno un giorno, in forme anche diverse da quelle previste dall'art. 2797 c.c.; se si tratta di titoli negoziabili in Borsa, la vendita va fatta al prezzo di mercato.

 

ESTINZIONE DEL RAPPORTO

L'apertura di credito si estingue:

-          per scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato;

-          per morte o sopravvenuta incapacità dell'accreditato, in quanto si tratta di un contratto basato sulla fiducia; ‑ per fallimento dell'accreditato o liquidazione coatta della banca; ‑ per recesso unilaterale di una delle parti.

Se il contratto è a tempo indeterminato, il recesso dev'essere preceduto dal preavviso, nel termine stabilito dal contratto, dagli usi, o in mancanza entro quindici giorni (art. 1845, 3° comma, c.c.). L’art. 1845 c.c. riconosce poi alla banca, salvo patto contrario, il diritto di recedere dal contratto per giusta causa.

 

7. IL CREDITO AL CONSUMO

Il credito al consumo è definito dall'art. 121 del T.U.B. come «la concessio­ne nell'esercizio di un'attività commerciale o professionale di credito sotto forma di dilazione di pagamento o di prestito o di analoga facilitazione finanziaria a favore di persona fisica (consumatore) ». Il prestito deve essere di importo com­preso tra i 154,94 euro ed i 30.987,41 euro (limiti che possono essere modifi­cati dal CICR) e deve prevedere un rimborso rateale. Le caratteristiche pecu­liari del credito al consumo riguardano sia la natura dei beni finanziati, e cioè beni di consumo, sia di natura durevole che non (automobili, servizi sanitari etc.), sia la tipologia del soggetto che richiede il credito cioè il «consumatore» individuato come contraente debole. È a queste esigenze di tutela che sono improntate le principali disposizioni della relativa normativa:

                                              chiarezza nell'accordo contrattuale. La legge infatti prevede che tutti i con­tratti siano in forma scritta e che vi sia la consegna di una copia al cliente.

L’art. 123 del T.U.B. riconduce le operazioni di credito al consumo alle regole generali in tema di pubblicità, stabilite nel capo sulla trasparenza; inoltre, il medesimo articolo, come modificato dal decreto legislativo at­tuativo della direttiva CE 98/7, stabilisce che in caso di annunci pubblicita­ri e offerte, effettuati con qualsiasi mezzo, il Taeg deve essere indicato me­diante un esempio tipico, secondo le modalità di calcolo stabilite con de­creto del Ministro dell'Economia e delle finanze. Il contratto deve riportare l'ammontare e le finalità del finanziamento, il numero, l'importo e la scadenza delle rate e il tasso annuo effettivo globale (TAEG) e prevedere anche le condizioni che possono condurre ad una mo­difica di tale tasso. Secondo la definizione di cui all'art. 122 T U.B., il TAEG è il costo totale del credito a carico del consumatore, espresso in percentuale annua del credi­to concesso. II TAEG comprende gli interessi e tutti gli oneri da sostenere per utilizzare il credito. Le banche devono necessariamente indicare il TAEG nei contratti di credito al consumo.

La modifica del TAEG sarà ritenuta valida soltanto in seguito a comunica­zione scritta da parte del fornitore del credito al consumatore. Quest'ulti­mo, entro 15 giorni dal ricevimento della comunicazione, può recedere dal contratto e pagare l'intero importo dovuto senza sopportare penalità. Il CICR stabilisce le modalità di calcolo del TAEG in armonia con le disposi­zioni comunitarie (art. 122 TU.B.). Nel contratto devono essere indicati anche gli eventuali oneri e costi accessori derivanti dal finanziamento; sono nulle le clausole di rinvio agli usi;

-          possibilità di adempimento anticipato. Il consumatore può, in qualunque momento, decidere di rimborsare anticipatamente la cifra ottenuta in pre­stito ed ha diritto, in questo caso, ad un'equa riduzione del corrispettivo;

-          divieto di cessione del credito senza il preventivo assenso del cliente e la responsabilità sussidiaria del finanziatore qualora il fornitore del bene ri­sulti, per qualunque motivo, inadempiente.

L’ultimo punto è sottoposto a due condizioni restrittive: la responsabilità del finanziatore è limitata all'importo del credito concesso e sussiste soltanto nel caso in cui la società di finanziamento gestisca in esclusiva la concessione di credito ai clienti del fornitore.

 

8. CREDITO FONDIARIO

L’art. 38 del T.U.B., che ha unificato la disciplina del credito fondiario e quella del credito edilizio sotto l'unica voce credito fondiario, ne fornisce que­sta definizione: «il credito fondiario ha per oggetto la concessione, da parte di banche, di finanziamenti a medio e lungo termine garantiti da ipoteca di primo grado su immobili».

I finanziamenti possono essere erogati nella forma tecnica ritenuta dalla banca maggiormente opportuna, sempre che sia rispettato il principio temporale di durata dell'operazione di credito che, come previsto nella definizione stessa, deve essere di medio e lungo termine. La garanzia ipotecaria ha un carattere di essenzialità per questo credito e

l'art. 39 TU.B. prevede alcune deroghe alla disciplina di diritto comune:

-          l'ipoteca a garanzia non è soggetta a revocatoria fallimentare (se iscritta 10 giorni prima della sentenza di fallimento);

-          gli oneri notarili e di iscrizione sono ridotti;

-          i debitori, ogni volta che abbiano estinto la quinta parte del debito origina­rio, hanno diritto ad una riduzione proporzionale della somma iscritta;

-          l'adeguamento dell'ipoteca si verifica automaticamente se la nota di iscri­zione menziona la clausola di indicizzazione del finanziamento, in de­roga al principio di specialità previsto per l'ipoteca stessa (art. 2809 C.C.).

La deliberazione del 22 aprile 1995 del CICR ex art. 38 ha stabilito che l'ammontare massimo dei finanziamenti è pari all'80% del valore dei beni ipotecati o del costo delle opere da eseguire sugli stessi. Tale percentuale può essere elevata fino al 100% qualora vengano prestate garanzie integrative (fideiussioni bancarie, polizze di assicurazione etc.).

La Banca d'Italia nelle Istruzioni di vigilanza del 21‑4‑1999, n. 229 confer­ma le percentuali indicate nella delibera riservandosi, con riferimento alle garanzie, di indicare altre possibili forme di garanzie integrative. Resta ferma la possibilità per le banche di acquisire ogni altra garanzia ritenuta opportu­na per la concessione dei finanziamenti.

Nel caso in cui sussistano precedenti iscrizioni ipotecarie del finanziamen­to si dovrà tenere conto del capitale residuo del finanziamento originario da sommare all'importo di quello nuovo affinché l'erogazione totale non ecceda la percentuale massima (80%).

Ai sensi dell'art. 40, 1 ° comma, T.U.B., così come modificato dall'art. 6 D.Lgs. 342/1999, i debitori hanno la facoltà di estinguere anticipatamente, in tutto o in parte, il proprio debito, corrispondendo alla banca un compenso complessivo contrattualmente stabilito.

Il legislatore ha altresì previsto che nei contratti stipulati dopo l'entrata in vigore del nuovo art. 40 siano preventivamente indicate, in base ai criteri sta­biliti dal CICR ai fini della sola trasparenza, le modalità di determinazione dell'importo complessivo spettante alla banca in caso di estinzione anticipata del finanziamento.

Con delibera del 9‑2‑2000 il CICR fornisce le indicazioni richieste dall'ari. 40 TU.B. che mettono il cliente in grado di conoscere già all'atto della stipulazione del contratto gli oneri posti a suo carico per l'eventuale esercizio dell'estinzione anticipata o del rimborso parziale del credito fondiario. Il Comitato stabilisce, infatti, che i contratti di credito fondiario devono indi­care il compenso dovuto dai mutuatari alle banche in caso di esercizio delle facoltà appena ricordate, specificando la formula di calcolo. Gli indici utilizzati nella formula devono essere facilmente individuabili da fonti di agevole consultazione. Nessun altro onere può essere adde­bitato al cliente.

 

9. FINANZIAMENTI ALLE IMPRESE

Per finanziamento alle imprese si fa riferimento ad operazioni bancarie che hanno come obiettivo quello di mettere a disposizione delle aziende i mezzi finanziari di cui necessita per lo svolgimento della sua attività.

Nella precedente legislazione esistevano numerose forme di credito spe­ciale alle imprese: il credito mobiliare, il credito alle medie e piccole imprese etc. Oggi, invece, il T.U.B. riunisce tutte le operazioni di finanziamento alle imprese di medio e lungo termine e sostituisce tutti i privilegi relativi ad ogni credito speciale nell'unico «privilegio speciale» (art. 46 T.U.B.).

Quest'ultimo dovrà risultare da atto scritto, a pena di nullità, e dovrà indi­care:

-          la banca creditrice;

-          il debitore;

-          le condizioni del finanziamento;

-          la somma di denaro per il quale viene assunto;

-          i beni e i crediti sui quali il privilegio viene costituito.

          

Ai fini della opponibilità ai terzi è necessaria la trascrizione nel registro (ex art. 1524 c.c.) tenuto dalla Cancelleria del Tribunale del luogo dove ha sede l'impresa finanziata o dove ha sede o risiede il soggetto che ha concesso il privilegio.

Poiché si tratta di beni mobili è fatto salvo l'acquisto in buona fede da parte del terzo. Va precisato, però, che tale buona fede non si presume, dato il regime di pubblicità cui il privilegio è sottoposto. Il credito, per essere assistito dal privilegio speciale e quindi ricadere nella fattispecie di finanziamento di medio e lungo termine alle imprese, dovrà ri­spondere ai seguenti requisiti:

-          l'ente finanziatore può essere solo una banca;

-          il finanziato deve essere un imprenditore (sia esso agricolo o commerciale, piccolo o grande);

-          il finanziamento deve essere a medio o lungo termine (nella prassi attualmente si intende oltre i 18 mesi).

L’art. 46 prevede che il privilegio non può avere per oggetto beni iscritti nei pubblici registri; questo limite si spiega tenendo presente che per i beni iscrit­ti in pubblici registri si prevedono già le garanzie reali ordinarie (ipoteca, pegno etc.).

L’articolo elenca poi i beni su cui può poggiare il privilegio:

-          impianti ed opere esistenti e future;

-          materie prime, scorie, prodotti finiti, bestiame;

-          beni acquisiti con il finanziamento concesso;

-          crediti anche futuri, derivanti dalla vendita di beni di cui sopra.

Per quanto riguarda il grado, dove per grado è da intendersi la precedenza rispetto agli altri privilegi, il privilegio speciale è posposto esclusivamente al privilegio per le spese di giustizia (art. 2777 c.c.) ed ai privilegi indicati all'art. 2751bis c.c. (onorari, retribuzioni, etc.).

 

10. IL LEASING: DEFINIZIONE E TIPOLOGIA

II leasing è un'operazione finanziaria con cui una parte concede ad un'altra, dietro corrispettivo di un canone periodico, il godimento di un bene per un certo periodo di tempo, alla scadenza del quale la parte che ha ricevuto il godi­mento può scegliere tra la prosecuzione del godimento, la restituzione del bene, 1 acquisto della proprietà (mediante versamento di un prezzo stabilito).

Si distinguono generalmente due diverse forme di leasing:

-          il leasing operativo, che ha la finalità di evitare all'utilizzatore il rischio della proprietà del bene e di garantirgli alcuni servizi collaterali;

-          il leasing finanziario, che ha la funzione di finanziare l'utilizzatore, che può servirsi del bene per tutta la durata della sua vita tecnico‑economica senza acquistarne la proprietà e senza dover quindi ricorrere alle consuete forme di finanziamento.

Nell'ambito del leasing finanziario si distinguono altresì il leale‑back ed il leasing immobiliare.

 

IL LEASING OPERATIVO

II leasing operativo è la prima forma storicamente assunta dall'istituto. Ad esso l'impresa utilizzatrice fa ricorso per ottenere la temporanea disponibilità di beni strumentali standardizzati per un periodo di tempo inferiore alla loro vita economica (il che ne consente la riutilizzazione al termine del contratto) sen­za sopportare i rischi connessi all'obsolescenza di essi. I:impresa concedente, di regola, è anche produttrice del bene concesso e (in

ogni caso) si impegna a fornire un servizio di assistenza e manutenzione per conservare in perfetta efficienza il bene medesimo.

Altre caratteristiche del leasing operativo sono le seguenti:

-          la parte che dà il bene in godimento lo ha già a disposizione nel momento in cui stipula il contratto (non importa a che titolo);

-          la durata del contratto è solitamente breve: spesso inferiore ad un anno e solo in rari casi superiore a tre;

-          l'impresa utilizzatrice può esercitare la facoltà di recesso prima del termi­ne, dando adeguato preavviso;

-          il canone pattuito costituisce il corrispettivo del godimento del bene, sia pure con il computo del deterioramento, ma non comprende, sotto nessun aspetto, una porzione di prezzo o di valore capitale del bene stesso;

-          al termine del contratto, i beni dati in godimento devono essere restituiti (sono previste, pertanto, varie clausole, rivolte a garantire il corretto uso e la diligente conservazione dei beni medesimi, alle quali l'impresa utilizza­trice deve rigidamente attenersi).

Può essere prevista, però, per l'impresa utilizzatrice, la facoltà di optare a favore di una delle tre seguenti alternative:

-          rinnovare il contratto;

-          sostituire il bene con altro più confacente alle proprie esigenze;

-          riscattare il bene con il pagamento di una somma prefissata.

 

IL LEASING FINANZIARIO

A) Generalità

Il leasing finanziario può definirsi come un'operazione mediante la quale una società finanziaria acquista, per conto di un'impresa industriale o commer­ciale, un bene a questa necessario per lo svolgimento del processo produttivo ed alla stessa lo cede in godimento per un periodo in genere corrispondente alla sua intera vita economica.

II rapporto in esame presenta due caratteri:

-          la società di leasing non è produttrice del bene, masi obbliga ad acquistar­lo dal produttore; essa, pertanto, non ha beni a disposizione, ma capitali da impiegare;

-          l'impresa utilizzatrice non ha interesse ad ottenere la disponibilità tempo­ranea di un bene, ma cerca il finanziamento necessario per l'acquisto di un bene strumentale, che prevede d'inserire per un lungo periodo nella pro­pria struttura produttiva.

L:operazione di leasing si svolge, pertanto, nel modo seguente:

-          l'imprenditore che ha bisogno di un cerio bene (per lo più altamente specializzato) si rivolge ad una società di leasing, che possiede il capitale, e le chiede di acquistare il bene medesimo;

-          questa, se accetta, si impegna ad effettuare tale acquisto ed a fare entrare l'altra parte nella detenzione del bene;

-          come corrispettivo di tali due prestazioni l'altra parte si impegna a versare periodicamente alla prima delle somme calcolate in misura che, alla scadenza prevista, la società di leasing riceva dall'imprenditore il rimborso completo del prezzo pagato, gli interessi sulla somma versata a tale titolo, nonché, di solito, un indennizzo forfetario per il rischio finanziario.

La durata del contratto per i beni mobili strumentali oscilla da 2 a 5 anni.

 

B) Funzioni

Il contratto si presenta particolarmente vantaggioso per la installazione di macchinari di notevole valore, poiché permette una rateizzazione piuttosto lunga degli oneri relativi (parallela ai ratei di ammortamento) e consente di superare la difficoltà burocratica del ricorso ai tradizionali canali del credito. Sul piano fiscale infine, l'utilità dell'istituto si riconnette al fatto che i canoni sono completamente scaricabili nell'esercizio annuale da parte del­l'imprenditore utilizzatore e che questi, se soggetto ad IVA, può operare la rivalsa per la quota di imposta pagata, a condizione che la durata del contrat­to non sia inferiore alla metà del periodo di ammortamento del bene mobile stabilito in relazione ai coefficienti previsti dall'apposito decreto ministeriale. Per il leasing immobiliare la deducibilità dei canoni da parte degli utilizzatori non è condizionata invece alla durata minima del contratto.

 

C) Disciplina

Il procedimento di stipulazione del contratto in esame ha inizio general­mente con una domanda di leasing, redatta dall'imprenditore richiedente su appositi formulari predisposti dalla società finanziatrice, con indicazione spe­cifica di tutte le caratteristiche sia del bene da acquistare sia dell'impresa che ne richiede l'acquisto, e con particolare riferimento alle condizioni economiche di quest'ultima ed alle garanzie che essa è in grado di fornire. All'accettazione da parte della società di leasing segue la sottoscrizione con­giunta di un documento che contiene pattuizioni contrattuali estremamente particolareggiate circa l'attuazione del rapporto. I documenti anzidetti sono formulati come se venisse stipulata una cessio­ne di godimento a titolo di locazione del bene che ha formato oggetto della domanda di leasing, ma il loro contenuto deroga ampiamente alla normativa posta dalla legge per il rapporto di locazione.

Ed infatti:

-          la consegna del bene deve essere compiuta non dalla società finanziatrice, ma dal terzo forni­tore, ad iniziativa e con la collaborazione diretta dell'imprenditore richiedente;

-          la garanzia per eventuali vizi del bene è data dal terzo fornitore e non dalla società finanziatri­ce;

-          tutte le riparazioni, sia ordinarie che straordinarie, sono a carico dell'imprenditore‑utilizzato­re;

-          a carico dell'utilizzatore viene posto, altresì, il rischio del deterioramento e del perimento del bene (anche per caso fortuito): egli, infatti, è tenuto a pagare l'intero corrispettivo anche se il bene non esiste più.

Inoltre:

-          la durata del contratto è commisurata alla vita economica utile del bene;

-          in caso di inadempimento dell'utilizzatore, il contratto si risolve di diritto: i canoni versati restano acquisiti al finanziatore e vengono previsti anche penali, fissate nella somma dei canoni non ancora scaduti o in una somma comunque assai vicina all'intero;

-          alla scadenza del contratto l'utilizzatore può scegliere fra l'acquisto del bene (per un importo predeterminato); la proroga della locazione, per un canone notevolmente ridotto; ovvero la restituzione del bene.

Il procedimento, quindi, si conclude con la stipulazione di un terzo atto tra la società di leasing ed il terzo fornitore del bene. Il contenuto di tale atto corri­sponde a quello di una compravendita per contanti.

 

11. IL LEASE‑BACK

È questa un'operazione finanziaria con la quale un bene (frequentemente un immobile, ma anche un qualsiasi bene strumentale) viene alienato dal pro­prietario ad un'impresa di leasing, che si impegna a concedere lo stesso bene in godimento al venditore ed a riconoscergli un diritto di riscatto, trascorso un determinato periodo di tempo; per la successiva restituzione in locazione dello stesso bene, vengono fissati dei canoni periodici che hanno le caratteristiche dei canoni di un contratto di leasing finanziario.

Il lease‑back quindi si differenzia dal leasing in quanto rispetto a quest'ulti­mo è caratterizzato da una fase antecedente, durante la quale il futuro loca­tario vende il bene strumentale di sua proprietà all'impresa di leasing.

Con il ricorso al lease‑back, pertanto, si attua sostanzialmente la mobiliz­zazione di un investimento, mantenendo l'uso del bene oggetto della transa­zione e la facoltà di riacquistarne la proprietà: è possibile, cioè, raccogliere quelle disponibilità liquide che, in un determinato momento, sia necessario immettere nella gestione economica di un'impresa senza privarsi dell'uso di un bene. È evidente che il lease‑back ha tutte le caratteristiche di un'operazio­ne di credito assistita da una garanzia reale.

 

12. IL LEASING IMMOBILIARE

Con tale operazione finanziaria una parte concede all'altra, per un tempo determinato e verso un corrispettivo da pagarsi a scadenze periodiche, il godi­mento di un bene immobile, acquistato o fatto costruire dall'impresa di leasing su scelta ed indicazione della parte utilizzatrice, con facoltà per quest'ultima di acquistare la proprietà dell'immobile stesso alla scadenza del contratto (o anche prima, se convenuto tra le parti) contro versamento di un prezzo stabilito, o determinabile in base a parametri contrattualmente fissati. Con la stipulazione del contratto di leasing immobiliare tutti i rischi con­nessi alla costruzione ed all'esistenza dell'immobile ricadono sulla parte utilizza­trice. Ad essa spetta la responsabilità di seguire i lavori di costruzione fino alla consegna; nonché ogni altra incombenza relativa all'immobile (manutenzio­ne ordinaria e straordinaria; stipulazione delle polizze assicurative; pagamen­to di imposte e tasse etc.).

L'impresa di leasing, insomma, interviene unicamente come apportatrice di capitali, per finanziare l'operazione diretta dalla parte utilizzatrice. Il contratto può configurarsi secondo una gamma di schemi ispirati alla disciplina legale della locazione o a quella della vendita con riserva di pro­prietà.

Nel primo caso il canone è di entità ridotta (e viene calcolato computando la quota minima di ammortamento commisurata alla perdita di valore dell'immobile), mentre elevato è il diritto di riscatto, che risulterà prossimo al valore di mercato del bene. Nel secondo caso, il canone è di entità maggiore, in quanto ricomprende una quota capitale calcolata in modo da ammortizzare l'intero valore dell'immobile nel corso del periodo contrat­tuale.

Fra tali estremi sono poi possibili svariate soluzioni con contemperamenti diversi di disci­plina.

Il termine di scadenza più frequentemente adottato è quello ventennale (naturalmente con possibilità di rinnovo); alcuni contratti, però, prevedono anche una durata di trenta anni.

In base ad una circolare della Banca d'Italia, il volume delle operazioni di leasing di beni immobili eseguite dalle società parabancarie non deve essere superiore all'ammontare del pro­prio patrimonio (Delibera 9‑10‑1987).

 

13. IL FACTORING

L’espressione factoring è usata con un duplice significato:

-          essa definisce anzitutto un particolare tipo di contratto con cui un imprendi­tore (cedente o fornitore) si impegna a cedere ad un altro imprenditore (factor) tutti i crediti presenti e/o futuri che derivino dall'esercizio della sua impresa. La cessione avviene talvolta «pro solvendo», cioè con garanzia del buon fine del credito ceduto, ma più spesso «pro soluto» (senza rivalsa, quindi, in caso di mancato pagamento), al valore nominale del credito, dal quale viene detratta una «commissione» proporzionata all'attività ed al rischio del factor. L'accredito al cedente può avvenire alla scadenza dei singoli crediti, in anti­cipo rispetto alla stessa, oppure ad una certa data successiva alla scadenza;

-          l'espressione viene, però, riferita anche a tutti i negozi giuridici, posti in essere in esecuzione della suddetta vera e propria convenzione di facto­ring, come negozi particolari di cessione di credito.

 

A) Funzioni

Il contratto può assumere diverse funzioni:

di gestione dei crediti: quando il factor si occupa di riscuotere i crediti e di perseguire gli eventuali debitori inadempienti;

di finanziamento: quando il facior anticipa l'importo dei crediti acquistati;

di assicurazione: quando il factor acquista i crediti pro‑soluto (valutando e facendosi compensare il rischio dell'eventuale inadempimento).

L’imprenditore cedente, pertanto ‑ mediante il ricorso al factoring – può ottenere molteplici vantaggi:

-          semplificazione della gestione commerciale ed alleggerimento dei servizi contabili;

-          possibilità di ottenere informazioni commerciali, utilizzando la vasta or­ganizzazione del factor;

-          miglioramento della situazione finanziaria, mediante la mobilizzazione del portafoglio clienti: con copertura del rischio di solvibilità (relativo all'am­montare del credito) e del rischio di tesoreria (relativo alla scadenza);

-          utilizzazione dei moderni sistemi meccanografici, di cui si avvalgono le società di factoring per il volume di operazioni che svolgono, con possibili­tà di ottenere anche informazioni statistiche;

-          generali economie di gestione, per la riduzione di tutte le spese collegate con il contenzioso d'incasso.

 

B) Tipi di factoring

Il factoring può essere classificato:

secondo il finanziamento, in:

a)     maturity‑factoring, in cui il cedente non riceve finanziamenti dal factor; egli semplificala sua attività di gestione, si assicura tutti gli altri servizi ed ottiene l'accreditamento dell'im­porto di ogni fattura ‑ alla scadenza ‑ anche in caso di mancato pagamento;

b)      credit‑casti factoring, in cui il factor acquistai crediti, garantendone il buon fine ed incari­candosi della loro gestione; il factor concede, altresì, al cedente la possibilità di chiedere anticipazioni (totali o parziali) sull'ammontare del credito ceduto;

secondo le modalità di esecuzione, in:

a)     notification factoring, in cui il cedente si impegna a menzionare su tutte le fatture emesse che il pagamento dovrà essere effettuato esclusivamente al factor;

b)     non‑notification factoring: in cui non è previsto l'impegno anzidetto. In tal caso il cedente si obbliga a versare immediatamente al factor i crediti riscossi: que­st'ultimo, infatti, non può incaricarsi della riscossione poiché i debitori non sono stati messi al corrente della cessione;

secondo l'area geografica, in:

a)     domestic factoring, che si verifica quando sia il cedente che il factor svolgono la loro atti­vità nello stesso Paese;

b)     international factoring, avente per oggetto crediti derivanti da rapporti di carattere inter­nazionale.

In questo caso i soggetti coinvolti nel rapporto sono quattro: l'importatore, il suo factor nazio­nale, l'esportatore e il suo factor. In pratica sussistono, pertanto, due distinti contratti di facto­ring:

-          uno tra l'esportatore e l'export‑factor;

-          l'altro fra i due factors, per permettere all'imporl‑factor di esercitare la gestione del credito nei confronti dell'importatore.

 

RAPPORTI TRA CEDENTE E CESSIONARIO

L'esame della prassi contrattuale consente di delineare il quadro della di­sciplina generalmente concordata per il perseguimento degli scopi realizzabi­li attraverso il contratto di factoring:

 

A) Clausola di esclusiva

L'imprenditore cedente può obbligarsi ad operare in regime di esclusiva to­tale ed in tal caso si impegna a non porre in essere con i terzi altri rapporti di factoring (sia continuativi che occasionali).

 

B) Obblighi

Incombono al cedente, tra gli altri, gli obblighi di:

-          trasferire i documenti probatori del credito;

-          trasferire le garanzie reali e personali, nonché gli accessori dello stesso;

-          sottoporre ad approvazione preventiva del factor le operazioni dalle quali deriveranno i crediti che si intendono cedere.

Il factor dovrà, invece:

-          esaminare preventivamente i crediti a lui sottoposti;

-          fornire al cedente eventuali servizi collaterali di collaborazione, (quali ad esempio ‑ l'espletamento di indagini di mercato o di solvibilità di pos­sibili clienti).

 

C) Altre clausole contrattuali

Nella pratica si riscontrano clausole contrattuali che:

-          riconoscono al factor la potestà di ridurre o revocare le approvazioni di credito;

-          concedono al factor la facoltà di controllo sulle aziende e sulle scritture contabili dell'imprenditore cedente;

-          sanciscono il diritto, per entrambe le parti, di recedere in qualsiasi momento dal contratto, pur restando valide le cessioni già perfezionate.

 

D) Regolamento dei crediti

Il factor intesta al cedente un conto corrente nel quale vengono annotati:

-          a credito: gli importi delle fatture relative a ciascuna cessione;

-          a debito: gli eventuali prelevamenti effettuati dal cedente medesimo e le remunerazioni spettanti al factor.

 

E) Remunerazione del factor

Al factor ‑ quale corrispettivo per i servizi resi ‑ spetta:

-          un compenso, calcolato in percentuale (dall'1 al 3%) sull'importo comples­sivo del credito ceduto;

-          gli interessi annuali sulle somme anticipate: in misura per lo più corrispondente al normale tasso dello scoperto bancario o a quello applicato nelle operazioni di sconto.

Possono essere ceduti crediti esistenti, ma anche crediti futuri (prima, cioè, che siano stipulati i contratti dai quali sorgeranno). La cessione può essere pure effettuata in massa e, in tale ipotesi essa viene considerata con oggetto determinato anche con riferimento a crediti futuri: in quest'ultimo caso, però, la cessione non può estendersi a crediti che sorgeranno da contratti da stipu­lare in un periodo di tempo superiore a due anni.

Il cedente garantisce la solvenza del debitore ceduto soltanto nei li­miti del corrispettivo pattuito, ma il cessionario può rinunziare ‑ in tutto o in parte ‑ a tale garanzia.

I soggetti, diversi dalle banche, che esercitano l'attività di cessione dei crediti di impresa devono essere, su domanda, iscritti in un apposito albo istituito presso la Banca d Italia. Ai fini dell'iscrizione, sono richiesti i seguenti requisiti: forma di società o di ente, pubblico o privato, avente personalità giuridica; capitale di importo non inferiore a 10 volte il capitale minimo previ­sto per le società per azioni; inclusione nell'oggetto sociale dell'attività di cessione ed acquisto di crediti d'impresa; possesso dei requisiti di esperienza ed onorabilità (indicati dal D.M. 334/1992).

Sempre per ottenere l'iscrizione deve essere presentato un programma di attività con l'indica­zione dei settori di intervento e del tipo di operazioni e servizi offerti.

 

IL CONTRATTO DI FACTORING E LE NORME SULLA TRASPAREN­ZA DEI SERVIZI FINANZIARI

I contratti stipulati dalle società di factoring (essendo queste ricomprese tra i soggetti che esercitano professionalmente attività di prestito e di finan­ziamento) sono assoggettati alla disciplina sulla trasparenza delle operazioni

bancarie e finanziarie prevista nel titolo VI del D.Lgs. 1‑9‑1993, n. 385, in attuazione della quale:

-          le società medesime devono esporre nei locali aperti al pubblico gli avvisi e le informazioni riguardanti le condizioni di contratto;

-          il contratto di factoring deve essere stipulato in forma scritta, intendendosi adempiuto tale onere anche attraverso lo scambio di corrispondenza com­merciale;

-          il contratto deve specificare i criteri di determinazione delle commissioni di factoring e di ogni altra remunerazione in favore del factor, nonché gli interessi che l'imprenditore cedente deve corrispondere;

-          deve essere espressamente prevista la facoltà di recesso per l'imprenditore cedente, entro 15 giorni dal ricevimento della comunicazione scritta con la quale egli venga informato delle variazioni in senso sfavorevole dei tassi di interesse e delle altre condizioni contrattuali.

 

14.  LA CESSIONE DEI CREDITI D'IMPRESA

Nel nostro ordinamento, la realizzazione degli interessi perseguiti con il contratto di factoring è stata affidata all'istituto della cessione del credito e la L. 21‑2‑1991, n. 52 ha inteso dare una regolamentazione specifica alla cessione dei crediti d'impresa, facendo salva ‑ per le altre cessioni di credito ‑l'appli­cazione delle norme del codice civile (artt. da 1260 a 1267).

La disciplina della L. 52/1991 si applica alle cessioni di crediti pecuniari verso corrispettivo allorquando ricorrano le seguenti condizioni:

-          il cedente deve essere un imprenditore;

-          i crediti ceduti devono sorgere da contratti stipulati dal cedente nell'esercizio dell'impresa.

Il trasferimento del credito è valido ed efficace nei confronti del debitore ceduto a prescindere da qualsiasi comunicazione allo stesso ed il factor, alla scadenza, può pretendere il pagamento dal debitore purché dimostri di essere titolare del credito.

Il factor, però, deve guardarsi dal rischio che il debitore, in mancanza di comunicazione, paghi il creditore originario con effetto liberatorio (art. 1264 c.c.): la legge 52/1991, infatti, fa salva l'efficacia liberatoria dei pa­gamenti eseguiti dal debitore a terzi, secondo le norme dettate dal codice civile.

Il cessionario, inoltre, ha la facoltà di rendere la cessione opponibile ai terzi nei modi previsti dal codice civile.

Il debitore, può sempre opporre al cessionario le eccezioni che derivano da pregressi rapporti diretti con lo stesso (es. compensazioni), nonché da ecce­zioni processuali (es. prescrizione del credito); può eccepire, invece, l'incedi­bilità convenzionale del credito solo provando che il cessionario ne era a co­noscenza al tempo della cessione.

Sono opponibili, altresì, al cessionario tutte le eccezioni che potevano es­sere opposte al cedente, secondo le norme del codice civile.

 

15. IL FORFAITING

Il forfaiting è un contratto atipico usato nel settore dell'esportazione: esso consiste nella cessione, senza rivalsa in caso di mancato pagamento, da parte di un esportatore ad un forfaiter di titoli di credito ricevuti da un importatore in pagamento delle merci da lui acquistate, contro 1 anticipazione del relativo im­porto.

L'operazione consente all'importatore di procurarsi prodotti pur non es­sendo in grado di pagarli immediatamente o di procurarsi un adeguato finan­ziamento all'estero, ed all'esportatore di vendere i propri prodotti riscuoten­done subito il prezzo, pur non essendo in grado di procurare all'importatore credito a medio termine: il forfaiter assume su di sè il rischio dell'inadempi­mento, senza potersi rivalere nei confronti dell'esportatore, ma solitamente richiede che i titoli siano garantiti da una banca del Paese dell'importatore.

Caratteristiche del titolo sono:

-          l'essere espresso in valute «forti» (dollaro, euro); ‑ l'avere una scadenza tra i sei mesi e i cinque anni;

-          l'essere avallato da una banca primaria del paese del debitore accettante.

L'esportatore italiano appone su ciascun titolo la dicitura «senza regresso» (without recourse) prima della girata, quindi appone la firma di girata, trasfe­rendo tutti i rischi all'acquirente del credito (il forfaiter) che paga all'esporta­tore per pronta cassa il valore nominale degli effetti ceduti, detratto lo sconto (che viene calcolato a un tasso variante in funzione della scadenza delle cam­biali, della moneta in cui queste sono espresse e del paese debitore).

 

 

 

Costruzioni

1. CATEGORIE DEGLI EDIFICI

Ai fini dell'attività dell'agente immobiliare le varie classificazioni a cui fare riferimento sono quelle che individuano immobili in modo organico e pratico onde ottenere una suddivisione di detti immobili utile alla cataloga­zione ed all'elaborazione con programmi informatici delle offerte immobi­liari. La conoscenza della destinazione d'uso di un bene è importante, perché

essa può farne variare il valore economico; quindi individuando ogni catego­ria per tipologia d'uso, gli immobili si possono suddividere in:

  • immobili industriali ed artigianali, che comprendono tutti i fabbricati de­stinati allo svolgimento delle attività connesse alla trasformazione e alla produzione di beni. Le costruzioni industriali sono situate ai margini del perimetro urbano in apposite zone a destinazione urbanistica industriale e/o artigianale;
  • immobili commerciali e/o di servizi: magazzini di vendita, negozi, uffici bancari, uffici assicurativi ecc.;
  • immobili di uso pubblico: uffici amministrativi, scuole, edifici per il culto, edifici ricreativi‑culturali, sanitari assistenziali;
  • immobili e terreni agricoli: non si può considerare edificabile un terreno agricolo anche se la normativa urbanistica in vigore consente l'edificazio­ne nella zona agricola. Difatti i terreni agricoli sono edificabili solo se le costruzioni che vi si realizzano sono necessarie alla conduzione del fondo; il fondo viene ritenuto predominante sulle costruzioni (queste ultime sono considerate delle parti accessorie, anche se si differenziano gli edifici resi­denziali da quelli strettamente utilizzabili per l'attività agricola e di alleva­mento; in questo contesto si dovrà tenere conto di quei terreni, comprese le costruzioni su di essi edificate, a scopo di residenza, di ricovero di mac­chine ed attrezzi, di silos, di stalle e comunque connessi all'attività agricola e di allevamento);
  • terreni edificabili: sono quelli caratterizzati dalla specifica natura edificato­ria e si distinguono in terreni residenziali, artigianali, commerciali, indu­striali e direzionali. I piani urbanistici di previsione dividono il territorio in varie zone classificandone la possibilità edificatoria secondo lo sviluppo che si vuol dare al territorio comunale;
  • immobile residenziale: di seguito verrà approfondito in modo particolare la suddivisione morfologica della casa di abitazione, i tipi edilizie gli spazi della casa. Gli immobili residenziali sono il riferimento più specifico e fre­quente per l'agente immobiliare.

 

2. LA CASA D'ABITAZIONE

La casa d'abitazione non è altro che una trasformazione dell'ambiente na­turale operata dall'uomo per procurarsi lo spazio entro cui svolgere una parte delle sue funzioni vitali. La sua classificazione per tipi può scaturire da un criterio morfologico che tenga conto del grado di individualità degli edifici in questione. Partendo da tale premessa possiamo prima di tutto distinguere le case d'abitazione in due ampie categorie: case unifamiliari, case plurifamiliari. Ambedue queste categorie possono essere ulteriormente suddivise: le pri­me in case unifamiliari singole e case unifamiliari associate; le seconde in case plurifamiliari isolate, case plurifamiliari contigue, case collettive.

 

A) Case unifamiliari singole

Si tratta di edifici liberi da ogni lato destinati ad ospitare una sola famiglia. Quando non si tratti di residenze legate ad attività agricole, questo tipo di abitazione è tendenzialmente destinato ad una utenza di condizioni economi­che elevate. Tali dimore possono avere carattere permanente o temporaneo se utilizzate, ad esempio, per weekend. Spesso possono essere dotate di giardino esclusivo.

 

B) Case unifamiliari associate

Sono edifici abitativi composti di più alloggi destinati a diversi nuclei fa­miliari, e per ognuno di essi è previsto un accesso indipendente dall'esterno, direttamente dalla strada o attraverso un giardino privato. Gli edifici sono privi di qualunque comunicazione tra i vari alloggi fatta eccezione per le stra­de di accesso.

Vari possono essere i tipi di associazione:

a)     le case unifamiliari associate con alloggi abbinati hanno in comune solo uno dei muri perimetrali, mentre gli altri tre sono completamente li­beri. I due alloggi abbinati sono usualmente disposti in maniera sim­metrica rispetto al muro in comune. Ciò consente la sistemazione contrapposta di bagni e cucine con alloggiamento delle tubazioni e delle canne fumarie nella zona comune, e sistemazione degli ambienti di soggiorno e alle camere da letto per quanto possibile rivolta verso l'esterno;

b)     le case unifamiliari associate con alloggi raggruppati sono costituite di quat­tro appartamenti accostati tra loro aventi due muri perimetrali in comune e due liberi;

c)     le case unifamiliari associate con alloggi a schiera sono disposte in modo che ciascun alloggio abbia due muri perimetrali in comune, rispettivamente con l'edificio che precede e con quello che segue. Naturalmente fanno eccezione i due blocchi di testata i quali hanno tre fronti liberi. Generalmente si tratta di edifici a più piani con scala interna, aventi un'area di pertinenza su un lato libero o su ambedue. A seconda della natura del terreno la schiera può essere realizzata in modo diverso: schiera longitudi­nale, trasversale, obliqua, sfalsata ecc.;

d)     le case unifamiliari associate con alloggi sovrapposti, generalmente sono costituite da un appartamento posto al piano terreno e comunicante di­rettamente con l'esterno, e da un appartamento posto al primo piano, a cui si accede direttamente dall'esterno tramite una scala privata. La pianta dei due alloggi può coincidere oppure no: in tal caso i due ingressi sono situati dallo stesso lato oppure sui due fronti opposti. Quest'ultima solu­zione contribuisce a dare maggiore risalto al carattere individuale degli alloggi.

 

C) Case plurifamiliari

Sono edifici composti da vari alloggi, comunque aggregati, a cui si accede tramite ingressi, scale, ascensori, ballatoi in comune. Avendo in comune una serie di servizi quali il portierato, le strade di acces­so, gli impianti tecnologici, l'ingresso, le scale, l'ascensore ecc. questi edifici hanno la necessità di costituire un condominio.

Varie possono essere le tipologie:

 

1) Case plurifamiliari isolate

Si tratta di fabbricati aventi i quattro lati liberi. In essi i singoli alloggi sono disimpegnati da una zona di ingresso che, spesso, accoglie anche il cor­po scala‑ascensore.

Questi edifici vengono detti a torre quando il numero dei piani risulta ele­vato.

 

2) Case plurifamiliari contigue

In questi edifici i diversi elementi sono collegati tra loro mediante muri perimetrali in comune.

Quest'ultimo tipo edilizio può suddividersi a sua volta in due sottogruppi:

a)     le case plurifamiliari contigue in linea. Esse possono svilupparsi in linea retta, variamente articolata o, addirittura, curva. Un carattere determinante di questo tipo edilizio è che un unico corpo scala può servire da un minimo di due a un massimo di quattro appartamenti per piano;

b)     le case plurifamiliari contigue a blocco. Sono blocchi poligonali, chiusi o aperti, racchiudenti al loro interno uno spazio libero: il cortile. A seconda che si tratti di blocchi chiusi o blocchi aperti avremo, rispettivamente, cortili chiusi o cortili aperti.

 

3) Case collettive

Si intendono, con questa denominazione, quelle case plurifamiliari com­poste da numerosissime cellule abitative, per lo più di piccole dimensioni, e da un'ampia dotazione di servizi comuni: ristorante, lavanderia, negozi, asilo ecc.

 

3. CENNI SUI TIPI EDILIZI

È opportuno procedere ad una illustrazione, seppur schematica, delle ti­pologie residenziali tradizionali più diffuse in Italia. Esse sono: la casa a cor­te, la casa torre, la casa a schiera e, infine, la casa in linea. Con lo sviluppo e la completa maturazione di questi «tipi» residenziali co­priamo, storicamente, un arco di tempo che, partendo dall'antica Roma, arri­va fino alla produzione edilizia dei giorni nostri.

 

A) Casa a corte

La casa a corte è la tipologia più antica. Essa deriva, infatti, dalla domus elementare di età romana. La casa a corte è chiamata così perché all'interno di essa insiste una corte di grandi dimensioni che può essere completamente

chiusa sui quattro lati o aperta su un solo lato. Mentre in un primo tempo gli affacci erano orientati per lo più verso l'interno, più tardi si iniziarono a rea­lizzare aperture anche verso l'esterno. Oggi, in ambiente metropolitano, si ha lo sviluppo di edifici plurifamiliari a corte, dove possono essere presenti anche appartamenti a due piani (duplex).

 

B) Casa a torre

La casa a torre, presente in molti tessuti urbani cresciuti fortemente in età medievale, è considerata come il processo di sviluppo, in altezza, della cellula abitativa di base. Oggi la casa a torre è costituita da un edificio di notevole altezza che si sviluppa intorno ad un nucleo centrale formato dalle scale e dall'ascensore.

 

C) Casa a schiera

La casa a schiera è forse l'elemento edilizio più caratterizzante le espansio­ni delle città per tutto il Medioevo. La casa a schiera si sviluppa su di un lotto rettangolare molto allungato con fronte di ampiezza di circa 5‑6 metri; essa è destinata all'abitazione di un unico nucleo familiare; si sviluppa su più piani, generalmente non più di tre fuori terra; ha un ingresso indipendente ed una piccola pertinenza di area destinata a verde solo sul fronte o anche sul retro. È costruita in continuità con altre case, avendo la comunanza dei muri laterali e tutte costituiscono un unico fabbricato. L'affaccio è limitato ai due soli lati corti, mentre nel primo e nel secondo piano si colloca la vera e propria abitazione. Attualmente, la tipologia a schiera sta conoscendo un momento di particola­re fortuna. Di essa si tendono a sfruttare quelle possibilità di privacy e di contat­to col terreno che altre tipologie non offrono; anche se per contro si ha la distri­buzione interna su due o tre livelli, l'ingombrante presenza della scala interna ed un costo di costruzione alquanto maggiore rispetto ad altre tipologie.

D) Casa in linea

In età tardo‑medievale iniziò a svilupparsi, dalla tipologia a schiera, la casa in linea. La casa a schiera perde la sua singolarità per accorparsi ogni due od ogni quattro alloggi per piano; l'alloggio si sviluppa orizzontalmen­te su di un unico livello e si ripete, dal piano terra all'ultimo piano abbandonan­do, così, il concetto di unitarietà abitativa in verticale dalla terra al tetto. In conseguenza di ciò, la casa in linea è destinata all'abitazione di più nu­clei familiari, ogni rampa di scale non serve una sola abitazione, ma tramite i pianerottoli serve due o quattro appartamenti per piano. Questi organismi abitativi, oggi, sono diventati giganteschi complessi resi­denziali caratteristici della produzione edilizia contemporanea.

Se nella casa in linea vi è la presenza di un ballatoio condominiale per ogni piano la costruzione prende il nome di casa a ballatoio.

 

4. GLI SPAZI DELLA CASA

Gli spazi interni di ogni tipo di abitazione possono dividersi in due catego­rie: spazi serventi e spazi serviti. Gli spazi serventi sono gli ingressi, i corri­doi ed i disimpegni. Gli spazi serviti sono il soggiorno, il pranzo, le camere da letto, le cucine, i bagni e i ripostigli. La possibilità di usare altri spazi come i loggiati e le terrazze, le cantine e le autorimesse aumenta la funzionalità dell'abitazione Esamineremo ora particolarmente, uno per uno, i principali spazi serventi e serviti dell'abitazione.

 

A) L'ingresso e i disimpegni

Nelle case di abitazione, abitualmente, si ha un solo ingresso; un secondo ingresso all'abitazione è utile, se comunica direttamente con una camera‑sog­giorno usata come stanza degli ospiti o per il soggiorno saltuario di un paren­te o per il personale di servizio.Nelle abitazioni lo spazio destinato all'ingresso ha funzioni di ricevimento degli estranei. È utile che questo spazio comunichi con un grande armadio a muro, destinato a contenere gli indumenti che i componenti della famiglia e gli avventori indossano uscendo di casa. La zona notte, costituita delle camere da letto e dei bagni, deve essere sepa­rata dall'ingresso, sempre. La distribuzione dei vari ambienti della casa è tradizionalmente affi­data ai corridoi sui quali si affacciano le porte d'ingresso alle varie stan­ze. Attualmente la tendenza è quella di utilizzare il soggiorno per smistare gli accessi alle varie stanze; questa soluzione permette di sfruttare meglio lo spazio a disposizione, ma trova forti resistenze nel costume di vita della famiglia media italiana, che non desidera avere il soggiorno di passaggio.

 

B) Il pranzo soggiorno

È lo spazio interno principale dell'abitazione che spesso ingloba anche l'in­gresso, nel quale si articolano le relazioni del nucleo familiare. Questo spazio ospita una zona destinata al pranzo ed una zona destinata al soggiorno. Le funzioni che si possono svolgere nella zona soggiorno sono molteplici per cui si può dividere in: angolo divani e poltrone per la conversazione, l'ascolto di musica e visione TV; angolo studio dove si può scrivere e leggere, angolo giochi. Nelle abitazioni moderne, soprattutto nei centri urbani, l'economia di spa­zio è un elemento dominante per cui si ha un prolungamento dello spazio cucina ottenendo il tinello.

 

C) La cucina

Oggi, in ogni categoria sociale, la cucina è sempre concepita come una macchina funzionale, dove è dominante la praticità della funzione; l'utilizzo delle moderne attrezzature elettrodomestiche riduce ancora la già esigua su­perficie.

Si consigliano superfici mai inferiori a mq 8‑9, salvo che vi sia la compre­senza del tinello come si è detto nel punto precedente.

 

D) La camera da letto

In un alloggio è necessaria la divisione netta fra la zona notte e la zona giorno, in modo da garantire la necessaria intimità a questa parte dell'abita­zione. La funzione esplicata dalle camere da letto è quasi una costante universa­le: la funzione del dormire. In una situazione ideale, ogni figlio dovrebbe avere la propria stanza, in cui si dovrebbe prevedere lo spazio per lo studio, con un tavolinetto ed una libreria; si tratta, quindi, di spazi misti, che inglobano le funzioni notturne con quelle di soggiorno.

 

E) La sala da bagno

Lo sviluppo degli apparecchi igienico‑sanitari ha portato alla riduzione degli spazi occorrenti per i locali da bagno; comunque è consigliabile non scendere sotto i 6,00 metri quadrati. Gli apparecchi tradizionali che ogni bagno deve avere, sono: il lavabo, la vasca da bagno, la tazza, il bidet, la doccia; spesso il bagno ospita anche la lavatrice. Importante è l'impianto igienico sanitario che deve essere realizzato ad opera d'arte e deve essere sempre funzionante e in buono stato di manuten­zione.

 

5. DEFINIZIONE DEL LUOGO DOVE INSISTE L'EDIFICIO

L'edificio, all'interno del contesto urbano, fa parte di una zona della città che può essere:

a)     quartiere o circoscrizione. Molte città, sia tradizionalmente sia per moti­vi burocratici ed amministrativi relativi al decentramento (città con un numero di abitanti superiore a 100.000), sono divise in quartieri che han­no un nome storico o sono definiti da un numero. Molto spesso, soprattutto nell'urbanizzazione avvenuta negli anni Settanta, sono stati costruiti molti edifici in zone periferiche che hanno assunto il nome di quartieri satelliti (perché posti intorno alla città, ma non dentro di essa). All'interno dei quartieri esistono gli isolati che sono caratterizzati da una serie di costruzioni in continuità e sono delimitati da strade.

b)     centro storico, è quella parte della città che conserva la memoria storica del­l'origine del nucleo abitativo. In questa zona si possono riscontrare tipologie abitative antiche e strade con caratteristiche relative all'epoca di costruzione. Nel Centro storico si trovano, molto spesso, costruzioni caratteristiche e monumenti. Infine, secondo l'espansione, la città si divide in: zona centrale (che può corrispondere o meno al centro storico), periferia, zona di nuova urba­nizzazione;

c)     zona industriale e commerciale. Ai margini della città intere zone sono destinate, urbanisticamente, alle attività inerenti il commercio e l'indu­stria, questo alfine di agevolare gli scambi, il traffico pesante e la costru­zione di manufatti idonei allo scopo ed economicamente validi; sono le cosiddette zone ASI ‑ Aree di Sviluppo Industriale. In queste zone è possi­bile costruire solo edifici a destinazione industriale, commerciale all'in­grosso e artigianale. Non sono invece consentiti edifici di edilizia abitativa residenziale. Le costruzioni residenziali civili ammesse devono essere a diretto servizio dell'attività industriale, commerciale o artigianale e devo­no essere destinate ad uffici o residenza del custode.

 

6. ELEMENTI DI FABBRICA

Un'apparecchiatura costruttiva consiste in un insieme di parti, detti ele­menti di fabbrica, tra loro correlate ed integrate, aventi ciascuna caratteristi­che ed attributi specifici di utilizzazione e collocazione con una o più delle seguenti funzioni:

-          delimitare e classificare lo spazio;

-          assicurare condizioni di comfort;

-          garantire la stabilità dell'organismo.

Gli elementi di fabbrica si possono suddividere in tipo strutturale e non strutturale. I principali elementi di fabbrica di tipo strutturale, in linea di massima si possono sintetizzare in:

-          scheletro portante;

-          chiusure orizzontali portanti;

-          chiusure verticali portanti;

-          fondazioni.

I principali elementi di fabbrica di tipo non strutturale, in linea di massi­ma si possono sintetizzare in:

-          tramezzi (partizioni interne);

-          pavimenti, rivestimenti, intonaci, coperture, controsoffitti, pluviali;

-          infissi interni ed esterni; ‑ elementi di comunicazione verticale.

 

A) Scheletro portante

Elemento di fabbrica che ha l'ufficio di portare tutte le altre parti costi­tuenti l'apparecchiatura costruttiva, avente funzione essenzialmente statica. Esso è generalmente formato nella parte in elevazione dai seguenti elementi costruttivi semplici: pilastri, travi, telai ed eventuali controventi.

 

B) Chiusure orizzontali

Con questo termine si intende l'elemento di fabbrica, di qualsiasi forma, che sostituisce inviluppo o suddivisione orizzontale dello spazio di un organi­smo architettonico. La sua strutturazione può essere schematizzata nelle se­guenti parti fondamentali:

-          parte resistente: sostenuta dallo scheletro portante o da pareti portanti quali ad esempio: solaio in cemento armato e laterizio, solette in c.a., solai in legno, solai in ferro e laterizio, volte di vario tipo. Se i solai sono realizzati in posizione inclinata si ha il tetto;

-          parte di completamento all'estradosso può comprendere semplicemente la pavimentazione o il manto di copertura;

-          parte di completamento all'intradosso può essere costituita solamente dallo strato di finitura quale intonaco, rivestimento ecc. oppure da un controsoffitto.

 

C) Chiusure verticali

Con questo termine si intende l'elemento di fabbrica, di qualsiasi forma, che sostituisce inviluppo verticale dello spazio di un organismo architettoni­co. Esse possono essere portanti o portate:

-          pareti portanti: suddivise in muratura tradizionale in opera e pannelli parete;

-          pareti portate: suddivise in tamponature, tramezzi e serramenti esterni. II serramento esterno viene considerato integrante delle chiusure verticali: sia come elemento costruttivo semplice, se incorporato nella chiusura por­tante o portata, sia come elemento costruttivo complesso, nel caso di infisso monoblocco non inserito in senso trasversale nei muri portanti o di tamponatura, in quanto si identifica nel pannello facciata.

 

D) Elementi di comunicazione verticale

Con questo termine si intendono quegli elementi di fabbrica che, nell'am­bito di un organismo, pongono in comunicazione piani disposti a quote diver­se. Comprendono:

a) il corpo scala costituito da:

-          involucro che può essere collegato o indipendente dalla struttura por­tante oppure può essere completamente assente;

-          scala fissa: compreso gradinata e rampa a piano inclinato, gradini e ringhiera;

-          scala meccanica: elemento costruttivo complesso, realizzata in officina;

b) il corpo ascensore:

costituito da cabina e motore per il sollevamento sono alloggiati nell'apposito vano ascensore compreso di serramento.

 

E) Partizioni interne

Elementi di fabbrica per la suddivisione verticale dello spazio all'interno dell'organismo. Nel caso di ossatura muraria tradizionale o prefabbricata le partizioni interne possono avere funzione statica. Nel caso più generale devo­no assolvere essenzialmente alle esigenze del comfort.

 

F) Blocchi funzionali

Elemento di fabbrica destinato principalmente, in qualità di contenitore di canalizzazioni o raggruppamento di apparecchi di utilizzazione, a soddi­sfare le esigenze del comfort.

 

7. IMPIANTI NEGLI EDIFICI

I principali impianti negli edifici sono:

-          impianto elettrico, citofonico, TV e telefonico da realizzare secondo la legge 46/1990 (Norme per la sicurezza degli impianti);

-          impianto idrico sanitario;

-          impianto di riscaldamento da realizzare secondo la legge 10/1991 ed il suo regolamento di attuazione (D.P.R. 412/1993).

Importante per l'igiene è la rete fognaria per lo smaltimento delle acque nere provenienti dai bagni e dalle cucine e delle acque bianche meteoriche; essa è realizzata con tubazioni verticali passanti nei muri che confluiscono in una condotta orizzontale, interrata, situata nel piano terra, le cui tubazioni si immettono nella fognatura comunale o, se queste non esistono, in apposito depuratore. Lungo il tratto orizzontale di fognatura si inseriscono pozzetti d'angolo, sifonati, di ispezione ecc. I tubi possono essere realizzati di vari materiali, quali cemento pressovibrato o gres; oggi di gran lunga i più usati sono i tubi realizzati in PVC (policloruro di vinile) rigidi.

 

8. RAPPRESENTAZIONE GRAFICO‑PROGETTUALE

La progettazione edilizia viene suddivisa nelle seguenti fasi:

-          acquisizione di dati e informazioni;

-          progetto di massima;

-          progetto esecutivo;

-          disegni di insieme e dei particolari costruttivi.

Tuttavia il settore edilizio, per la sua influenza sullo sviluppo territoriale ed urbanistico, è sottoposto ad una serie di norme e strumenti legislativi che pongono dei vincoli alle caratteristiche, all'ubicazione e alle dimensioni dell'opera. La progettazione architettonica richiede la rappresentazione dell'opera in tutte le sue parti. Occorre quindi descrivere sia l'aspetto interno, tramite pian­te e sezioni, che l'aspetto esterno della costruzione tramite prospetti, pianta della copertura, planimetria.

 

A) Le scale di rappresentazione

Se si deve disegnare su di un foglio di carta una pianta di un fabbricato evidentemente non è possibile dare al disegno la grandezza reale della super­ficie da rappresentare. Il problema si risolve disegnando una forma più piccola ma simile a quella reale del fabbricato. Questa operazione viene sintetizza­ta col termine di rappresentazione in scala. Per esempio: scala 1:100 significa che 1 cm sulla carta corrisponde a 100 cm in realtà, cioè a grandezza naturale. Ancora: scala 1:50 significa che 1 cm sulla carta corrisponde a 50 cm in realtà.

 

B) Quotatura dei disegni

La quotatura viene sempre eseguita su piante e sezioni, mentre i prospetti vengono quotati solo con le indicazioni essenziali. Si quotano gli elaborati tenendo presente il procedimento di esecuzione dei lavori. Nelle piante degli edifici si dispongono nell'ordine, partendo dall'esterno. All'esterno si pongono dimensioni totali, spessore dei muri portanti, di­stanze che intercorrono tra di loro e distanze tra gli assi di simmetria delle aperture. All'interno le quote per la posizione dei tramezzi e degli accessori. Ogni disegno deve portare tutte le quote atte a individuare ogni elemento dell'oggetto rappresentato in modo evidente e preciso. Le quote principali devono risultare in evidenza. Le linee di misura contenenti la quota terminano con frecce tracciate con inclinazione a 30°. Quando lo spazio non è sufficiente le quote si dispongono con le frecce esternamente alla zona misurata. Le quote di livello vanno riferite alla quota relativa di livello 0.00 che è quella del pianerottolo del piano terreno al finito. Le misure si riferiscono al rustico dell'edificio. Le unità di misura che si usano sono:

-         i millimetri per le opere in acciaio;

-         i centimetri per lo spessore dei muri, canalizzazioni, tubi in genere, pedate delle scale, ascensori ecc.;

-         i metri per tutte le altre parti.

In una stessa tavola non si cambia l'unità di misura.

 

C) Segni convenzionali per la progettazione edilizia

Negli elaborati tecnici di progetto (piante e sezioni) è necessario rappre­sentare gli elementi costruttivi, le parti dell'impianto elettrico, idrico sanita­rio e dell'arredamento. A tal proposito si usa una simbologia normata il più possibile universale.

 

D) Gli elaborati tecnici di un progetto architettonico

Gli elaborati tecnici che compongono un progetto architettonico di un edi­ficio si possono dividere in planimetrie e piante prospetti e sezioni. Le planimetrie si inseriscono nel progetto sotto forma di stralcio per l'in­quadramento territoriale dell'edificio da costruire. Si utilizzano carte topo­grafiche dell'I.G.M. (Istituto Geografico Militare) in scala 1:25.000 che coprono tutto il territorio nazionale, oppure le carte regionali o ortofotocarta in scala 1:10.000 realizzate sulla base delle carte dell'I.G.M.. Da queste carte si possono estrarre moltissimi dati, quali:

-          la rete ferroviaria con tutti i suoi elementi;

-          le strade di tutti i tipi con i suoi elementi;

-          fossi, sorgenti, canali ed acquedotti;

-          centri abitati e costruzione di ogni genere;

-          boschi e colture varie.

Questi tipi di carte contengono anche le curve di livello che descrivono l'andamento altimetrico del terreno. Alla scala più grande poi sono rappresentati i PRG (Piano Regolatore Ge­nerale) in scala 1:2.000/1:1.000 e i fogli catastali rappresentati in genere alla scala 1:2.000/1:1.000/1:500. Piante, prospetti e sezioni vengono redatti in grande scala, ad esempio:

-          la planimetria generale dell'edificio in cui si evidenzia il lotto ed il suo intorno viene rappresentata alla scala 1:500/1:200;

-          le piante, i prospetti e le sezioni di un progetto architettonico di massima vengono rappresentati in scala 1:100. Il progetto a tale scala di rappresentazione viene utilizzato per la richiesta della concessione edilizia presso il Comune di appartenenza del lotto. Da esso deve risultare la rispondenza alle norme tecniche di attuazione del PRG e alle norme del Regolamento edilizio;

-          le piante, i prospetti e le sezioni di un progetto architettonico esecutivo vengono rappresentate in scala 1:50. Essendo la scala di rappresentazione più grande, il progetto è più dettagliato e quindi sono rappresentati gli elementi costruttivi. Qualora per alcuni particolari costruttivi si rendesse necessaria una rap­presentazione più dettagliata si usano le scale di rappresentazione 1:20/ 1:10/1:5.

 

 

 

Uffici preposti alla registrazione degli immobili

1. AGENZIA DEL TERRITORIO

L’agenzia del territorio, nata all'interno della riforma del Ministero del­l'Economia e delle Finanze, è operativa dal 1 ° gennaio 2001 ed è un ente pub­blico dotato di personalità giuridica e ampia autonomia. È costituita da Dire­zioni Centrali che hanno sede a Roma, da Direzioni Compartimentali (fino al­l'attivazione delle Direzioni Regionali) e da Uffici Provinciali, che garantisco­no una capillare presenza su tutto il territorio nazionale.

Tra i compiti svolti dall'Agenzia del Territorio, ricordiamo:

  • servizi relativi al catasto, servizi geotopocartografici e servizi di pubblicità immobiliare;
  • costituzione dell'anagrafe integrata dei beni immobiliari esistenti sul territorio nazionale;
  • integrazione delle attività statali in materia con quelle attribuite agli enti locali;
  • gestione dell'Osservatorio del Mercato Immobiliare con i connessi servizi estimativi;
  • supporto al processo di decentramento delle funzioni catastali agli enti locali.

 

2. IL CATASTO E L'UFFICIO TECNICO ERARIALE

Il catasto è l'inventario dei beni immobili esistenti nel territorio nazionale e ha finalità fiscali e civili. Gli scopi fiscali del catasto consistono nel determinare il reddito imponibi­le dei terreni e dei fabbricati ai fini delle imposte dirette e indirette. Attual­mente il reddito catastale o il valore catastale costituiscono la base imponibile per l'IRPEF, ICI, l'imposta sulle successioni e donazioni, l'imposta di registro e le imposte ipotecarie e catastali. Gli scopi civili del catasto consistono nell'individuare e tenere distinta la proprietà immobiliare. Il valore degli immobili, ai fini fiscali, è dato dalla rendita catastale che è definita dall'Ufficio Tecnico Erariale (UTE). L'Ufficio Tecnico Erariale ha sede presso l'Agenzia del territorio che è isti­tuita in ogni capoluogo di Provincia.

L'Ufficio tecnico Erariale ha il compito di tenere aggiornati gli estimi cata­stali, cioè i redditi agrari e dominicali, su cui si basa l'imposizione fiscale, in ragione delle variazioni e dei miglioramenti o declassamenti dei terreni agri­coli, i trasferimenti di proprietà per compravendita, successione, usucapione. Questo ufficio provvede alla formazione del Nuova Catasto, che si divide in Nuovo Catasto Terreni e Nuovo Catasto Edilizio Urbano. Attualmente quasi tutti gli uffici del catasto sono stati unificati facilitando l'accesso agli utenti avendo informatizzato il servizio, per cui è possibile avere informazioni sia sui terreni sia sui fabbricai ad uno qualsiasi dei sportelli; inoltre è possibile accedere alle informazioni anche di un altro ufficio di pro­vincia diversa grazie all'informatizzazione del sistema.

 

3. IL CATASTO DEI TERRENI

La formazione del catasto terreni è consistita nel:

-          rilevare il territorio con operazioni topografiche;

-          calcolare le tariffe d'estimo con operazioni estimative.

Entrambe queste operazioni hanno quale oggetto del rilievo la particella, cioè «una porzione continua di terreno, situata nello stesso comune, apparte­nente allo stesso possessore e della medesima qualità e classe».

Le operazioni di rilievo del territorio hanno come scopo la rappresenta­zione planimetrica delle particelle su fogli di mappa. Ogni particella è con­trassegnata da un numero di mappa ed il contorno di essa è rappresentato graficamente da una linea continua; di essa si calcola la superficie in etta­ri.

Le operazioni estimative hanno come finalità: il classamento, cioè attri­buire ad ogni particella la qualità e la classe che le compete; tariffe d'esti­mo, cioè calcolare le rendite catastali da applicare alle diverse qualità e classi.

Le tariffe d'estimo esprimono il reddito dominicale o il reddito agrario per ogni qualità e classe, per ettaro di superficie, in moneta legale, con riferimen­to all'epoca censuaria. Il reddito dominicale (RD) è ili reddito medio ordina­rio, traibile dal terreno attraverso l'esercizio di attività agricola da parte del proprietario, il reddito agrario (RA) è invece il reddito medio ordinario spet­tante a chi gestisce l'attività agricola sul fondo (imprenditore agricolo). Se le due figure coincidono con una sola persona fisica, a questa spetteranno en­trambi i redditi.

L'aggiornamento degli estimi dei terreni avviene con cadenza decennale.

Gli atti di cui si compone attualmente il catasto sono:

1)      la mappa particellare;

2)      lo schedario delle partite (solo come documento storico);

3)      l'elenco dei numeri di mappa;

4)      l'elenco dei possessori.

 

4. IL CATASTO DEI FABBRICATI

Con la legge 1249/1939 viene indetta la formazione del Nuovo Catasto Edilizio Urbano (N.C.E.U.), unico per tutto il territorio nazionale, allo scopo di «ac­certare le proprietà immobiliari urbane e determinarne la rendita». Lo scopo era di rilevare geometricamente i fabbricati; determinare il reddito ordinario per classi e tariffe per gli immobili a destinazione ordinaria e la rendita catasta­le per stima diretta degli immobili a destinazione speciale e particolare. La struttura del catasto dei fabbricati è imperniata sulle unità immobiliari (U.I.) che vengono suddivise in gruppi, i gruppi in categorie e le categorie in classi.

Il rilievo geometrico, invece, ha come finalità la determinazione:

-          dell'ubicazione, determinata dalla mappa urbana rappresentante tutto il territorio Comunale, divisa in fogli numerati in cui sono rappresentate le particelle edilizie; i fogli sono riuniti in un quadro d'unione;

-          della consistenza del fabbricato, determinata dalla planimetria delle sin­gole U.I., normalmente in scala 1:200. Ogni U.I. è contraddistinta da un numero principale, cioè il numero di mappa della particella edilizia, e da un numero subalterno proprio dell'unità immobiliare.

Le operazioni estimative per la determinazione del reddito sono:

-          la suddivisione in zone censuarie. Essa rappresenta «porzione omogenea del territorio provinciale, che può comprendere un solo comune o porzio­ne del medesimo o gruppi di comuni aventi simili caratteristiche ambien­tali e socioeconomiche». Le zone censuarie sono ulteriormente suddivise in microzone;

-          la qualificazione che consiste nel distinguere le varie tipologie di fabbricato in categorie. Le nuove categorie del catasto fabbricati sono suddivise in 5 gruppi nell'ambito di 2 tipologie di fabbricati mentre le vecchie categorie sono suddivise in 5 gruppi nell'ambito di 3 tipologie ;

-          la classificazione, che consiste nel suddividere ogni categoria in tante classi quanti sono i gradi diversi delle rispettive capacità di reddito. Quindi la classe rappresenta «il livello di reddito ordinariamente ritraibile dall'unità immobiliare (U.I.) nell'ambito del mercato edilizio della microzona, in fun­zione della qualità urbana ed ambientale nonché delle caratteristiche edili­zie dell'U.I. e del fabbricato che la comprende»;

-          il classamento consiste «nell'attribuire a ogni U.I. a destinazione ordinaria la categoria e la classe di competenza e a quella a destinazione speciale la sola categoria, con riferimento ai quadri di qualificazione e classificazione»;

-          La consistenza: i parametri per la misurazione della consistenza catastale dei fabbricati sono stati di recente modificati e, pertanto, i vecchi coesisto­no con i nuovi. I vecchi parametri riferiti alle vecchie categorie catastali sono: per le cate­gorie del gruppo A: il vano utile; per le categorie del gruppo B: il metro cubo; per le categorie del gruppo C: il metro quadrato. Con l'ultima revisione delle zone censuarie, ai sensi del D.P.R. 23‑2‑1998, n. 138 si è stabilito che il parametro per la misurazione della consistenza delle categorie è il metro quadrato di superficie cata­stale.

-          la determinazione delle tariffe. Le tariffe esprimono la rendita catastale per ogni categoria e classe, per unità di consistenza e con riferimento ai prezzi medi correnti nel periodo censuario fissato per legge.

Nota la tariffa e la consistenza si può determinare il reddito imponibile catastale di ogni U.I. La rendita catastale, quindi, è data dal prodotto della consistenza per la tariffa d'estimo.

 

5. ACCERTAMENTO GIURIDICO E FISCALE DI BENE IMMOBILE

Per la più completa conoscenza del bene immobile che si sta trattando è

bene svolgere gli accertamenti giuridici e fiscali che seguono:

a)     accertare se il titolo di proprietà del bene immobile e stato regolarmente trascritto, effettuando una visura presso la Conservatoria dei Registri Immobiliari del Comune di appartenenza. Importante è verificare anche se sussistono trascrizioni o iscrizioni (servitù, ipoteche ecc.) a favore o con­tro. Può essere utile richiedere presso la Conservatoria un certificato storico ventennale;

b)     acquisire l'atto di provenienza del bene immobile. In esso si può rilevare: il nome del notaio che ha stipulato l'atto; luogo e data della stipula; il nume­ro del repertorio notarile; numero di repertorio e data della registrazione presso l'Ufficio del Registro;

c)     Accertare la disponibilità del bene, verificando che:

‑ non vi sia in essere contratto di locazione che rende non disponibile per un certo tempo il bene;

‑ non sia gravato da diritto di godimento da parte di persone fisiche o giuridiche (visura Conservatoria dei Registri Immobiliari);

‑ non sia sottoposto ad enfiteusi; ‑ non sia assoggettato a servitù temporanea o permanente;

‑ non sia assoggettato a limitazioni d'uso previste dal regolamento di con­dominio;

d )acquisire la documentazione catastale per verificarne la rispondenza; la documentazione che ci interessa può essere richiesta conoscendo il nomi­nativo del possessore o il numero del foglio di mappa e particella. In base al nostro interesse si può richiedere:

‑ copia di mappa generalmente in scala 1:1000/1:2000 in cui sono ripor­tate le particelle;

‑ copia delle schede grafiche consistenti in planimetria dell'UT scala 1:200 o elaborato planimetrico scala 1:500

‑ visura o certificato catastale in cui sono riportati: intestazio­ne della ditta catastale con codice fiscale, il numero del foglio di mappa, il numero della particella, il subalterno se trattasi di catasto urbano, ubicazione dell'unità immobiliare, il piano e l'interno, la zona censua­ria, categoria e classe, la consistenza, la rendita catastale.

Spesso non c'è esatta corrispondenza tra i dati catastali e le risultanze della Conservatoria dei Registri Immobiliari in quanto i dati catastali non risultano aggiornati. In questo caso si dovrà provvedere all'aggiornamento dei dati ca­tastali.

Per quanto concerne la valutazione degli immobili ai fini fiscali occorre sottolineare che la rendita catastale, calcolata in base al pregio dell'immobile e al numero dei vani, costituisce il parametro fondamentale di valutazione. Si tenga presente, inoltre, che sui nuovi certificati catastali non sono più indicati i vani catastali mala superficie totale dell'immobile il decurtato nelle percen­tuali dei muri e delle superfici non residenziali e di servizio.

La conoscenza della rendita catastale è essenziale per tale valutazione in quanto è l'unico parametro considerato valido fiscalmente dagli uffici finanziari.

Una valutazione più bassa di quella calcolata in base alla rendita catastale può dare adito ad una richiesta di rivalutazione dell'immobile da parte dell'uf­ficio del registro.

Gli immobili iscritti in Catasto, non sono suscettibili di rettifica di valore (entro due anni dal pagamento dell'imposta) se il valore dichiarato:

  • per i fabbricati non è inferiore alla rendita catastale rivalutata del 5% (a partire dal 1°‑1‑1997) e moltiplicata per: 100 per i fabbricati del gruppo A, B, C (esclusi A/10 e C/1); 50 per i fabbricati delle categorie A/10 e D; 34 per i fabbricati dei gruppi C/1 e E;
  • per i terreni non edificabili non è inferiore al reddito dominicale rivalutato del 25% (a partire dal 1°‑1‑1997) moltiplicato per 75 volte.

Sono esclusi dalla valutazione catastale automatica i terreni edificabili, i fabbricati non censiti (nuove costruzioni o fabbricati rurali venduti separata­mente dal fondo), immobili censiti senza attribuzione di rendita.

I fabbricati rurali che rispettano i criteri di ruralità di cui all'art. 9 del D.L. 557/1993 sono compresi nel valore del terreno non edificabile, se ceduti con lo stesso.

La valutazione catastale si applica anche agli immobili costituenti parte dei complessi aziendali. Il criterio automatico, come sopra definito, si applica a tutte le traslazioni d'azienda (successione, vendita etc.), qualora il valore dell'immobile aziendale sia evidenziato singolarmente nell'atto.

In ogni capoluogo di provincia sono custodite le mappe relative ad ogni territorio comunale. Queste mappe costituiscono il quadro d'insieme del ter­ritorio censito e sono suddivise i fogli. Ogni foglio comprende le particelle che sono riferite alla proprietà, alla superficie e alla qualità.

Le particelle sono raccolte in schedari. Ogni elenco delle particelle, appar­tenenti ad un'unica ditta (proprietà), è riassunto nel registro delle partite. La matricola è l'elenco, in ordine alfabetico dei possessori dei terreni, con l'indi­cazione dei rispettivi redditi imponibili.

Questa suddivisione esiste ancora ed è necessaria per gli uffici che non sono ancora informatizzati.

Con l'unificazione degli uffici del Catasto e con la messa in rete di molti uffici in campo nazionale, la richiesta di visura si concretizza in un certificato per il quale viene dato sia il nome o i nomi dei proprietari sia il numero della particella e foglio del comune ove insiste l'immobile.

Questa informatizzazione degli uffici ha difatti accelerato la pratica delle visure e dei certificati catastali in quanto non è più necessario indicare il nu­mero di partita.

 

 

 

Immobili a destinazione ordinaria

Gruppo A- Categorie (fabbricali per uso abitazione):

A/1

A/2

A/3

A/4

A/5

A/6

A/7

A/8

A/9

- Abitazione di tipo signorile;

- Abitazione di tipo civile;

- Abitazione di tipo economico;

- Abitazione di tipo popolare;

- Abitazione di tipo ultrapopolare;

- Abitazione di tipo rurale;

- Abitazione in villini;

- Abitazione in villa;

- Castelli, palazzi di eminenti pregi artistici o storici

A/10               - Uffici e studi privati;

A/11

- Abitazioni ed alloggi tipici dei luoghi (rifugi di montagna, trulli, baite ecc.).

 

Gruppo B - Categorie (fabbricati collettivi):

B/1

B/2

B/3

B/4

B/5

B/6

B/7

B/8

- Collegi e convitti, educandati, ricoveri, orfanotrofi, ospizi, conventi, seminari, caserme;

- Case di cura ed ospedali (se, non hanno fini di lucro);

- Prigioni e riformatori;

- Uffici pubblici (municipi ecc.);

- Scuole laboratori scientifici;

- Biblioteche, pinacoteche, musei, ecc.;

- Cappelle ed oratori non destinati all'esercizio pubblico de culti;

- Magazzini sotterranei per deposito di derrate.

 

Gruppo C - Categorie (fabbricali ad uso commerciale):

C/1

C/2

C/3

C/4

C/5

C/6

C/7

- Negozi; e botteghe;

- Magazzini e locali di deposito;

- Laboratori per arti e mestieri;

- Fabbricati e locali per esercizi sportivi (se non hanno fini di lucro);

- Stabilimenti balneari e di acque curative;

- Stalle, scuderie, rimesse, autorimesse;

- Tettoie chiuse o aperte.

 


 

Immobili a destinazione speciale

 

Gruppo D - Categorie (fabbricali per uso industriale e commerciale):

 

D/1

D/2

D/3

D/4

D/5

Dl6

D/7

D/8

D/9

- Opifici;

- Alberghi e pensioni;

- Teatri, cinematografi ecc.;

- Case di cura ed ospedali (se hanno fini di lucro);

- Istituti di credito, cambio ed assicurazione;

- Fabbricati e locali per esercizi sportivi (se hanno fini di lucro);

- Fabbricati costruiti o adattati per speciali esigenze di attività industriali;

- . Fabbricati costruiti o adattati per speciali esigenze di attività commerciale;

- Edifici galleggianti o sospesi assicurati o fondi fissi del suolo; fondi privati soggetti a pedaggio.

 

 

Immobili a destinazione particolare

 

Gruppo E - Categorie:

 

E/1

E/2

E/3

- Stazioni per servizi di trasporto, terrestri, marittimi ed aerei;

- Ponti comunali e provinciali soggetti a pedaggio;

- Costruzioni e fabbricati per speciali esigenze pubbliche (edicole per giornali, pese, chioschi ecc.);

 

E/4

- Recinti chiusi per speciali esigenze pubbliche (per mercato, posteggio bestiame

ecc.);

 

E/5

E/6

E/7

E/8

E/9

= Fabbricati costituenti fortificazioni e loro dipendenze;

- Fari, semafori, torri per orologi comunali d'uso pubblico;

- Fabbricati destinati all'esercizio pubblico dei culti;

- Fabbricati e costruzioni nei cimiteri;

- Edifici a destinazione particolare non compresi nelle categorie precedenti del gruppo

E.

 

 

 

Tav. 1 - Gruppi e categorie catastali.

 

Quadro generale delle nuove categorie suddivise in 5 gruppi (D.P.R. n. 13811998)

 

UNITÀ IMMOBILIARI ORDINARIE (gruppi R, P, T)

 

Gruppo R

Unita immobiliari a destinazione abitativa di tipo privato

 

R/1

R/2

R/3

- Abitazioni in fabbricati residenziali e promiscui.

- Abitazioni in villino e in villa.

- Abitazioni tipiche dei luoghi.

 

Gruppo P

Unita immobiliari a destinazione pubblica

 

P/1

P/2

P/3

P/4

P/5

- Unità immobiliari per residenze collettive e simili.

- Unità immobiliari per funzioni sanitarie.

- Unità immobiliari per funzioni rieducative.

- Unità immobiliari per funzioni amministrative, scolastiche e simili.

- Unità immobiliari per funzioni culturali e simili.

 


 

Gruppo T

Unita immobiliari a destinazione terziaria

 

T/1

T/2

T/3

T/4

T/5

T/6

T/7

- Negozi e locali assimilabili.

- Magazzini, locali da deposito e laboratori artigianali.

- Fabbricati e locali per esercizi sportivi.

- Pensioni.

- Autorimesse, autosilos e parcheggi a raso di tipo pubblico.

- Stalle scuderie e simili.

- Uffici, studi e laboratori professionali.

 

UNITÀ IMMOBILIARI SPECIALI (gruppi V, Z)

 

Gruppo V

Unità immobiliari speciali per funzioni pubbliche

 

V/1

 

V/2 V/3

V/4

V/5

V/6

- Stazioni per servizi di trasporto terrestri, marittimi, aerei ed impianti di risalita.

- Stabilimenti balneari e di acque curative.

- Fiere permanenti, recinti chiusi per mercati, posteggio bestiame e simili.

- Fabbricati destinati all'esercizio pubblico dei culti, cappelle ed oratori.

- Ospedali.

- Fabbricati, locali, aree attrezzate per esercizi sportivi e per divertimento, arene e parchi zoo.

- Unità immobiliari a destinazione pubblica o di interesse collettivo non censibili nelle categorie di gruppo P per la presenza di caratteristiche non ordinarie ovvero non riconducibili, per destinazione, alle altre categorie del gruppo V

V/7

 

 

Gruppo Z

Unità immobiliari a destinazione terziaria, produttiva e diversa

 

Z/1

Z/2

Z/3

Z/4

Z/5

Z/6

Z/7

Z/8

Z/9

Z/10

- Unità immobiliari per funzioni produttive.

- Unità immobiliari per funzioni produttive connesse all'agricoltura.

- Unità immobiliari per funzioni terziario-commerciali.

- Unità immobiliari per funzioni terziario-direzionali.

- Unità immobiliari per funzioni ricettive.

- Unità immobiliari per funzioni culturali e per lo spettacolo.

- Stazioni di servizio e per la distribuzione dei carburanti agli autoveicoli.

- Posti barca compresi in porti turistici.

- Edifici galleggianti o sospesi assicurati a punti fissi del suolo.

- Unità immobiliari a destinazione residenziale o terziaria, non censibili nelle categorie dei gruppi R e T, per la presenza di caratteristiche non ordinarie, ovvero unità immobiliari non riconducibili, per destinazione, alle altre categorie del gruppo Z.

 

 

 

Tav. 2 - Gruppi e categorie catastali D.PR. 168/1998.

 


NORME TECNICHE PER LA DETERMINAZIONE

DELLA SUPERFICIE CATASTALE DELLE UNITA IMMOBILIARI

A DESTINAZIONE ORDINARIA (GRUPPI R, P, T)

CRITERI GENERALI

1. Nella determinazione della superficie catastale delle unità immobiliari a destinazione ordinaria, i muri interni e quelli perimetrali esterni vengono computati per intero fino ad uno spessore massimo di 50 cm mentre i muri in comunione nella misura del 50 per cento, fino ad uno spessore massimo di 25 cm.

 

2. La superficie dei locali principali e degli accessori, ovvero loro porzioni, aventi altezza utile inferiore a 1,50 m., non entra nel computo della superficie catastale.

 

3. La superficie degli elementi di collegamento verticale, quali scale, rampe, ascensori e simili, interni alle unità immobiliari sono computati in misura pari alla loro proiezione orizzontale, indipendentemente dal numero di piani collegati.

 

4. La superficie catastale, determinala secondo i criteri esposti di seguito, viene arrotondata al

metro quadrato.

CRITERI PER 1 GRUPPI «R» E «P»

1. Per le unità immobiliari appartenenti alle categorie dei gruppi R e P, la superficie catastale è data dalla somma:

a) della superficie dei vani principali e dei vani accessori a servizio diretto di quelli principali, quali bagni, ripostigli, ingressi, corridoi e simili;

b) della superficie dei vani accessori a servizio indiretto dei vani principali, quali soffitte, cantine e simili, computata nella misura:

- del 50 per cento, qualora comunicanti con i vani di cui alla precedente lettera a);

- del 25 per cento qualora non comunicanti;

c) della superficie dei balconi, terrazze e simili, di pertinenza esclusiva della singola unità immobiliare, computata nella misura:

- del 30 per cento, fino a metri quadrati 25, e del 10 per cento per la quota eccedente, qualora dette pertinenze siano comunicanti con i vani di cui alla precedente lettera a);

- del 15 per cento, fino a metri quadrati 25, e del 5 per cento per la quota eccedente, qualora non comunicanti.

Per le unità immobiliari appartenenti alle categorie del gruppo P, la superficie di queste pertinenze è computata nella misura del 10 per cento;

d) della superficie dell'area scoperta o a questa assimilabile, che costituisce pertinenza

esclusiva della singola unità immobiliare, computata nella misura del 10 per cento, fino

alla superficie definita nella lettera a), e del 2 per cento per superfici eccedenti detto

limite. Per parchi, giardini, corti e simili, che costituiscono pertinenze di unità immobiliari di categoria R/2, la relativa superficie è da computare, con il criterio sopra indicato,

solo per la quota eccedente il quintuplo della superficie catastale di cui alla lettera a).

Per le unità immobiliari appartenenti alle categorie del gruppo P dette pertinenze non

sono computate.

2. La superficie dei vani accessori a servizio diretto delle unità immobiliari di categoria R/4 è computata nella misura del 50 per cento.

3. Le superfici delle pertinenze e dei vani accessori a servizio indiretto di quelli principali, definite con le modalità dei precedenti commi, entrano nel computo della superficie catastale fino ad un massimo pari alla metà della superficie dei vani di cui alla lettera a) del comma 1.

 


CRITERI PER IL GRUPPO «T»

1. Per le unità immobiliari appartenenti alle categorie del gruppo T, la superficie catastale è data dalla somma:

a) della superficie dei locali aventi funzione principale nella specifica categoria e dei locali accessori a servizio diretto di quelli principali;

b) della superficie dei locali accessori a servizio indiretto dei locali principali computata nella misura:

- del 50 per cento, se comunicanti con i locali di cui alla precedente lettera a);

- del 25 per cento se non comunicanti;

c) della superficie dei balconi, terrazze e simili computata nella misura del 10 per cento;

d) della superficie dell'area scoperta o a questa assimilabile, che costituisce pertinenza esclusiva della singola unità immobiliare computata nella misura del 10 per cento, ovvero, per le unità immobiliari di categoria T/1, nella misura del 20 per cento.

2. Per le unità immobiliari appartenenti alla categoria T/1 , la superficie dei locali accessori a servizio diretto di quelli principali di cui alla lettera a) del precedente comma 1, è computata nella misura del 50 per cento.

Tav. 3 -Allegato C al D.RR. 138/1998.

 

 

 

 

 

L'estimo dei beni immobili

1. INTRODUZIONE

L’estimo è la disciplina economica che studia le metodologie da applicare per giungere all'espressione di un giudizio di valore in merito a beni privati e pubblici.

L'estimo, quindi, si occupa di dare un valore ai beni economici sia che abbiano un prezzo di mercato esplicito, sia che non l'abbiano.

Sono oggetto di valutazione:

  • i beni materiali: a fecondità semplice (foraggio, frutti naturali), a fecondità ripetuta per un tempo limitato (attrezzi), per un tempo illimitato (fondi, fabbricati);
  • i frutti forniti da un bene materiale;
  • i redditi gravanti sui beni a favore di altri (usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi).

L’estimo si divide in due categorie:

1)      generale (teorie relative alla valutazione dei beni);

2)      speciale (soluzione dei problemi di stima).

L'estimo generale che tratta gli aspetti economici del bene e i criteri di stima.

L'estimo speciale, secondo la natura e la destinazione economica dei beni oggetto di valutazione, si divide in:

o        agrario o rurale (fondi agrari);

o        civile (fabbricati ad uso abitativo, commerciale, artigianale);

o        industriale e commerciale (aziende industriali e commerciali);

o        catastale (stima ai fini fiscali di beni immobili).

Il prezzo o valore di mercato é dato dalla moneta (somma di danaro) corri­sposta, nel momento in cui avviene lo scambio, per un determinato bene eco­nomico. Il prezzo di mercato è uno solo e si riferisce sempre ad un fatto avvenuto in un determinato momento storico. Il valore di stima è il giudizio formulato da un perito per un dato scopo e un determinato fine. II valore di stima può essere diverso in base a chi lo formula (valore soggettivo dell'estimatore) e varia in funzione dello scopo per cui viene eseguita la stima. Il valore di stima è, quindi, un giudizio che parte da determinate premesse e si conclude e perfeziona con un prezzo.

 

2. IL GIUDIZIO DI STIMA

Il giudizio di stima si basa su tre elementi che sono:

  • la conoscenza dello scopo della stima;
  • la conoscenza tecnica del bene;
  • la conoscenza economica del mercato.

La stima è il procedimento avente per oggetto la valutazione in denaro di beni economici, tra questi vi sono i fabbricati e le aree edificabili, in questo caso si tratta di stima immobiliare.

Essa è sempre preceduta da accurate indagini di mercato, attraverso le quali si cerca di conoscere i prezzi che normalmente vengono praticati nelle libere contrattazioni di compravendita di edifici con caratteristiche simili a quello che noi dobbiamo valutare. In concreto si cercherà di conoscere (per i

fabbricati di abitazione, negozi, terreni ecc.), i fitti medi, i prezzi medi corren­ti a metro cubo di edificio e a metro quadrato di superficie coperta o superfi­cie utile.

Un giudizio di stima obbiettivo, deve essere caratterizzato da:

  • logica e razionalità, per cui il ragionamento deve essere lineare e convin­cente, giustificato da riferimenti concreti;
  • praticità, per cui deve soddisfare le esigenza per cui è richiesto;
  • previsione, cioè l'estimatore deve tener conto dei possibili comportamenti futuri e investimenti del bene oggetto di stima;
  • la probabilità che certe condizioni considerate continuino a verificarsi nel tempo previsto;
  • l'ordinarietà, ovvero il bene deve essere utilizzato nelle condizioni ordina­rie, non fuori dal comune, e secondo le sue condizioni attuali.

Il bene oggetto di valutazione normalmente va considerato secondo lo sta­to in cui trovasi all'epoca della stima, salvo le eventuali aggiunte o detrazioni che il perito ritiene opportuno. Il procedimento di stima può essere analitico o sintetico e prevede sempre la comparazione dei beni.

La stima analitica si esegue per valutare un bene secondo il reddito che produce; essa si può suddividere in:

-          stima per capitalizzazione dei redditi in base al bilancio economico dei red­diti e delle spese;

-          a sito e cemento tenendo conto delle spese di demolizione, del valore dei materiali che si possono recuperare e del valore del suolo;

-          a costo di costruzione in base ad un computo metrico relativo alle singole opere occorrenti per la realizzazione del fabbricato ex novo.

La stima sintetica si determina moltiplicando l'entità del parametro tecnico del bene da valutare per il prezzo riferito all'unità parametrica scelta. La ricerca del prezzo unitario è opportuno che venga eseguita in base ad indagine statisti­ca, da condurre nella zona in cui è situato l'immobile oggetto di stima.

 

Al valore determinato si potranno apportare eventuali aggiunte e detrazio­ni per considerare le particolari condizioni del bene.

La stima sintetica comparativa può essere a sua volta:

-          in base a parametri tecnici, quali: costo a metro cubo vuoto per pieno, costo a metro quadrato di superficie utile o superficie coperta;

-          in base ai parametri economici, quali: fitto e reddito presi come termine di confronto, in relazione ad altri beni simili già compravenduti; ‑ ad impressione o a vista si ha quando si confronta, mentalmente, il bene da stimare con altri già venduti presi come termine di confronto.

I fattori che influenzano una stima possono essere fattori intrinseci o estrin­seci; i fattori intrinseci sono:

-          la superficie;

-          l'estetica;

-          l'esistenza di locali condominiali;

-          le rifiniture e lo stato di conservazione;

-          la grandezza dei vani in funzione all'uso;

-          la destinazione interna;

-          i servizi;

-          la rispondenza allo scopo per cui è stato costruito.

I fattori estrinseci sono:

-          la salubrità del luogo;

-          l'ubicazione rispetto alle strade, ai servizi e al centro abitato;

-          l'esistenza e l'efficienza dei servizi che servono la zona, quali: trasporti pubblici, energia elettrica, gas metano, acqua ecc.

-          il ceto sociale prevalente che caratterizza il quartiere.

 

3. ASPETTI ECONOMICI DEL BENE E PARAMETRI DI STIMA

La valutazione del bene da stimare può essere eseguita in base ad uno dei seguenti aspetti economici:

-          il costo di costruzione;

-          il valore di trasformazione;

-          il valore di mercato;

-          il valore di capitalizzazione dei beni;

-          il valore complementare.

Questi si utilizzano a seconda dello scopo pratico per cui viene richiesta la stima. Le unità di misura relative al bene da stimare in rapporto diretto è costan­te col valore del bene stesso si chiamano parametri. Se i parametri esprimono la quantità fisica del bene si chiamano parametri tecnici, mentre se esprimono l'attitudine del bene a creare utilità e ricchezza si chiamano parametri econo­mici.

I parametri tecnici che più frequentemente si usano sono:

-          superficie (fondi, aree fabbricabili, fabbricati, appartamenti);

-          numero dei vani (per fabbricati civili);

-          volume (beni consumabili, legno, vino, olio, volume dei fabbricati);

-          il peso (beni venduti a peso).

I parametri economici più frequentemente usati sono:

-          canone di locazione (fondi e fabbricati);

-          reddito imponibile (fabbricati e dominicale per i terreni);

-          la produzione lorda (fondi);

-          il reddito netto dell'imprenditore (fondi).

A questo punto è bene esaminare alcuni degli aspetti economici:

-          il costo riguarda le somma delle spese che un imprenditore ha sostenuto o deve sostenere per costruire un fabbricato; si ha costo di costruzione soste­nuto o da sostenere per costruire un fabbricato, e costo di ricostruzione che rappresenta la somma delle spese che si sosterrebbe al momento della sti­ma per costruire un edificio già esistente. Al costo si può pervenire: per via sintetica mediante i parametri tecnici; per via analitica mediante computo metrico estimativo in cui saran­no comprese le seguenti voci: prezzo dell'area; costo dei materiali in opera; interessi passivi, prevedendo, inoltre, anche le spese di proget­tazione, spese di allaccio di servizi, oneri di urbanizzazione, imposte e tasse. Il valore di costo così determinato di un vecchio edificio viene in genere deprezzato a seconda dello stato di deperimento. Questo aspetto economico si utilizza, per esempio, per effettuare preventi­vi; per valutare i danni subiti; per determinare il valore dell'edificio quan­do non esiste un prezzo di mercato;

-          il prezzo è la quantità di danaro che viene pagata in cambio di un certo bene. Attraverso la domanda e l'offerta si forma il prezzo corrente di una determinata categoria di beni che viene chiamata prezzo di mercato; que­st'ultimo deriva, quindi, da rapporti economici già verificatisi;

-          il valore di mercato si può definire come un prezzo di previsione che formu­la l'estimatore; il valore di mercato esprime, infatti, il prezzo che l'estima­tore reputa si debba pagare in cambio di un certo bene. Normalmente valore e prezzo tendono a coincidere.

 

 

4. PROCEDIMENTI DI STIMA

A) Stima a valore di mercato

Il valore di mercato, in regime di libera concorrenza, è dato dal rapporto della domanda e dell'offerta che si registra per il bene considerato. Il valore di mercato è sempre riferito ad un prezzo medio relativo a beni, con caratteristiche uniformi, per i quali si sono formati prezzi diversi.

Il criterio di stima da adottare è quello di confrontare il bene da stimare con altri aventi caratteristiche simili che sono stati oggetto di compravendita avvenuta nella stessa zona. Per fare questa stima è necessario assumere un valore detto parametro che è un elemento tecnico od economico comune e la sua variazione è proporzio­nata al variare del valore dei beni. Il parametro di riferimento può essere: la superficie, il canone di locazio­ne, il reddito imponibile, il numero dei vani ecc. Per procedere ad una valutazione di mercato del bene, dopo aver accertato i beni con caratteristiche simili, venduti recentemente nella zona interessata, rilevato i prezzi corrispondenti di mercato e stabilito il parametro di riferi­mento, attraverso una proporzione, si risale al valore di mercato. Considerando:

Vx = valore del bene

px = parametro del bene

ΣV= sommatoria dei prezzi di mercato dei beni simili

Σρ = sommatoria dei relativi parametri

Si ha

 

ΣV

 

Vx:px = ΣV: Σρ = da cui Vx =

_________ . px

Σρ

 

 

 

 

 

 

B) Stima per capitalizzazione dei redditi

Questo procedimento di stima consiste nel determinare il valore capitale del bene e si può sintetizzare nelle seguenti fasi:

a)     esame dei fattori intrinseci ed estrinseci del fabbricato;

b)     determinazione del reddito lordo annuo (fitto) riferito a fine anno. Il reddi­to lordo equivale al canone annuo di fitto riferito a fine anno; esso può essere reale se il fabbricato è locato, presunto se non è dato in locazione;

c)     determinazione delle spese medie annue. Le spese e perdite a carico del proprietario annue approssimative relative a fabbricati di abitazione sono:

‑ spese condominiali a carico del locatore 2‑3%;

‑ lavori periodici (manutenzione straordinaria ecc.) 6‑8%;

‑ sfitto e insolvibilità 2‑3%;

‑ imposizioni fiscali (IRPEF, ICI) variabili in base al reddito del proprietario 26%;

‑ spese di gestione 2%;

‑ spese medio annue incidenti sul fitto lordo circa il 41%;

d)     determinazione del beneficio fondiario (Bf) da capitalizzare; il Bf si ricava sottraendo dal reddito lordo tutte le spese e perdite che il proprietario del fabbricato deve sostenere. Quindi il Bf = R‑S dove: Bf beneficio fondiario, R canone di fitto annuo, S spese e perdite;

e)     scelta del saggio di capitalizzazione e risoluzione della relativa formula. Il valore capitale «V» è dato da V = Bf/r. Dalla formula si evidenzia che capitalizzando il beneficio fondiario Bf, cioè dividendolo per r, è possibile conoscere il valore del capitale V capa­ce di generarlo. La scelta del tasso di capitalizzazione r è molto delicata, infatti, nella stima analitica, operare con un tasso differente in più o in meno anche di un punto, significa approdare a risultati notevolmente diversi in quanto aumentando il tasso diminuisce il valore del capitale e viceversa. La ricerca del tasso di capitalizzazione va fatta dal professionista sulla base del mercato vigente in loco, precisamente occorre rilevare dal mercato prezzi e redditi recenti di fabbricati simili a quello da stimare e determinare i rispettivi benefici fondiari; dal rapporto

 

 

Σ Bf

= r

ΣVf

 

si ottiene il saggio medio da applicare.

Qualora il mercato non sia in grado di fornire un risultato attendibile il professionista esegue una ricerca sulla base di ragioni politico‑economico­sociali e sulla base della sicurezza dell'investimento. Comunque in base all'esperienza personale si consiglia di adottare i se­guenti tassi di capitalizzazione (r): dal 2% al 3% per case di abitazione, negozi, magazzini; dal 3% al 4% per fondi rustici; dal 4% al 5% per investi­menti industriali, essendo più rischiosi;

f)       eventuali aggiunte e detrazioni al valore capitale trovato. Una volta deter­minato il valore V dell'immobile secondo il principio dell'ordinarietà, oc­corre effettuare eventuali aggiunte e/o detrazioni per riportarlo alle sue reali condizioni.

Le aggiunte principali sono:

-          aree annesse;

-          servitù attive;

-          opere d'arte non asportabili;

-          esenzione temporanea dell'imposta sui redditi; impianti in più rispetto all'ordinarietà.

Le detrazioni principali sono:

-          mutui ipotecari;

-          diritti di usufrutto, abitazione o superficie;

-          servitù passive;

-          spese di riparazione;

-          eventuali debiti fiscali, o accertamenti in corso che possono avere privilegi sull'immobile;

-          impianti o dotazioni mancanti rispetto ad edifici simili della zona.

Dalla stima relativa alla formula V = Bf/r scaturisce il probabile valore di mercato di un fabbricato nuovo, capace di assicurare quel determinato fitto; se il fabbricato da valutare è vecchio o costruito da oltre 15 anni il valore di stima deve essere ridotto di una certa quota di vetustà, a seconda della età della costruzione ed indipendentemente dalle detrazioni o aggiunte che l'estimatore ritiene opportuno di fare per tener conto delle altre circo­stanze.

Tale quota di vetustà si può dedurre dalla presente tabella:

 

Detrazione per vetustà

Considerazioni

dal 3% al 5%

Fino a 15 anni abbisogna solo di piccole riparazioni e vernicia­ture

dall'8% al 15 %

Intorno ai 40 anni abbisogna di manutenzione straordinaria sia sulle strutture che sugli impianti

dal 20% al 25%

Intorno agli 80 anni abbisogna di radicali rinnovamenti

dal 30% al 50%

Abbisogna di riattamento, rafforzamento delle struttura por­tante, rifacimento copertura

 

Nota Bene: questo genere di tasso r è diverso dal tasso di interesse che rappresenta il costo del denaro praticato nelle operazioni bancarie e che adottiamo nella determinazione delle spese da computare nei proce­dimenti di stima.

 

C) Stima analitica a sito e cemento

Questo tipo di stimasi adotta quando il fabbricato è vetusto a tal punto che si ritiene conveniente la demolizione, onde poter disporre del sito e dei mate­riali di risulta riutilizzabili. In questo caso il valore del fabbricato Vf è dato dal valore del sito più quello del materiale di risulta riutilizzabili. A tale valore verranno sottratte le spese per la demolizione, le spese per il recupero dei materiali e le spese per il trasporto; quindi si ha la formula:

Vf = Vsito + Vmater. Riut. ‑ Sp

Le spese per la demolizione di un fabbricato sono variabili ed aumentano con l'aumentare dell'altezza del fabbricato stesso e secondo le macchine e sistema di demolizione che si adotta. Se la demolizione viene eseguita a brac­cia con martelli demolitori e con uso di ponteggi, in presenza di difficoltà le spese aumentano sensibilmente. Dato l'alto costo della manodopera si recuperano pochi materiali che fini­scono anch'essi a discarica o vengono ceduti gratuitamente ai trasportatori.

 

D) Stima a costo di costruzione

Questa stima viene utilizzata quando si deve valutare un fabbricato che per la sua particolare caratteristica costruttiva esula dall'ordinarietà ed il mercato non offre sufficienti termini di confronto. La stima a costo di costruzione di un fabbricato consiste nel determinare il costo per la costruzione di esso. Tale costo di costruzione comprende le spese generali più l'utile del co­struttore che oscilla intorno al 15/20 %; comprende anche le spese di proget­tazione, direzione lavori, collaudo ed accatastamento del fabbricato nonché gli oneri concessori, interessi passivi, tasse ed oneri. Di questo metodo di stima si fa uso particolarmente durante le espropria­zioni per causa di pubblica utilità. La stima va eseguita sulla base di un dettagliato computo metrico delle varie parti che compongono il fabbricato e dei lavori e prestazioni accessorie connesse all'edificazione. Con questo metodo di stima si ottiene il valore a nuovo del fabbricato; se esso già è esistente e si deve stimare a valore di ricostruzione, allora il valore a nuovo che si determina deve essere ridotto di una certa quantità, a secondo del grado di vetustà e dello stato di manutenzione.

 

E) Stima del valore di trasformazione

Si ottiene per differenza tra il valore dell'immobile a trasformazione avve­nuta ed il costo necessario per la trasformazione stessa.

Si ricorre a tale aspetto economico per stimare fabbricati a cui si vogliono apportare trasformazioni e miglioramenti; questi fabbricati si prestano a tra­sformazioni di vario genere quali: trasformazione di una caserma in ospeda­le, in scuola, in appartamenti; trasformazione di un appartamento grande in più appartamenti ecc. Si può dire che la trasformazione e conveniente se il valore di trasforma­zione è maggiore del valore di mercato del bene originario da trasformare.

Tale tipo di stima può essere richiesta:

  • per conoscere il costo di trasformazione, in tal caso il quesito viene risolto mediante la stima delle spese da affrontare per operare la trasformazione;
  • per conoscere l'esistenza o meno della convenienza in tal caso è necessario conoscere: il valore di mercato del fabbricato trasformato, il costo di trasformazione e il valore di mercato del fabbricato originario da trasformare.

 

F) Stima del valore complementare

Il valore complementare di un fabbricato è dato dal valore di mercato del fabbricato considerato integro, meno il valore di mercato del medesimo conside­rato privo della parte da stimare; più sinteticamente si può dire che è dato dalla differenza fra il valore dell'intero fabbricato ed il valore della parte residua. Da quanto detto, il valore complementare di un fabbricato non è altro che il valore di mercato di una parte integrante del fabbricato stesso. Per chiarire meglio il concetto si svolge il seguente esempio.

A seguito di esproprio, un alloggio al piano terra composto di quattro ca­mere ed accessori viene privato del pranzo soggiorno; determinare l'indennità di espropriazione.

 

Posto che:

-          prima dell'esproprio il proprietario ritirava un affitto netto di euro 3.098,74;

-          la parte residua viene trasformata in magazzino; il costo di tale trasformazione viene valutata in euro 61.974,83;

-          affittando il magazzino il proprietario può ritirare un fitto annuo netto di euro 2.169,39.

L'indennità di esproprio viene determinata dalla differenza fra il valore dell'immobile prima dell'espropriazione ed il valore dell'immobile dopo l'espropriazione:

a) valore dell'immobile prima dell'espropriazione:

Bf/r = 3.098,74/0.045 = euro 68.860,92

b) valore dell'immobile dopo l'espropriazione:

Bf/r = 2.169,19/0.045 = euro 48.202,64

la differenza  euro 20.658,28

c) spesa per la trasformazione del fabbricato residuo a magazzino, a carico della ditta esproprianda

euro 6.197,48

indennità di espropriazione euro 26.855,75

 

G) Stima di fabbricati industriali

Premesso che tali edifici hanno particolari caratteristiche costruttive pro­prie che si discostano quasi sempre dall'ordinarietà si può affermare che rara­mente è possibile adottare la stima sintetica a favore della stima analitica a costo di costruzione, per capitalizzazione dei redditi o a sito e cemento.

 

H) Stima dei fabbricati rurali

È bene ricordare che un fabbricato rurale è parte integrante dell'azienda agricola e pertanto forma un tutt'uno con il capitale fondiario. Quando la stima non ha per oggetto una azienda agricola ma un comune fabbricato rurale con o senza annessa porzione di terreno agricolo, questo si può valutare eventualmente aggiungendo il valore di mercato del terreno. In questo caso si adotterà la stima a prezzo di costruzione o a sito e cemento se il fabbricato è troppo vecchio.

 

I) Stima per il credito fondiario ed edilizio

Il credito fondiario è una forma di finanziamento, riservato ai proprietari di beni immobili, che viene effettuata dagli istituti bancari previa una garan­zia da parte del richiedente. La garanzia consiste nell'accendere una ipoteca di primo grado sui beni immobili del beneficiario a favore dell'istituto di credito. L'ipoteca, secondo l'art. 2808 c.c., è un diritto reale di garanzia concesso dal debitore (o da un terzo) su un bene, a garanzia di un credito, che attribu­isce al creditore il potere di espropriare il bene e di essere soddisfatto con preferenza, rispetto ad eventuali altri creditori, sul prezzo ricavato. Generalmente si tratta di mutuo a lunga scadenza che viene estinto me­diante la restituzione della somma in quote di ammortamento costanti, com­prensive di quote capitale ed interessi. Le scadenze delle quote possono essere frazionate in rate mensili, bimestrali, trimestrali, quadrimestrali, semestrali. La rata costante da restituire può essere calcolata mediante le formule vi­ste nella matematica finanziaria. Normalmente l'entità del mutuo non eccede il 50% del valore dell'immobile offerto in garanzia eccezionalmente può arri­vare al 70%.

Per l'accertamento del valore dell'immobile da ipotecare gli istituti di cre­dito forniscono precise istruzioni di natura prudenziale ai periti, affinché il credito concesso sia garantito abbondantemente. A1 bene bisogna attribuire un valore, che nel caso di futura vendita all'asta verrà certamente realizzato. Dell'immobile offerto in garanzia viene assunto il minor valore di mercato che esso può assumere durante la durata del mutuo, servendosi del Bf corrispondente alla rendita annua minima, certa e conti­nuativa, che l'immobile può dare durante il periodo di durata del mutuo. Anche il tasso di capitalizzazione deve essere assunto con prudenza, per­tanto, esso sarà più alto di quello effettivo; a tal proposito spesso gli istituti di credito indicano entro quali limiti esso deve oscillare. Il valore dell'immobile offerto in garanzia va determinato sottraendo a quello attuale di mercato calcolato tenendo conto delle restrizioni sopra descritte, la sommatoria del deperimento annuo per vetustà per l'intera durata del mutuo, scontata all'attualità. Le quote di vetustà del fabbricato possono essere desunte da apposite tabelle oppure si possono calcolare con le formule della matematica finanziaria:

L) Stima di un fabbricato gravato da usufrutto, uso, abitazione

L'usufrutto è un diritto reale di godimento su cosa altrui. Si concreta nel diritto riconosciuto all'usufruttuario di godere ed usare della cosa altrui, tra­endo da essa tutte le utilità che può dare, compresi i frutti che essa produce, con l'obbligo di non mutarne la destinazione economica (artt. 981, 984 c.c.). All'usufruttuario non competono solo specifiche forme di utilizzazione del bene, come avviene negli altri diritti reali di godimento, ma tutte le forme di utilizzazione che non sono escluse dal titolo. Sotto questo profilo si può dire che l'usufrutto è il tipico diritto reale di godimento a contenuto generale, su­bordinato solo ai limiti della temporaneità e dell'obbligo di rispettare la desti­nazione economica del bene. L'usufrutto, a differenza degli altri diritti reali, è caratterizzato dalla tem­poraneità: esso non può eccedere in nessun caso la vita dell'usufruttuario, se si tratta di persona fisica, o i trenta anni se si tratta di persona giuridica. I:usufrutto può acquistarsi per legge, per contratto, per testamento, per usucapione.

Per la stima che ci riguarda, la cosa goduta può anche essere concessa in locazione. L'uso è un diritto reale limitato di godimento che attribuisce al suo titolare il potere di servirsi di un bene e, se esso è fruttifero, di raccoglierne i frutti, ma solo limitatamente a quanto occorre ai bisogni suoi e della sua famiglia (artt. 1021, 1023‑1026 c.c.). Il diritto di uso ha carattere personalissimo e non può essere ceduto o dato in locazione; secondo la giurisprudenza il divieto di cessione può, tuttavia, essere superato con il consenso del nudo proprietario. L’abitazione è il diritto di abitare una casa limitatamente ai bisogni del titolare e della sua famiglia (artt. 1022‑1026 c.c.). Ha carattere personalissimo, quindi, non può essere ceduto, né locato, né sottoposto a sequestro. È un diritto che può essere costituito per atto di volon­tà e anche per legge. Tali diritti e gli immobili che ne sono oggetto si valutano con le formule dell'estimo. Il caso più frequente di valutazione è quello di un immobile gravato da servitù oggetto di compravendita o divisione ereditaria. Premettendo che il nudo proprietario può godersi l'immobile solo alla ces­sazione della servitù, il valore attuale dell'immobile è dato dalla differenza tra il probabile prezzo di mercato del bene considerato libero dalla servitù, ed il cumulo dei futuri redditi netti che l'immobile è capace di produrre dal giorno della stima all'anno in cui viene liberato l'immobile, scontato all'attualità.

 

M)Stima delle aree fabbricabili

Il valore di un'area edificabile varia da luogo a luogo anche nell'ambito dello stesso centro abitato per cui la sua stima va sempre preceduta da indagi­ni approfondite ed il prezzo di mercato va analizzato dall'estimatore, tenendo presente lo strumento urbanistico vigente nel Comune. Il piano regolatore generale ed il piano regolatore esecutivo, insieme ai piani particolareggiati ed al regolamento edilizio sono gli strumenti urbani­stici attraverso i quali viene disciplinato lo sviluppo urbanistico del territorio del Comune. Analizzando tali strumenti urbanistici, il perito deve riconoscere: se l'area ricade in zona edificabile urbana o in zona agricola; se l'area è vincolata; se l'area è da espropriare. Nel caso in cui l’area da stimare ricada in zona edificabile il suo valore varia in funzione di fattori o condizioni intrinseche ed estrinseche.

Tra le condizioni intrinseche sono da ricordare:

-          il coefficiente di edificabilità If;

-          le dimensioni del lotto (in genere il lotto più piccolo ha valore unitario maggiore);

-          la forma geometrica del lotto (le forme regolari valgono di più);

-          la lunghezza del fronte stradale (un fronte stradale maggiore da più valore al lotto);

-          l'ampiezza della strada;

-          la giacitura del terreno (i lotti pianeggianti valgono di più);

-          l'esposizione (le aree esposte a sud valgono di più);

-          la natura del terreno (il paludoso vale di meno);

-          la distanza del lotto dagli allacciamenti (la vicinanza delle reti di servizi influisce positivamente sul valore);

-          facilità di accesso dalla strada principale;

-          aspetto paesaggistico dell'area;

-          grado di inquinamento dell'aria e dell'acqua.

Tra le condizioni estrinseche sono da ricordare:

-          la posizione del lotto (zona centrale, periferica ecc.);

-          la vicinanza ai servizi (scuole, uffici ecc.);

-          la salubrità della zona (se vicina a parchi o vicino ad industrie);

-          la panoramicità;

-          l'efficienza dei servizi pubblici (opere di urbanizzazione primarie e secondarie);

-          la rumorosità della zona;

-          vincoli legali (possibilità di esproprio pubblica utilità, servitù attive e passive).

I terreni edificabili si valutano secondo il libero mercato cioè secondo come varia la domanda e l'offerta; a tale scopo si può utilizzare la stima sintetica o stima analitica. La stima sintetica delle aree edificabili si ottiene applicando alla superficie del terreno da valutare il prezzo di mercato corrente nella stessa zona per i terreni simili a quello da stimare già oggetto di compravendita. Qualora il bene da valutare differisca sensibilmente dal bene di riferimento, il tecnico ne terrà conto mediante aggiunte o detrazioni.

 

N) Stima dei terreni agricoli

La stima di un fondo rustico si dice a «cancello aperto» quando riguarda solo il capitale fondiario, a «cancello chiuso» se comprende anche le scorte. In questo ultimo caso al valore del fondo a «cancello aperto» si dovrà somma­re il valore delle scorte.

La stima di un fondo rustico si può eseguire secondo due aspetti economici:

-          il più probabile valore di mercato;

-          il più probabile valore complementare.

Il procedimento di stima che generalmente si segue è il procedimento diret­to o sintetico basato sui reali valori di mercato.

Nella stima secondo l'aspetto economico del valore di mercato il perito deve giudicare la quotazione che il fondo potrebbe spuntare in una libera contrattazione di compravendita con riferimento al momento in cui viene ef­fettuata la stima. È quindi indispensabile:

-          che esistano fondi simili che siano stati, di recente, oggetto di compravendita;

-          che di questi fondi simili si conoscano i prezzi di vendita.

Per la determinazione del valore di mercato con il procedimento sintetico si applica la nota equazione:

Dove: ΣVm = sommatoria dei prezzi di mercato dei fondi simili

Σp = sommatoria dei parametri relativi ai fondi simili

Vm = valore ordinario del fondo oggetto di stima

p = parametro relativo al fondo oggetto di stima